di Huda Abu Dagga e Ihsan Adel
Il rapporto di Francesca Albanese, relatrice Speciale Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati sostiene l’arbitraria privazione della libertà a carico dei palestinesi, da parte degli israeliani. Le privazioni e le violazioni potrebbero potenzialmente configurarsi quali crimini internazionali perseguibili ai sensi dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, nell’ambito delle prerogative della giurisdizione universale
Il 10 luglio scorso, durante la trentesima riunione della 53esima sessione ordinaria del Consiglio per i Diritti Umani alle Nazioni Unite, la dottoressa Francesca Albanese, Relatrice Speciale Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati dal 1967, ha illustrato il suo nuovo Rapporto riguardante la diffusa e sistematica privazione della libertà attuata nel Territorio Palestinese Occupato. Il Rapporto era già stato inviato al Consiglio nel mese di giugno.
Nel Rapporto si sottolinea come “nonostante l’invito dello Stato di Palestina”, la dott.ssa Albanese non abbia poi potuto visitare il Territorio Palestinese “a causa del continuo rifiuto di Israele di facilitare il suo ingresso (nel Territorio)”. Imperterrita, la Relatrice ha dedicato sei mesi di indagini, con incontri e sopralluoghi virtuali nei Territori Palestinesi e una visita in presenza in Giordania, per completare i suoi sforzi di studio e ricerca finalizzati alla stesura del Rapporto.
Il Rapporto si concentra sull’uso da parte di Israele dell’arbitraria privazione della libertà quale strumento di dominio e oppressione e affronta questioni strutturali e della portata di tale condotta. Il documento approfondisce quindi circostanze e procedimenti che determinano l’arbitraria privazione della libertà a carico dei Palestinesi. Secondo Albanese, “la realtà emergente è quella di una popolazione sottoposta a regime di occupazione che nella sua totalità costituirebbe minaccia per la sicurezza. Popolazione perciò spesso posta in condizione di presunta colpevolezza e dunque punita con l’incarcerazione anche per il semplice esercizio di libertà fondamentali”.
Albanese afferma che i maltrattamenti arbitrari e intenzionali subiti dai Palestinesi, insieme al pervasivo continuum carcerale e alle estese forme di reclusione e sorveglianza fisiche, burocratiche e digitali potrebbero potenzialmente configurarsi quali crimini internazionali perseguibili ai sensi dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, nell’ambito delle prerogative della giurisdizione universale.
INDAGINE SULL’ARBITRARIETÀ DELLA PRIVAZIONE DELLA LIBERTÀ PERSONALE
II Rapporto esordisce dimensionando l’entità della privazione di libertà personale sin dal 1967 e come essa abbia costituito “un elemento cardine dell’occupazione israeliana fin dal suo inizio”. Tra il 1967 e il 2006, oltre 800mila Palestinesi sono stati incarcerati nei Territori Occupati. Nel solo 2022, circa 7mila Palestinesi, tra cui ben 882 bambini, sono stati posti in arresto da Israele. Attualmente, sono 5mila i Palestinesi che risultano detenuti nelle carceri israeliane e 1.014 sono imprigionati senza esser mai stati raggiunti da un capo d’accusa o non essendo destinatari di sentenze. Il Rapporto documenta gravi abusi commessi contro i Palestinesi durante la loro custodia nelle carceri israeliane, come la reclusione in celle sporche e affollate, la privazione di cibo e sonno, la negligenza medica, le gravi percosse e altre forme di maltrattamento. È stato riportato anche l’uso della tortura, permessa da provvedimenti delle Corti quale deterrente per prevenire attacchi a civili israeliani. Il documento presta attenzione agli esiti del Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria, che stabiliscono come la privazione diffusa e sistematica della libertà configuri un crimine contro l’umanità.
Nel Rapporto si sostiene inoltre che l’incarcerazione dei Palestinesi va oltre la loro sola detenzione specificando che quest’ultima è “solo un elemento di uno scenario carcerale più ampio, estendendosi oltre il contesto penitenziario come paradigma di governo del Territorio Occupato e di reclusione della sua popolazione”. Ciò include l’esistenza stessa di insediamenti illegali che esacerbano atti di discriminazione e violenza contro i Palestinesi.
