Il tema del riarmo degli Stati viene messo spesso a margine della grande, tragica questione delle guerre e, nello specifico, della guerra che, per la sua stretta attualità e presenza nel cuore della vecchia Europa, è divenuto il conflitto per antonomasia.

Se ne parla come di una necessità impellente, di una sorta di propellente addirittura per la difesa della democrazia dalle peggiori tirannidi dell’Est, di altri paesi in odore di dittatura e si tralascia di dire, con assoluta e meticolosa volontà applicata, che la guerra si fa sempre in due e, anche di più.

Siccome nessuno muove guerra a sé stesso, a meno che non sia preso da un furore autolesionista del tutto storicamente, politicamente e socialmente inspiegabile, il riarmo va considerato come una comune volontà di accrescere progressivamente il potenziale bellico: non c’è una parte buona che si riarma e una cattiva che lo fa solo al fine di continuare la guerra in modo unilaterale.

La guerra è un esercizio bipartisan, in termini di forza bruta speculare, almeno fino a quando le parti in causa sono in grado di fronteggiarsi, se non proprio alla pari, in una condizione di impossibilità per gli uni o per gli altri a prevalere, a vincere.

Sappiamo cosa lasciano le vittorie sui campi di battaglia. Morti, macerie, mine inesplose, città, strade, campi distrutti. Una desolazione che dovrebbe non appartenere a quel mondo evoluto e moderno che i teorici del libero mercato e della globalizzazione magnificano ogni giorno.

Dunque, quando si parla di riarmo, la prima cosa che dovremmo prendere in considerazione è che non stiamo discutendo di una politica tesa alla semplice deterrenza. Parliamo invece di una precisa determinazione a proseguire nella guerra: l’Italia, insieme all’Unione Europea, alla NATO e agli Stati Uniti d’America fa parte del consesso occidentale che mira non solo a sostenere una prevalenza sulla Russia per decretare la vittoria delle democrazie sulle tirannidi oligarchiche dell’Est.

Principalmente, questo scontro che va avanti da un anno e mezzo, ci dice che ad affrontarsi sono due blocchi imperialisti: quello che non si riconosce nell’unilateralismo mondiale decretato da Washington e dai suoi alleati contro quello che, per farsi largo nell’accerchiamento prodotto dall’espansione dell’Alleanza atlantica verso i suoi confini, ha portato la guerra in Ucraina, dopo che a portarla nel Donbass erano state le repressioni armate del governo di Kiev.

Il riarmo, dunque, è una linea di politica estera che riguarda anzitutto chi, da un punto di principio morale ritiene che la propria civiltà debba primeggiare sulle altre e, per realizzare questo dettame, intraprende una serie di azioni che proteggano ed espandano anzitutto il dominio economico e finanziario del proprio paese o della propria area di influenza nel resto del mondo.

L’imperialismo moderno, del resto, si discosta poco da quello già novecentescamente conosciuto: molto di più oggi, perché con mezzi sempre più innovativi che consentono di intromettersi negli affari di Stati esteri, di territori dove i conflitti imperversano e non lasciano spazio ad una autonomia, ad una vera e propria indipendenza, le potenze globali si intrufolano nei gineprai politico-affaristici dei governi locali.

Lo fanno con le transazioni bancarie, con compravendite di titoli ed azioni, con la corruzione e con l’invio di truppe mercenarie che sostengono colpi di Stato qua e là nel continente africano o che navigano piratescamente per i mari a seminare terrore, a disturbare i traffici più o meno leciti di questa o quella nazione. Il più delle volte si tratta di azioni diversive, di blocchi navali mai dichiarati ma di fatto esistenti.

Il mercato delle armi è, in questi frangenti, uno dei più floridi: caso mai non bastassero gli oltre sessanta conflitti sparsi per il pianeta ad oggi, i servizi segreti sono pronti a fare la loro parte per aprire tutte le contraddizioni opportune e necessarie per destabilizzare nuovi settori ritenuti, di volta in volta, strategici.

La guerra fratricida scoppiata nel Sud Sudan è solo uno di questi esempi, unitamente al recentissimo colpo di Stato in Niger fatto dai militari e sostenuto dalla milizia Wagner di Evgenij Viktorovič Prigožin.

Attenti analisti di questi temi internazionali, proprio sulla questione del riarmo in Europa hanno fatto notare che, prima di chiamare i Ventisette a riempire di nuovo i loro arsenali, sarebbe stato utile mettere in piedi una politica continentale estera e di difesa condivisa e non spaccare la UE tra chi è fedelissimo agli USA e alla NATO e chi guarda di sottocchio alla Russia putiniana (parte dei paesi visegradiani).

Quando ci si riferisce all’Alleanza atlantica come campionessa di difesa della libertà nel mondo, si dovrebbe ricordare che le guerre più devastanti, quelle che hanno creato i presupposti dell’ingovernabilità di grandi paesi che si autogestivano e che avevano, a suo tempo, trovato nella “terza via” un luogo di incontro a parziale tutela dall’uno e dall’altro blocco della “Guerra fredda“, le ha fatte proprio la NATO.

