Il fatto che il presidente egiziano Al Sisi abbia concesso la grazia a Patrick Zaki non diminuisce le colpe di un regime che reprime il dissenso o, anche soltanto, le critiche per come sono costretti a vivere coloro che non aderiscono al credo religioso o alla parte politica che il governo de Il Cairo impone all’intero paese.

Due anni di galera per aver scritto della condizione dei cristiani copti sono una enormità, una sproporzione degna solamente di un potere esecutivo che controlla quello giudiziario e gli fa fare quel che vuole. Una colpa che diventa reato, contro la sicurezza dello Stato, mentre dovrebbe trattarsi soltanto di libertà di espressione, di stampa, di diffusione delle idee.

Si arriva a questo quando la separazione dei poteri non è garantita in una costituzione. Quando il governo ha la facoltà di decidere cosa è etico, giusto, convenevole per tutti e cosa invece non lo è. Ovviamente, ciò che rientra nel giusto è soltanto quello che va nella direzione di favorire il consolidamento di un regime e non il rapporto dialettico che qualunque maggioranza dovrebbe avere con la minoranza, con le opposizioni.

Dal tempo delle primavere arabe, quando parve aprirsi uno squarcio nel velo del conservatorismo religioso fattosi avanti dopo la caduta dei regimi laici (che non erano meno colpevoli davanti ai loro cittadini di quanto lo sia oggi Al Sisi), trascorsi più di dieci anni, si è tornati, come nel gioco dell’oca, al punto di partenza.

La magnanimità del presidente egiziano può farci dimenticare il processo farsa intentato contro un giovane studente? Può farci scordare d’un tratto che un nostro conterraneo, Giulio Regeni, è stato massacrato di botte, torturato e assassinato mentre era in custodia dei servizi segreti egiziani? Dobbiamo considerare come ultima speranza di giustizia per l’Egitto il potere di grazia di un dittatore?

Siccome apparteniamo ad una cultura del diritto che ci proviene da molto lontano nei millenni, dovremmo essere in grado, nonostante il governo che attualmente regge il Bel Paese, di saper distinguere la grazia data in quanto tale da quella data a fini meramente politici.

Il caso Zaki, se fosse durato ancora un anno e mezzo (tanta era la pena che Patrick avrebbe dovuto scontare nelle carceri egiziane dopo esservi già stato rinchiuso per ventiquattro mesi…), avrebbe pesato sia nei rapporti interni sia in quelli di politica estera tra il regime di Al Sisi e l’Occidente.

Non che l’Italia sia apparsa in questi mesi come una nazione capace di incutere, in quanto democrazia e paese libero (...si parva licet…), una certa riverenza e un certo timore da parte di regimi come quello de Il Cairo. In questa globalizzazione liberista non conti tanto per la tua storia, per la tua adesione o meno a princìpi che parlano di diritti umani, civili e sociali, quanto per il valore che possiedi sulla bilancia commerciale.

Secondo i dati della Rete pace e disarmo, il nostro Paese nel 2021 ha visto aumentare a dismisura la produzione di armamenti che, in eguale misura, sono stati esportati in Qatar (per 958 milioni di euro), in Kuwait (per 875 milioni) e, terzo paese acquirente del macabro “made in Italy“, proprio l’Egitto di Al Sisi, con 773 milioni di euro incassati dalle aziende private, sull’onda degli accordi stabiliti dai governi di volta in volta.

E’ ragionevole pensare che la cortina di nebbia e di silenzio che si è impadronita del caso Regeni avrebbe avvolto anche quello di Zaki nel nome dell’export di armi che dai nostri porti vanno verso quelli dei paesi del Medio Oriente e, in questo caso, dell’Egitto? Dovrebbe essere, quanto meno, un ragionevole dubbio…

Dopo l’omicidio di Giulio Regeni, ed anche dopo il caso dello studente egiziano frequentatore dell’Università di Bologna, l’Italia ha continuato a vendere armi all’antico paese dei faraoni. Armi leggere e pesanti. Ed è altrettanto ragionevole ipotizzare che anche con alcune di queste armi sia stata e sia messa tutt’ora in pratica la repressione governativa nei confronti di quella opposizione che tenta di farsi largo tra le maglie di un terrore sempre più strette.

In un rapporto di una di queste associazioni che si battono contro la dittatura di Al Sisi e il feroce regime di polizia, carcerazione e tortura dei dissidenti, segnatamente nello studio attento di “EgyptWide for Human Rights“, si legge che nei dieci anni trascorsi dall’omicidio di Giulio, il nostro Paese avrebbe venduto all’Egitto armi leggere per decine di milioni di euro. Si stima circa 62.

Mentre il corpo del giovane dottorando italiano di Cambridge giaceva sulla via polverosa e sabbiosa tra Il Cairo ed Alessandria, in un fosso, terribilmente mutilato, noi davamo al paese che lo aveva ucciso altri strumenti per continuare in questi rapimenti e repressioni.

Mentre i generali parlavano di un incidente d’auto, un po’ come il “malore attivo” per Pinelli, le commesse egiziane per le aziende produttitrici di armi e altri apparati bellici facevano affari su affari, in spregio alla Legge n. 185/1990 che pone un divieto di «esportazione di materiale militare verso paesi responsabili di gravi violazioni dei diritti umani o in cui tale materiale possa essere utilizzato per la repressione interna».

Nonostante la grazia a Patrick Zacki, per il quale, e solo per lui, siamo felici, sarà ancora legittimo ritenere i rapporti tra Italia ed Egitto quanto meno ambigui sul piano del rispetto dei diritti umani e delle stesse leggi della nostra Repubblica che si ispirano a quel rispetto universale dell’individuo e dei popoli che sta scritto nella Costituzione?