DEFINIZIONE DEL QUADRO GIURIDICO SULLA PRIVAZIONE DELLA LIBERTÀ PERSONALE
Il Rapporto esamina in dettaglio i vari quadri giuridici internazionali che affrontano la questione della privazione arbitraria della libertà. Questi comprendono i trattati e il diritto internazionale consuetudinario, ivi compreso il diritto umanitario internazionale. In particolare, il Rapporto menziona la Terza Convenzione di Ginevra, relativa alla protezione dei prigionieri di guerra, oltre alla più comunemente citata Quarta Convenzione di Ginevra. Il diritto internazionale dei diritti umani, che trova applicazione anche nei conflitti armati e nelle situazioni extraterritoriali, e il diritto penale internazionale sono stati altresì presi in considerazione per affrontare il tema del Rapporto. Nel loro insieme, tutte queste leggi stabiliscono che la detenzione è da considerarsi arbitraria quando è priva di base legale, e cioè quando “viola le garanzie fondamentali offerte dal diritto internazionale… ed è usata in modo discriminatorio”. In questi casi, tali pratiche possono quindi potenzialmente costituire crimini di guerra o crimini contro l’umanità.
INCARCERAZIONE DI MASSA: GOVERNANCE E PROCEDURE
Nel Rapporto si afferma che “Israele ha da sempre impedito l’applicazione del diritto internazionale nel Territorio Palestinese Occupato”, ritenendo quel Territorio oggetto di “contesa” e non di occupazione. Ciò ha portato a violazioni dei principi del diritto internazionale che regolamentano l’occupazione stessa. Sostenendo che il diritto internazionale dei diritti umani non è applicabile al Territorio Occupato, Israele deroga ai suoi obblighi internazionali tra cui quello di garantire la possibilità di un processo equo e di osservare lo jus cogens del divieto di tortura o di trattamenti crudeli, disumani e degradanti. Queste pratiche sono permesse dall’esercizio del controllo in tutto il Territorio Occupato grazie all’adozione di oltre 2.500 ordini militari israeliani. Tali ordini militari presidiano ogni aspetto della vita dei Palestinesi nel Territorio Occupato, compresi ordine pubblico e sicurezza, gestione delle risorse naturali, istruzione, trasporti, amministrazione della giustizia, pianificazione e individuazione di aree e limiti urbani. Gli ordini militari inoltre criminalizzano le libertà fondamentali dei Palestinesi attraverso due principali fattispecie di reati: i reati di sicurezza, che cioè “minacciano” la presenza dell’esercito nel Territorio Occupato, e gli ordini pubblici, che riguardano un po’ tutto il resto, dalle manifestazioni non autorizzate a disordini causati dal traffico. Il Rapporto fornisce esempi di come simili definizioni, così ampie e vaghe, abbiano portato i Palestinesi a essere incriminati anche per aver solo espresso opinioni ed esternato dissenso o anche per contrastare pacificamente l’occupazione. In definitiva, tutte queste leggi/ordini prendono di mira il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione.
Il Rapporto si occupa inoltre degli abusi e della privazione dei più elementari diritti che i Palestinesi subiscono all’interno del contesto penitenziario. Si va dalla detenzione amministrativa, di per se stessa un abuso in violazione dei loro diritti, alle procedure di arresto e agli interrogatori in cui vengono sottoposti a varie forme di tortura o a lunghissimi tempi di detenzione pre-processuale che possono arrivare a 90 giorni e, persino, essere prolungati reiterandoli, fino alla detenzione in carceri non situate in Territorio Palestinese Occupato ma presenti all’interno dei confini “riconosciuti” di Israele, quindi esposti ad aspre condizioni detentive. Tali abusi si estendono anche ai bambini anch’essi sottoposti a condizioni di arresto ed esperienze traumatiche.
Il Rapporto stigmatizza inoltre la pratica militare israeliana, adottata per presunti motivi di sicurezza, con cui si nega la restituzione alle famiglie dei corpi dei Palestinesi deceduti in carcere, spesso seppelliti nei cosiddetti “cimiteri di numeri”. Dati aggiornati al maggio scorso riferiscono di 125 corpi di Palestinesi morti, tra cui 13 detenuti, ancora trattenuti dalle forze israeliane.
