Con un colpo di mano, all’ultimo momento possibile, la maggioranza di governo ha depositato presso la Commissione lavoro della Camera dei Deputati un emendamento soppressivo della proposta di Legge sul salario minimo fatta da quasi tutte le opposizioni parlamentari.
E’ un atto di arroganza istituzionale che rimarca il carattere classista di questo esecutivo: nettamente dalla parte dell’imprenditoria e della grande finanza, così altrettanto nettamente contro il mondo del lavoro e del disagio sociale in generale.
Non basta la carta una tantum da 380 euro per risolvere il problema dell’aumento progressivo di precari, di nuovi poveri e di senza lavoro a lungo termine.
Non basta perché non, essendo proprio un intervento singolo e non ripetibile, assume tutti connotati dell’elemosina di Stato, a titolo più che altro dimostrativo, bevibile da chi ritiene che queste destre abbiano ereditato un qualche tratto psico-politico-somatico della destra sociale di un tempo (che, a dire il vero, sociale non lo è mai stata).
La proposta delle opposizioni, oltre tutto, è un compromesso basato sulla quantificazione di un salario minimo lordo di nove euro all’ora, prendendo come spunto le paghe previste dai contratti migliori dei grandi settori industriali. Una proposta che non include l’indicizzazione, l’aggancio all’aumento del costo della vita.
Differente per quantità e per qualità, quindi, da quella Legge di iniziativa popolare che la sinistra di alternativa sta portando nelle piazze e nelle vie delle città italiane per essere firmata e proposta al Parlamento.
Non ci si illude che questa maggioranza possa approvarla, ma che, almeno, l’opposizione possa sostenerla, così come è sostenuta la misura del salario sociale a nove euro ed è biasimata, persino da esponenti di Azione, la liquidazione che la maggioranza intende fare della stessa nei prossimi giorni, dopo aver dimezzato il reddito di cittadinanza nel nome del risparmio, tagliando non sulle spese militari bensì sull’introduzione di misure che avrebbero aiutato ancora milioni di italiani a, quanto meno, sopravvivere con una certa dignità.
Invece, il governo di Giorgia Meloni, in ogni suo atto, adotta con meticolosa puntualità una serie di politiche che favoriscono la distribuzione dei fondi del PNRR ai privati, che incentivano la spesa bellica (con l’acquisto di nuove forniture di armamenti, di implementazione degli equipaggiamenti leggeri e pesanti delle forze armate) e che portano la quota del PIL nel merito a quel 2% previsto dal piano della NATO per affrontare l’economia di guerra.
Il governo è, dunque, il peggiore nemico dei poveri, l’avversario più strenue dei lavoratori, visto che persino Confindustria, paradosso dei paradossi, si è mostrata timidamente critica nel valutare la proposta di legge a prima firma Giuseppe Conte.
Secondo i padroni non ci sarebbe alcun problema nello stabilire un minimo salariale a nove euro, visto che loro sostengono di pagare i loro dipendenti al di sopra di quella soglia e che a sottopagare lavoratrici e lavoratori sarebbe non l’industria italiana ma quella estera impiantata qui nel Bel Paese.
A parte lo scaricabile dell’associazione padronale, è palese che una lotta per il salario sociale non al di sotto dei 10 euro è oggi una discriminante che coinvolge chiunque si renda conto della condizione di disperazione che avanza con l’aumentare del costo dei beni essenziali di consumo, dei mutui sulle case, dei biglietti di metropolitane, autobus e treni, dei pedaggi autostradali, dei libri e dei materiali scolastici, delle tasse universitarie e degli alloggi per poter essere vicini ad un ateneo e poter evitare lunghissimi pendolarismi.
Ma i salari in questi ultimi anni sono diminuiti, nel contesto della media UE, del 7% e l’Italia registra un conseguente abbassamento del tenore di vita che non riguarda solamente il sostentamento quotidiano ma, in modo uguale e altrettanto inquietante, le cure mediche anche di base.
Il quadro della retrocessione sociale si colora delle tinte fosche di un taglio alla spesa sanitaria pari a quasi cinque miliardi di euro, spalmato nel triennio 2023-2025 con una costante diminuzione annua pari quasi all’1%.
Sembrerebbe persino poco rispetto agli oltre venticinque miliardi di euro tagliati tra il 2010 e il 2015 dai governi di Berlusconi e di Monti. Eppure, oggi, nella condizione di crisi multistrato in cui ci troviamo, un taglio apparentemente esiguo incide tanto quanto una decurtazione ad ampio raggio dei lustri scorsi.