Nelle manifestazioni di piazza e nelle proteste che si sono susseguite da piazza Tahrir fino ad oggi, è possibilissimo che siano state impiegati, ad esempio, i fucili Beretta 70/90 e ARX160, i fucili Benelli M3T Super 90 e M1 Super 90, e pistole Beretta F92. Col passare del tempo, con le ricerche meticolose degli attivisti dei diritti umani, si scopre, proprio nei rapporti citati, che queste armi leggere erano in dotazione alle forze di polizia che si accanivano contro manifestanti pacifici e la cui unica colpa era il dissenso, la richiesta di libertà e di democrazia.

La domanda, tra le tante, è anche questa: si poteva evitare questa esportazione di armi verso un paese dove il diritto è compromesso con il potere esecutivo e dove la giustizia assume sovente i toni della farsa? Si sarebbe potuto se solo si fosse voluto applicare la legge o anche solamente dare retta ad un principio etico-politico, quindi facendo seguire a ciò una decisione tutta politica.

E proprio i governi hanno stabilito che quei rapporti economici e commerciali, quei milioni sporchi del sangue di gente innocente, dovessero continuare ad essere tali. Nonostante quello che era stato fatto a Regeni, nonostante quello che veniva fatto a Patrick Zaki.

Quanto vale allora il principio della solidarietà tra i popoli, della condivisione dei grandi drammi comuni del nostro tempo? Ben poco se alcuni direttori di giornali si permettono di esprimere platealmente un disagio fondato sulla distinzione tra Giulio e Patrick in base alla loro nazionalità. Noi non avremmo dovuto reclamare giustizia per lo studente egiziano perché privo della cittadinanza italiana. Così tutto finisce, per la destra, in una cialtronesca questione etnica?

Deve sempre tutto essere distinto sulla base dell’origine e non anche di quello che si è vissuto un attimo dopo la propria nascita in un determinato paese? Il fatto che un giovane che studiava in Italia, tornato per qualche tempo in famiglia, a casa, fosse arrestato con l’accusa di essere chissà quale pericoloso erversore non avrebbe dovuto riguardarci soltanto perché lui non è un italiano?

La superficialità di queste argomentazioni è davvero tanto infima da far comprendere molto bene quale sia il livello di una presunta intellighenzia di un giornalismo italiano che è da sempre, ma che con le destre al governo ha accentuato la sua prepotenza verbale, ostile a qualunque espressione critica verso il potere costituito, verso una sorta di sacralità dello stesso che non deve essere messa in discussione, verso una cieca fiducia nei confronti delle forze dell’ordine e di quelle militari al servizio dello Stato.

Nelle carceri egiziane sono rinchiuse decine di migliaia di prigionieri politici. Persone appartenenti a molte organizzazioni per i diritti umani e civili, in lotta contro un rais che ha lanciato all’Italia, all’Europa e al mondo un duplice messaggio: soltanto lui è in grado di mutare il corso della giustizia in Egitto; sempre soltanto a lui è dato il potere del perdono.

E, quindi, il tentativo di mostrarsi aperto al grido delle proteste che sono piovute da ogni parte per Zak, è in realtà una ipocrisia che non deve lasciare ingannare a lungo. Il Consiglio del Dialogo Nazionale, che avrebbe indotto il presidente a concedere la grazia, riunisce una serie di formazioni critiche verso il regime che, tuttavia, sono accettate da Al Sisi in quanto parvenza di una costituzionalità che in realtà continua ad escludere le vere opposizioni da qualunque confronto con le istituzioni.

La magistratura rimane subordinata al potere esecutivo, le forze armate e la polizia sono al servizio del presidente e non rispondono ad alcun criterio di rispetto dei diritti umani, applicando una linea repressiva che è il mezzo con cui Al Sisi governa l’Egitto dal 2014, dal colpo di Stato contro Mohamed Morsi e la Fratellanza musulmana.

Nel festeggiare la liberazione di Patrick Zaki, è bene avere presente che l’omicidio di Giulio Regeni rischia di rimanere impunito, di restare uno di quei “casi chiusi“, perché di quel caso si sa molto, praticamente ormai tutto, ma senza poter arrivare a quei quattro agenti dei servizi segreti egiziani che sono sotto la protezione del potere politico.

Se l’azione dell’Italia fosse stata energica e avesse riguardato, ad esempio, il ritiro del nostro ambasciatore, la chiusura delle relazioni commerciali e una campagna di boicottaggio di tutte le strutture turistiche egiziane, probabilmente oggi potremmo trovarci sia ad applaudire la imminente scarcerazione di Zaki e qualche passo avanti, oltre la nebbia che avvolge la soluzione giuridica del caso di Giulio Regeni.

Al Sisi non si è piegato a nulla, ha fatto quello che ha voluto. Fin dal principio e,  mettendo in scena un coup de theatre, ha permesso alla sua giustizia di condannare Patrick a tre anni di carcere dopo avergliene fatti scontare già quasi due, per poi nemmeno ventiquattro ore dopo concedergli la grazia. Tutto perfettamente calcolato. Come ogni dittatura, anche quella egiziana vive di continui ricorsi alla rappresentazione, alla scenografia da mostrare.

Dietro le quinte rimangono sessantamila prigionieri politici, torture, crimini di ogni tipo, rapimenti, repressioni e tutte le armi che anche l’Italia ha venduto e che, purtroppo, continuerà a vendere

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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