Romano Prodi, parlando alla due giorni di Stefano Bonaccini per la costruzione della sua area politica internamente al PD, ha fatto riferimento ad una esigenza duplice e unica al tempo stesso: «Coniugare riformismo con un radicalismo dolce». Sarebbe anche una bella descrizione di un processo simbiotico necessario a questa Italia in balia del finto nazionalismo delle destre, del loro vero populismo reazionario e di un conservatorismo sempre più prepotente nell’occupazione dei gangli istituzionali e dei centri di comunicazione e di potere.

Non fosse che il progetto riformista su cui è esattamente nato il PD, allora veltroniano, ha rappresentato una anomalia tutta italiana tanto per la sinistra quanto per il centro. I tentativi di coalizzazione delle forze moderate del progressismo socialdemocratico con quelle del popolarismo erede della Balena bianca hanno finito con l’essere un ibrido che ha smentito sia una innovazione sociale sia un miglioramento anche delle condizioni complessive, civili, morali e culturali di questo nostro povero Paese.

Ma Romano Prodi, gliene va dato atto, propone alla platea bonacciniana un compromesso: tenere insieme Guerini, presidenti di regione e di partito con il resto della maggioranza di Elly Schlein è, pur nel nome della gestione unitaria del PD, un esercizio che può apparire degno di un fisico erculeo, di una impresa tutt’altro che lineare e semplice.

E non tanto perché non si tratta di una mera sommatoria di correnti, quanto perché si tratta, invece, di dare ai democratici una nuova identità riposizionandosi su un piano di sinistra. Moderata, ma pur sempre di sinistra. Una fisionomia che si era smarrita col centrosinistra, con la torsione totalmente liberista e destrorsa di Matteo Renzi, con i successivi tentativi di ecumenismo di Martina, Zingaretti e Letta.

Il problema stava, ed ancora oggi in gran parte sta, nella ritrovata necessità di un rimescolamento delle carte della politica italiana, di un riconoscimento delle cosiddette “ideologie” seppure declinate in chiave moderna, ma pur sempre riferite a grandi ambiti da cui è impossibile sfuggire: estrema destra, destra, centro, sinistra moderata, sinistra di alternativa.

Lo schema elettoralistico dell’alternanza, datato all’esclusione del proporzionalismo dalle regole di accesso tanto alla politique politicienne, come idea egualitaria di partecipazione, e con un individualismo leaderistico che ha decostruito la grande stagione dei partiti di massa, degli aggregati che si basavano su una condivisione vera di idee e di cultura, su una visione (anche su visionarismi) di un futuro per cui battersi secondo determinati parametri e linee, ha fino a poco tempo fa imposto una dialettica dei grandi blocchi.

Le coalizioni de l’Ulivo e della Casa delle Libertà prima, de L’Unione e del Popolo delle Libertà poi, se si osserva un po’ l’ultimo trentennio di storia della politica italiana, hanno ormai ben poco a che vedere con la riorganizzazione dell’agorà in cui si tiene la tenzone tra i diversi schieramenti.

Concetti come “centrodestra” e “centrosinistra” sono stati, almeno per ora, archiviati dalla stessa involuzione delle nuove vecchie destre, così come da una (siamo generosi nello scriverlo) evoluzione di un arco progressista piuttosto instabile e incerto.

Da un lato, mentre Prodi rivendica la necessità per il PD di non franare seguendo soltanto un riformismo bonacciniano che guarda più alle istanze delle imprese rispetto a quelle del lavoro o, per contro, andando dietro ad un radicalismo che appare tale solo se si fanno i confronti arditi con le derive destrorse dei democratici in salsa renziana, nella dialettica della politica italiana continuano a mancare elementi fondanti per una ristrutturazione progressista vera e propria.

I Cinquestelle, con tutte le contraddizioni che si portano appresso (e chi non ne ha…), ad iniziare dal populismo grillino, passando per la disdicevole alleanza con la Lega fulcro del primo governo a guida Giuseppe Conte, si trovano oggi nella posizione più esplicitamente rilevabile e percepibile da una buona fetta di popolazione per essere il motore di un alleantismo a sinistra.