La necessità, quindi, per la sinistra di alternativa, per Unione Popolare, per le forze che si riconoscono in una critica ragionata e consapevole al liberismo di governo (ed al governo del liberismo), di mettere in campo una riproposizione costruttiva di uno stato-sociale degno di questo nome, è il minimo sindacale per contrastare tanto il piano dell’esecutivo contro il mondo del lavoro quanto il radicarsi dell’ideologia unica del mercato in una società che rischia di non percepire più lo stimolo al cambiamento, la voglia di eradicarsi dalla condizione di indigenza in cui galleggia e sopravvive a stento.
Se è vero che nessun atto politico può veramente mai prescindere dal contesto in cui viene elaborato, proposto e messo poi in pratica, la lotta per il salario minimo a dieci euro l’ora ed indicizzato all’inflazione corrente è il primo passo per una rinascita di una più ampia critica sociale che abbracci tutti i settori produttivi: privati e pubblici.
E che includa in questo recupero della coscienza critica il valore aggiunto della scuola, del sapere, della conoscenza, della cultura tutta quanta.
Se una “domanda di sinistra” da parte della popolazione può esservi, questa deve poter essere sostenuta da una forza politica che si apra al dialogo con le altre realtà del progressismo italiano e che guardi alla costruzione di una congiuntura favorevole che prenda il via dalla condivisione di lotte essenziali su problematiche dirimenti e irrinunciabili nell’oggi al fine di progettare un futuro diverso da quello asfittico del liberismo, della guerra, del finto patriottismo delle destre piegate al volere americano e atlantico.
Questa dialettica costruttiva non può rimanere un puro esercizio autoreferenziale nel nome di una autocritica altrettanto tale.
Deve poter essere una analisi che va al confronto con altre interpretazioni e che, nel mantenere intatta la sua autonomia di giudizio e di scelta, si propone però di confrontarsi, di interagire e scambiare opinioni per dare vita a momenti di lotta comuni: al fine di cacciare questo governo che distrugge le più elementari fondamenta della solidarietà, dell’uguaglianza e della reciprocità sociale previste dalla Costituzione, insite nel carattere primigenio della Repubblica.
Il NO delle destre al salario minimo è una simbiosi di preconcettualismo ideologico e servilismo politico: il governo ostacola qualunque misura che vada incontro ai bisogni semplici della grande moltitudine degli italiani, mentre i grandi patrimoni sono al sicuro e, ben presto, in autunno con la finanziaria si tornerà a parlare di tassazioni piatte ed ultrapiatte, di sgravi fiscali per le imprese, di scudamento dei capitali, di investimenti in grandi opere nel nome della necessità contingente.
I sacrifici dovranno essere fatti da tutti. Ma, più che altro, da quella gran parte della popolazione che, lavorativamente parlando, dipende da un padrone e che viene sfruttata ogni giorno per arricchire una borghesia moderna incapace di una svolta risolutrice sulla scia della vecchia “pace sociale“. Oggi, non è più la classe imprenditoriale nazionale a dettare da sola le regole del gioco. Oggi è l’Europa ad indicare la strada da seguire: i fondi del PNRR sono lì a dimostrarlo e il MES lo è ancora di più.
E proprio riferendoci al contesto europeo, l’Italia rimane uno dei soli cinque paesi della UE a non avere ancora una legislazione su un monte salariale minimo.
Segno di una arretratezza in materia di riforme socio-politiche sul mondo del lavoro, direttamente espressione di una impostazione economica che mette al centro del suo agire il punto di vista delle imprese e non certo quello di chi dipende, per la propria esistenza, dalle oscillazioni dei mercati e dalle decisioni altrui espresse in base alle convenienze non pubbliche e comuni ma esclusivamente private.
Privato, recitava uno slogan, è il participio passato del verbo “privare“. Anche se l’etimologia non ha un potenziale ascendente nei confronti della politica economica del governo, è del tutto evidente che Meloni e i suoi ministri non intendono ascoltare i bisogni di milioni e milioni di lavoratrici e lavoratori, di precari e disoccupati e, se intendono porgere per un attimo l’orecchio destro, lo fanno soltanto per mostrarsi virtualmente interessati al disagio diffuso.
Quel tanto che basta per raccontare ai “milioni del cui lavoro vive l’intera società” (R. Luxemburg) che Palazzo Chigi non è indifferente a questo moderno grido di dolore che viene capovolto, mostrato come l’effetto di una causa della tentata “sostituzione etnica” causata dal fenomeno migratorio e dei problemi sociali e civili che comporta.
La narrazione del governo è una ipocrisia veramente di stampo classista. Un racconto che va rovesciato perché la realtà, con tutte le sue ragioni e incomprensibilità, è molto, molto differente.
MARCO SFERINI
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