Mentre le cronache dei giornali e le trasmissioni televisive di approfondimento si occupano, e più che doverosamente, dei casi Santanché, Delmastro e La Russa, il governo si muove su tre piani distinti e convergenti al tempo stesso in una logica di destrutturazione progressiva dei diritti fondamentali sul terreno squisitamente sociale, democratico e civile.
Impossile leggere altrimenti gli attacchi portati dal ministro Nordio e dalle “fonti di Palazzo Chigi” (che la Presidente del Consiglio ha affermato di condividere) tramite una prospettata riforma della giustizia che va dall’abolizione dell’abuso d’ufficio alla revisione del concorso esterno per associazione mafiosa.
Ed impossibile, altresì, dare altra interpretazione all’atto di precettazione delle lavoratrici e dei lavoratori del comparto dei trasporti ferroviari che, nella sostanza, è un disconoscimento del pieno diritto di sciopero, raccontato ai cittadini come ad una doverosa misura contro quello che si vorrebbe far passare, se non come un abuso, quanto meno come un capriccio delle maestranze nei confronti dei tanti turisti che viaggiano in lungo e in largo per l’Italia delle vacanze.
Altrettanto molto poco possibile è vedere sotto un’altra fonte di luce chiarificatrice la rimarchevole condiscendenza da parte del governo nei confronti dei piani della NATO per l’allargamento di sé stessa all’Ucraina, senza nemmeno fare salve delle premesse ambigue che servono ad impedire che la Russia consideri l’Alleanza atlantica in guerra diretta contro di lei e che, in pratica, stanno tutte dentro l’asfissia di proposizioni funanbolesche sulla “vicinanza” con Kiev e sul rimando della sua adesione al dopoguerra.
Messe insieme queste tre linee di indirizzo su giustizia, lavoro e politica estera, danno un quadro allarmante su dove il governo delle destre voglia portare il Paese nei prossimi mesi: ad uno scontro frontale con un potere dello Stato che è garante della giustizia e che si autogoverna sotto l’alta presidenza del Quirinale; ad una pressoché sordità relazionale con i sindacati e con le categorie, stando dalla parte delle imprese senza se e senza ma, intaccando i diritti fondamentali come quello di sciopero; ad una internità sempre più allarmante nel consesso atlantico con la prospettiva di un aumento ulteriore della spesa militare.
La connessione inscindibile tra democrazia, diritti sociali e solidarietà internazionale con tutti i popoli, è messa a dura prova da una politica che tratta la magistratura senza prendere in considerazione la sua indipendenza, che il governo non deve tutelare, ma rispettare in quanto principio costituzionale che stabilisce quindi una prerogativa insindacabile.
Una politica che si pone nei confronti del mondo del lavoro con un atteggiamento repressivo, coercitivo, tutt’altro che disposto al dialogo: invece di muovere nella direzione di mediare per favorire un incontro tra le parti, tra Trenitalia, Italo e le lavoratrici e i lavoratori del comparto trasporti, il ministro ha atteso fino al giorno dello sciopero (peraltro programmato da tempo) per denunciare un comportamento anti-turismo, anti-collettività.
Si cerca in questo modo di mettere lavoratori contro altri lavoratori, di far apparire chi legittimamente protesta come un guastafeste, come un insensibile verso un altro diritto sacrosanto: quello delle ferie, nonché quello della libertà di circolazione magari per andare proprio al lavoro, visto che l’Italia è – ormai in una vulgata un po’ retoricamente comune – il “paese dei pendolari“.
Tutto questo fa il paio con un altro aspetto della visione economico-sociale dei problemi della maggioranza della popolazione: invece di risolvere alla radice determinate situazioni di disagio che si stanno allargando a macchia d’olio, il governo intrudice l’ennesima elemosina di Stato per le famiglie con quella che viene presentata come una grande pensata, una innovazione tutta targata “destra sociale“.
Si tratta della carta “Dedicata a te“, un una a tantum di 382,50 euro per l’acquisto di generi alimentari di prima necessità. Escluso il sale. Non rientra nell’elenco stilato dal ministro Lollobrigida.
Così il governo, almeno, pensa un po’ alla salute, alla prevenzione dell’arteriosclerosi e delle ischemie cerebrali. Battute a parte, che servono però a stemperare un po’ l’accigliamento davanti ad un quadro così desolante sul piano della ripresa economica e di come la affronta ed intende continuarla ad affrontare Palazzo Chigi, la suddetta carta vale 1 euro al giorno per comperare da mangiare in nuclei familiari di almeno tre persone, che non percepiscano il tanto odiato reddito di cittadinanza e che abbiano dei figlioli nati dopo il 2005 o il 2009.
Mentre la dinamica economico-sociale registra un crescente aumento della povertà, una difficoltà a pagare le tasse (e non per lo spirito tutto imprenditoriale di cercare di evaderle per avere più profitti), una contrazione del diritto alla salute, alle cure anche più elementari, ordinarie e comuni; mentre i servizi sociali divergono da Nord a Sud sempre maggiormente e aumenta la forbice che separa le generazioni e le mette una a carico dell’altra, ma esattamente al contrario rispetto a quanto detterebbe la logica della previdenza sociale (chi lavora oggi paga le pensioni a chi si ritirerà dal lavoro domani), il governo pensa a tutt’altro.