Anche per quella cosiddetta “di alternativa“. E’ una condizione data non tanto da un ritrovato spirito originario per una propensione sociale, di critica antiliberista e anticapitalista. Niente di tutto questo. Semmai è una posizione di opportunismo legata a doppia mandata da una necessità di sopravvivere in mezzo ad uno stravolgimento della geopolitica sia parlamentare sia nella concretezza quotidiana del Paese reale.

La morte di Silvio Berlusconi ha ulteriormente spostato a destra l’asse di una alleanza tripartita in cui Forza Italia fa sempre più fatica a presentarsi come il punto di riferimento dei moderati italiani.

Il contenzioso è, qui, quasi tutto quanto con quel Terzo Polo che si unisce, si scinde, convive, rimane a guardare ciò che accadrà. Lo sostiene per primo Carlo Calenda che, rispondendo ad alcuni tweets di esponenti del PD – primo fra tutti Bonaccini – si dice disinteressato alla diatriba del “campo largo“, perché non toccherà a lui governare con i Cinquestelle.

Dunque, Romano Prodi getta sul piatto della discussione della stanca politica italiana dell’era meloniana, un argomento molto interessante, perché chiama in causa non solo la coscienza e la cultura di ciascuno dei suoi amici democratici, ma prima di ogni altra cosa la proposta di alternativa alle destre che il PD dovrebbe costruire da qui alle elezioni europee, nonostante si voti con un sistema elettorale che non prevede coalizioni.

La nuova identità di un Partito Democratico. Questo il tema della due giorni di Bonaccini.

Un PD che deve decidere cosa vuole essere e che, secondo il professore, può essere sia riformista sia radicale, ma dolce e, quindi, moderatamente tale, senza sposare quelli che vengono, un po’ da sempre, considerati degli ideologismi preconcetti da un liberalismo che, oramai, è stato abbondantemente superato dalla saldatura dell’asse tra il liberismo economico e la rappresentanza politica, di governo e di Stato, che le destre intendono continuare a dargli.

E’ del tutto evidente che, se Elly Schlein dovrà continuare a fare i conti con la gestione unitaria di un PD in cui metà del partito è ibridamente riformista (filo imprenditoriale con uno sguardo ad una sostenibilità di una povertà che non si vuole aggredire e superare veramente) mentre l’altra metà, quella rappresentata di più dal voto dei gazebo, è radicalmente dolce, non riuscirà mai davvero a dare ai democratici una chiara collocazione progressista.

Nemmeno simile a quella che il PSOE di Sánchez ha dato ad un socialismo moderato ma, merito comune, alleato con Unidas Podemos prima e ora con Sumar per evitare di avere al governo di Spagna la destra più reazionaria dalla caduta di Franco ad oggi.

Il problema di Schlein è, pertanto, anche interno ai rapporti tra le aree organizzate o meno del PD, ma è anzitutto un tema che riguarda il confronto con un mondo del lavoro che guarda ad un miglioramento delle condizioni di esistenza partendo dalla questione dell’orario di lavoro, del reddito di cittadinanza, del salario sociale minimo, della sicurezza su ogni cantiere, dentro ad ogni impianto produttivo.

Riducendo il tutto ad una estrema ma utile sintesi: Bonaccini non vuole sganciare il PD da un interclassismo che si rifà alla storia recente dei compromessi tra sinistra e centro e, proprio per questo, richiama in causa la formula del centrosinistra quale paradigma del prossimo futuro per un progressismo annacquato e irriconoscibile persino nella dicitura di “riformismo” o di “moderatismo“.

Schlein vuole un partito progressista, di sinistra moderata, magari pure “radicalmente dolce” come lo intende Prodi, ma non può dargli quel corso favorevole che magari pure intenderebbe imprimere al rinnovamento di una forza politica comunque sempre importante, perché metà di questo partito non la seguirebbe. Per lo meno la metà degli amministratori locali, degli organismi dirigenti e soprattutto delle iscritte e degli iscritti.

La trappola dell’ibridazione democratica tra sinistra e centro funziona ancora oggi. E’ una eco lontana, che proviene dal 2008 fino ai giorni nostri e imbriglia il progressismo in una lotta estenuante, privando l’Italia di un rapporto dualistico tra sinistra moderata, socialdemocratica, riformista e sinistra di alternativa, anticapitalista e antiliberista. I Cinquestelle sono nel mezzo, costretti a dettarsi, giorno per giorno, le regole da seguire per non sembrare troppo simili al PD o, altre volte, troppo poco simili alle proprie origini.