ARCHITETTURA MULTISTRATO DI CONFINAMENTO
Il Rapporto descrive la carceralità, riconducibile a un sistema che priva intere popolazioni della libertà e della loro terra, come aspetto chiave del colonialismo d’insediamento. Le pratiche di Israele nel Territorio Palestinese Occupato rispecchiano questo modello, sottoponendo i Palestinesi a un regime di carcerazione collettiva. “Nel corso del tempo, Israele ha ampliato il suo controllo multiforme sulla popolazione palestinese mediante strumenti fisici, burocratici e digitali”. L’incarcerazione dei Palestinesi, insieme alla confisca delle loro terre e all’evacuazione forzata, contribuiscono all’opera complessiva di confinamento messa in atto da Israele. “Ciò ha trasformato la vita dei Palestinesi in un continuum carcerario, in cui coesistono diversi livelli di prigionia: dal microlivello della privazione della libertà individuale sinora descritto, passando per l’incarcerazione di massa, fino alla reclusione della popolazione in enclavi tenute rigidamente sotto controllo”.
Il Rapporto analizza quindi come le vite dei Palestinesi siano state colpite da varie forme di prigionia. Ciò va oltre la semplice privazione della libertà individuale, giungendo alla segregazione fisica all’interno della frammentata Palestina, dove “Israele ha intrappolato i Palestinesi in un’architettura fisica che assomiglia a una prigione che si estende su una scala territoriale e sociale molto più ampia”. La Relatrice speciale ricorda il blocco illegale della Striscia di Gaza come l’esempio più noto di questo “intrappolamento fisico”, insieme al fatto che il 60 percento della Cisgiordania è sotto il pieno controllo militare e civile israeliano con la presenza di 270 colonie e basi militari, di un muro di separazione lungo 700 chilometri, di circa 64 posti di controllo stabilmente operativi, 76 posti di blocco parziali, migliaia di checkpoint mobili, 17 strade per un totale di 400 chilometri riservate ai soli cittadini israeliani.
Allo stesso tempo, all’interno del loro confinamento carcerario, i Palestinesi sono costretti a navigare in un “labirinto di barriere burocratiche” sotto forma di permessi, restrizioni e divieti emessi dagli organi israeliani. Un ulteriore strato detentivo è rappresentato dal monitoraggio dei Palestinesi da parte di Israele con l’impiego di telecamere a circuito chiuso e altri dispositivi installati nei checkpoint, negli spazi pubblici, nel corso di eventi sociali e di protesta. Anche la sfera privata è spesso oggetto, a insaputa degli stessi Palestinesi, del monitoraggio online e della tracciabilità di dettagli contenuti in telefoni e cartelle cliniche. Tutti questi metodi di carcerazione determinano un confinamento a più livelli a danno dei Palestinesi, con lo stretto controllo della popolazione equiparata a minaccia collettiva per la sicurezza, reprimendo perciò ogni forma di resistenza all’occupazione.
REPRESSIONE E LIMITAZIONI DEI DIRITTI NELL’AMBITO DELL’AUTOGOVERNO PALESTINESE
Albanese ha anche osservato che, dopo gli accordi di Oslo, lo stesso organo di autogoverno palestinese ha contribuito a un aumento della repressione e delle limitazioni dei diritti dei Palestinesi. L’Autorità Palestinese e le autorità operative de facto a Gaza hanno anch’esse condotto operazioni arbitrarie di arresti e detenzioni. Il coordinamento per la sicurezza tra Autorità Palestinese e Israele ha peraltro creato una “politica della porta girevole” in cui i Palestinesi si trovano a essere puniti da entrambe le istituzioni. È vero che in aree diverse l’autorità di arresto è applicata in modo differente. Tuttavia, anche studenti e utenti dei social media sono presi di mira per il loro dissenso, sebbene in misura minore rispetto alle pratiche adottate da Israele. Albanese ha però ricordato che anche le condizioni di detenzione nelle carceri palestinesi sono state criticamente esaminate.
