Dopo i tre fatidici anni pandemici la stampa si è sperticata nelle lodi della ripresa produttiva, dei fatturati e dell’industria internazionale salvo poi scoprire che la crisi è tutt’altro che superata, acuita dalla guerra, dal rincaro delle tariffe energetiche (che grava soprattutto sui costi statali e familiari) e dal clima di incertezza sull’immediato futuro derivante dalla contesa geopolitica fra Nato e Russia.
La ripresa del ciclo economico internazionale ha subito nell’ultimo anno e mezzo più di una battuta di arresto. Persino la Cina, complici gli effetti legati alle misure anti covid, stenta a recuperare i ritmi di crescita del passato.
Possiamo allora asserire, senza timore di smentita, che la crisi economica è tutt’altro che superata: dietro l’angolo il rischio di una nuova accelerazione dei processi di ristrutturazione socio-economica a danno del lavoro e degli interessi dei ceti popolari.
Nello specifico, a pagare dazio in questa fase sono i settori manifatturieri tradizionali, già in decrescita da almeno 7\8 mesi. Pesano le fluttuazioni della domanda, sia interna che esterna, e i processi di esternalizzazione a vantaggio del grande capitale emergente (vedi Amazon) che abbiamo conosciuto negli ultimi tempi. A tutto ciò vanno aggiunte le conseguenze della guerra e la chiusura di tutta una serie di mercati esteri (legati al mondo Brics). Mettici poi la scure dell’inflazione da offerta e gli effetti della nuova stretta monetaria, che il quadro diventa ancora più fosco e preoccupante.
In Italia, la contrazione dell’attività manifatturiera ha raggiunto quest’anno quota 5 per cento. Da segnalare anche il rallentamento del settore delle costruzioni dopo il boom seguito alle misure del 110%.
Il settore auto sembrano invece, al momento, reggere. Nonostante le problematiche relative all’approvvigionamento di semiconduttori, la svolta “green” può rivelarsi un ghiotta occasione per rilanciare profitti e investimenti.
Il nodo vero ruota però attorno alla domanda interna e agli investimenti pubblici. Rispetto a questo punto, è difficile avanzare previsioni positive finché non viene preso di petto il grande tema del vincolo esterno euro-atlantista.
La lezione è sempre la stessa: non c’è spazio per politiche pubbliche a favore del lavoro e di un’idea di crescita inclusiva dentro un assetto indifferente alla questione sociale e ostile al senso dell’autonomia della politica