In questa partita, non soltanto esclusivamente interna al solo PD, si gioca il rapporto con quella sinistra considerata (giustamente) radicale, nel senso che va alla radice dei problemi e non è disposta ad accettare posizioni di compromesso rispetto all’idea di società che ha in mente. Se Elly Schlein intende davvero proseguire sulla strada di una ricomposizione a sinistra, non deve temere di perdere qualche pezzo per strada. E’ comprensibile che Bonaccini rappresenti qualcosa di più, almeno sul piatto della bilancia elettorale, rispetto a Sinistra Italiana, Verdi, Unione Popolare.

Ma facendo calcoli di bottega si finisce col perdere di vista quella funzione empaticamente importante (e politicamente essenziale, perché avrebbe un chiaro riflesso sociale) che avrebbe un polo, un fronte, una aggregazione delle forze di sinistra moderata e radicale agli occhi di un elettorato tutt’ora smarrito e disperso.

Non è necessario stringere delle alleanze deflagranti per singole forze politiche che le andrebbero a comporre. Sarebbe sufficiente iniziare a dialogare per dare vita a momenti di aggregazione, dismettendo vicendevolmente tutte quelle prevenzioni e quelle pregiudizialità che ci portiamo appresso da troppo tempo.

Se il PD non può condividere la proposta del salario minimo a 10 euro l’ora, indicizzato all’inflazione, perché ne fa una proposta – e anche logicamente – di convergenza delle opposizioni parlamentari nei confronti di una destra devastante per il mondo del sociale, del lavoro e dei diritti costituzionali più elementari, è evidente che Unione Popolare, e così Rifondazione Comunista, non possono sostenere l’invio delle armi alla guerra imperialista della NATO contro la guerra altrettanto imperialista di Putin.

Sono posizioni certamente inconciliabili, più di tutte quella sulla guerra: il riarmo è inammissibile. Così lo sono l’approvazione dei piani europei in tal senso, finanziati anche attraverso le risorse date per tutti altri scopi ma che, come è facile vedere, finiscono per lo più nelle tasche dei privati piuttosto che in quelle dell’erario pubblico a sostegno di progetti di interesse comune.

Ma, nonostante questa diversità lancinante, bisogna guardare al resto ed anche alle convergenze che si possono avere con i Cinquestelle e, in particolare, con Sinistra Italiana e Verdi.

Il momento è greve: a seconda di come andrà il voto in Spagna, l’Europa rischia di capovolgersi su sé stessa, di non abbandonare il suo tratto economicista e bancario, da strozzinaggio dei popoli, sommandovi i tratti di una destra continentale che nega le fondamenta egualitarie date, seppure a mo’ di cornice, all’idea di un continente privo di nazionalismi.

Sappiamo cosa viene dalle politiche esasperate delle singole nazioni. Sappiamo che portano ad una esaltazione degli egoismi che, in questo moderno scenario liberista, sarebbero veramente deflagranti per quel poco di tutele che si è riusciti ad aver nel corso di oltre ottant’anni dallo scoppio della Seconda guerra mondiale e della tragedia del nazifascismo.

Dobbiamo, come comuniste e comunisti, come donne e uomini di sinistra, lavorare per contenere e limitare i danni delle destre e, al tempo stesso, preparare una alternativa che possa imporsi nuovamente nella cultura di massa, sostituendo il privato col pubblico, con l’interesse sociale e con la pubblicizzazione di ogni bene comune. Lo possiamo fare soltanto se intendiamo costruire una forza politica che sappia essere sé stessa nel rapporto necessario col resto del progressismo (mancante) in Italia.

Proprio perché non ci rassegniamo al teorema prodiano della convergenza tra riformismo e radicalismo dolce, che non a caso viene proposto all’assemblea della corrente di Bonaccini, dobbiamo fare tutto quello che ci è concretamente possibile per dare vita ad un fronte progressista che includa tutti coloro che vogliono lottare per una nuova giustizia sociale e che, quindi, escluderebbe di per sé tutti quelli che invece nella sinistra vedono solo una parola di facciata, una maschera da mettersi per fare nuovi compromessi con il centro e con i peggiori tra i liberisti.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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