La Libia è un esempio lampante di questa analisi oggettiva dei fatti che hanno trascinato vasta parte del nord Africa e del Medio Oriente dentro scenari di conflitto interetnico e religioso, scatenando fondamentalismi che hanno superato il laicismo di Stato che si era andato creando con le esperienze baathiste del secondo Novecento: dall’Iraq di Saddam Hussein al regime del colonnello Gheddafi, passando per la Siria degli Assad.

Qualcuno aveva, a dimostrazione della pretesa superiorità etico-politica dell’Occidente affermato: «Se è buono per l’America è buono per il mondo». Un paradigma che poteva fare il paio con quanto disse Kennedy riferendosi al dovere degli statunitensi dentro la Repubblica stellata e al di fuori di essa: «Non chiedete cosa può fare il vostro paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro paese».

La frase è rimasta scolpita nella Storia come un grande principio di mutualismo popolare, del venire incontro alle amministrazioni governative, del fare tutto quello che è nelle proprie capacità per sostenere gli sforzi dei buoni governi dediti alla causa nazionale, al benessere comune, alla sicurezza dei cittadini.

Cosa facesse il governo americano all’epoca è abbastanza noto: le guerre non gli mancavano di certo. Non mancavano nemmeno ai sovietici e la crisi dei missili a Cuba portò il mondo sull’orlo di una irreversibile crisi internazionale, al punto di non ritorno di una guerra nucleare.

Per questo non esiste un’etica superiore occidentale che possa permettersi di rimbrottare gli altri paesi che fanno le guerre: perché queste sono trasversalmente sempre il prolungamento dell’azione politica quando si tratta di fare del protezionismo un’arte di tutela dei propri confini, dei privilegi e della supremazia economica che sta alla base di tutto.

Se la NATO impone agli Stati che ne fanno parte di destinare il 2% della loro ricchezza nazionale alla produzione, compera e stoccaggio di nuove armi, perché mai non potrebbe o dovrebbe farlo la Russia? Perché quest’ultima ha invaso l’Ucraina?

Facciamo in modo che ci si racconti ancora la favola della armi di distruzione di massa di Saddam Hussein (ricordando comunque la grande strage operata contro i curdi nel nord del paese mediorientale) che avrebbero giustificato l’intervento americano e degli alleati nel Golfo Persico? Oppure possiamo iniziare ad avere una angolazione più ampia in merito allo sguardo critico che dobbiamo istruire quando ci riferiamo alle guerre che ieri ed oggi flagellano i popoli in tante parti del mondo?

Se il multilateralismo deve essere lo schema interpretativo di questi conflitti che si prolungano nei decenni (e la guerra in Ucraina rischia di finire similmente a quelle che sono durate venti, trent’anni e sono poi finite con il ritorno dei talebani e l’archiviazione di ogni presupposto democratico), allora non c’è altro piano di interazione tra i movimenti che ostacolano le guerre se non quello del disarmo, supportato dal ricorso preventivo alla diplomazia, alla fine delle guerre.

La nostra permanenza nell’Alleanza atlantica ci ha reso un paese a sovranità limitata, ci ha condizionato molto di più di quanto presuntuosamente ci veniva detto sul piano difensivo e, per quanto riguarda i tempi, è andata molto oltre la fine della Guerra fredda.

La NATO si è così tanto globalizzata da stipulare al vertice di Vilnius una collaborazione fattiva con il Giappone, quella che viene chiamata una “partnership“. La gendarmeria del mondo, che era negli slogan dei movimenti anticapitalisti e antimperialisti degli anni ’60 e ’70, nonché dei decenni successivi, oggi non è solo più un vagheggiamento di un pericolo in prospettiva. Oggi diviene realtà.

Più di uno studioso, di scuola liberale, si è domandato se la visione del mondo che hanno gli Stati Uniti sia, alla fine, davvero quella che il mondo anela avere. Oppure se Washington non voglia uniformare il globo a sé stessa, alla propria interpretazione tanto della società quanto della politica e dell’economia.

La risposta sarebbe fin troppo facile, se non fosse che dopo la fine del bipolarismo e delle due superpotenze (USA e URSS), sta emergendo proprio in questo inizio di nuovo millennio una fase del tutto nuova, che dalle guerre contro il terrorismo eredita una prepotenza imperiale che non può più, almeno al momento, scagliare contro ciò che ha già conquistato e portato al disastro: dall’America Latina all’Africa, tra colpi di Stato e sollevazioni militari, dalle guerre balcaniche a quelle del Golfo e in Afghanistan.

Il multilateralismo imposto dall’ascesa di Cina, India, Russia e BRICS, oggi mette gli Stati Uniti davanti alla scelta di lasciarsi condizionare dal nuovo corso della Storia oppure reagire ancora una volta con la brutalità consueta, nel nome ovviamente della democrazia, dei valori e dei diritti umani (esattamente quelli calpestati favorendo le peggiori dittature sudamericane e africane, torturando a Guantanamo e un po’ ovunque nel mondo…) e della superiorità etica dell’Occidente.

La guerra in Ucraina, il riarmo e la risolutezza della NATO sono la peggiore espressione di questa scelta conclamata e senza bisogno di ulteriori prove: l’imperialismo americano gioca la sua cinica partita al pari di quello russo e cinese. Il dominio del mondo non è alla portata di nessuno, ma, da quel che si vede, la bilancia comincia a pendere dalla parte della maggioranza. Quella che non ha mai pensato di vivere all’ombra della bandiera a stelle e strisce.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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