CONCLUSIONI
Nelle sue conclusioni, Francesca Albanese ha affermato che, a causa dell’occupazione israeliana, intere generazioni di Palestinesi hanno subìto una diffusa e sistematica privazione della libertà, spesso per aver commesso atti legalmente irrilevanti. Oltre 800mila Palestinesi dal 1967, compresi bambini, sono stati oggetto di detenzione in base a una serie di norme emanate e applicate dall’esercito israeliano. La maggior parte delle condanne penali subite dai Palestinesi nel corso degli anni riguarda “la legittima espressione dei diritti civili e politici e il diritto di resistere a un occupante straniero illegale”. Ha poi aggiunto che “privando i Palestinesi delle tutele previste dal diritto internazionale, l’occupazione li riduce a una popolazione “de- civilizzata”, privata cioè dello status di persone protette e dei suoi diritti fondamentali”. La Relatrice ha affermato inoltre che, nella gestione dei Palestinesi come collettivo, ogni Palestinese che desideri opporsi al regime, compresi i manifestanti pacifici, verrebbe a trovarsi nella condizione del reato di minaccia alla sicurezza e quindi soggetto a detenzione, costringendo tutti i Palestinesi a uno stato cronico di vulnerabilità.
Albanese ha ribadito inoltre che “l’incarcerazione di massa rafforza lo squilibrio di potere tra i Palestinesi da un lato e le istituzioni e i coloni israeliani dall’altro, facilitando l’espansione coloniale”. La Relatrice speciale ha quindi spiegato che Israele usa il pretesto della “sicurezza” come modalità permanente per esercitare il controllo sul Territorio Occupato e promuovere il suo progetto coloniale. “Passando da ‘sicurezza della potenza occupante’ a sicurezza dell’occupazione in quanto tale, Israele ha trasformato le pratiche collegate alla ‘sicurezza’ in controllo stabile del territorio che occupa e cerca di annettere”. Secondo la Relatrice Speciale, ciò ha in definitiva determinato segregazione, sottomissione, frammentazione, esproprio delle terre e sfollamento forzato dei Palestinesi.
Albanese ha dunque evidenziato la natura arbitraria, diffusa e sistematica dell’occupazione, sottolineando le gravi responsabilità di Israele e la necessità di porre fine all’occupazione stessa. Ha poi sottolineato che l’illegalità dell’occupazione non può essere sanata o resa più “umana” semplicemente riformando alcune delle sue brutali conseguenze. Ha perciò esortato la comunità internazionale a riconoscere tutto ciò e a non contribuire o condonare l’apartheid coloniale di Israele che criminalizza i Palestinesi che reclamano il loro diritto a esistere esercitando il loro diritto all’autodeterminazione.
RACCOMANDAZIONI
La Relatrice speciale ha raccomandato l’abolizione tout court del sistema israeliano di privazione arbitraria della libertà dei Palestinesi nel Territorio Occupato proprio per la sua intrinseca incompatibilità con il diritto internazionale. La Relatrice ha inoltre stimolato gli Stati terzi a utilizzare le misure diplomatiche, politiche ed economiche previste dalla Carta delle Nazioni Unite atte a “non riconoscere come legittima, aiutare o coadiuvare l’occupazione di Israele, dati gli illeciti commessi secondo il diritto internazionale” e a perseguire i crimini attuati e denunciati nel Rapporto ai sensi della giurisdizione internazionale.
Ha poi raccomandato a Israele di rilasciare tutti i detenuti palestinesi arrestati per atti non offensivi ai sensi del diritto internazionale e restituire i corpi dei Palestinesi deceduti nonché di interrompere l’arresto dei minorenni e liberare tutti i bambini detenuti. La dottoressa Albanese ha inoltre raccomandato alle autorità palestinesi di aderire alle norme internazionali, ponendo fine a detenzioni arbitrarie e a maltrattamenti e di stabilire misure idonee di vigilanza e di responsabilità.
Infine, ha auspicato un’indagine indipendente e approfondita da parte della giurisdizione universale e, in particolare, da parte della Corte penale internazionale sulla possibile fattispecie di crimini commessi, rilevanti per diritto internazionale, a causa della detenzione sistematica e arbitraria dei Palestinesi.
*Organizzazione non profit con l’obiettivo di creare un’efficace rete globale di giuristi interessati alla questione della Palestina. https://law4palestine.org/