C’è voluta la sobria e decisa tattica quirinalesca per dare uno scossone alle tante contraddizioni accumulate dall’esecutivo di Giorgia Meloni in queste settimane: dai problemi imprenditorial-giudiziari di alcuni membri del governo all’ostilità manifesta nei confronti di un potere giudiziario la cui terzietà viene messa in discussione attraverso il concepimento di una riforma che, stando ai parametri dettati dall’Europa per la concessione dei fondi del maltrattato PNRR, abbasserebbe l’asticella della lotta contro la criminalità organizzata.
Qualche marcia indietro è stata fatta proprio in queste ore: il sottosegretario Mantovano, di stretta osservanza del codice politico meloniano, ha praticamente smentito Nordio sulla revisione del reato di concorso esterno per mafia, mentre traballa anche l’ipotesi dell’abolizione dell’abuso d’ufficio, reato definito dal ministro della giustizia come qualcosa di “evanescente” che ha il solo scopo di intasare il lavoro delle procure della Repubblica.
La sufficienza con cui le destre affrontano i temi dirimenti della vita quotidiana di ciascuno di noi, e dell’intera collettività, è davvero disarmante.
Sono pronte a ridurre il Parlamento ad una dipendeza del governo con una riforma presidenzialista che creerebbe sostanzialmente i presupposti per una repubblica senza più equipollenza tra i poteri. Sono pronte, al tempo stesso, a fare dell’Italia un mosaico di diritti locali, regionali, ispirati da una “autonomia differenziata” sulla base più dei privilegi economici piuttosto che sulle reali potenzialità dei territori.
Mettono al centro di tutto l’assioma basilare della privatizzazione dei servizi, della dipendenza del pubblico dalla logica dell’impresa e, quindi, separano il lavoro dalla ricchezza e ne fanno una subordinata del mercato: in piena, perfetta traduzione liberista del ruolo forte dello Stato in economia ma, si intende, soltanto se volto a rafforzare la concorrenza e non a sviluppare servizi collettivi, proteggere i beni comuni e rinsaldare quella unità popolare che dovrebbe fondarsi sul riconoscimento della parità dei diritti in tutta la Repubblica.
Fanno della guerra in Ucraina il modo per aprirsi ad una stagione di fedeltà europea e americana, atlantica e imperialista senza distinzione alcuna, senza critiche sull’invio delle armi. Biasimando solo, al pari di altri Stati dell’Unione, l’invio delle bombe a grappolo che, comunque Kiev già usava da tempo e che oggi vengono sdoganate dall’amministrazione Biden come salto ulteriore di squalificazione della guerra, senza creare alcun deterrente ma, anzi, dando motivo alla Russia per sentirsi ancora di più minacciata dalla NATO.
La politica del governo è, da ogni angolazione la si guardi e sotto ogni punto di vista, tutta volta a defraudare la democrazia dei suoi pilastri fondamentali, i lavoratori dei loro diritti altrettanto dirimenti, l’Italia del suo ruolo costituzionale di nazione ostile alle guerre come risoluzione dei conflitti internazionali.
Giustizia, lavoro, sciopero, guerra e pace non sono temi disgiungibili dal resto delle grandi problematiche sociali del Paese: la questione sanitaria e quella scolastica, quella delle infrastrutture e della tutela del patrimonio naturale e culturale sono evidentemente parte di un tutto su cui il governo posa la sua pesante mano privatizzatrice, esclusivista e disumana.
Parte della popolazione si sente legittimata ad agire, poi, ispirandosi ai dettami, ai proclami e alle esternazioni che dalle campagne elettorali echeggiano nell’azione di governo come esatta fisiognomica dell’esecutivo, delle forze politiche che lo compongono e di cui si conosce molto bene la storia.
Se nel Paese aumentano gli episodi di intolleranza, di razzismo, di omofobia, in parte lo si può attribuire a quella percezione del “legittimo” che ci si può attribuire come campo di azione singolo e collettivo, come lo stare in un “nuovo corso” degli eventi.
Per cui, siccome governano le destre estreme, diventa possibile esprimersi in modi, maniere e con atti che vanno incontro alla incultura della discriminazione, seppure indirettamente espressa, fatta balenare e presagire alla grande massa di un elettorato confuso, proveniente anche da esperienze di sinistra, smarrito nella grande bolgia dei mutamenti annuali di una politica distante dai bisogni reali, vicina alle pulsioni securitarie e alle istintualità peggiori.
I campanelli d’allarme sono tanti e risuonano ogni giorno. Varebbe la pena ascoltarli e a distinguerne il suono, per evitare di trovarci un giorno nel mezzo di una sinfonia dell’ademocraticità in salsa liberista, dei diritti diventati solamente doveri.
MARCO SFERINI