di Alessandro Scassellati
Le estreme destre fanno ormai parte del panorama politico europeo. Con alti e bassi, cercano di normalizzarsi e di conquistare una maggiore influenza nei singoli Paesi e a livello di Unione, in un contesto di alleanze con le destre conservatrici tradizionali. Sul tavolo c’è la possibile alleanza tra PPE e ECR, tra il bavarese Manfred Weber e l’italiana Giorgia Meloni, per governare l’Unione Europea dopo le elezioni per il Parlamento Europeo del giugno 2024.
Negli ultimi anni, i partiti di estrema destra non sono solo entrati nei parlamenti di quasi tutti i Paesi europei, ma anche nei governi di parecchi di essi. Allo stesso tempo, i cosiddetti “cordoni sanitari democratici” e i “muri di fuoco” per isolarli sono stati indeboliti, o direttamente infranti, mentre loro si sono via via normalizzati1 e sono stati sdoganati (dédiabolisée) dai media e dalle forze politiche tradizionali mainstream. Ormai, in vista delle elezioni per il Parlamento Europeo del 2024, le estreme destre stanno pianificando la loro battaglia per guadagnare spazio politico all’interno dell’Unione Europea e prendere il controllo di Bruxelles insieme ai partiti conservatori tradizionali.
Gli avanzamenti dei partiti di estrema destra sono avvenuti e stanno avvenendo in tutti i Paesi dell’Unione Europea, anche se con esiti a volte altalenanti. Sono e continueranno ad essere attori politici importanti praticamente ovunque dal momento che la destra mainstream è disponibile a cooperare con loro, mentre le forze di centro-sinistra e sinistra si dimostrano incapaci di unirsi contro di loro.
Da questo punto di vista, un caso emblematico è quello del Partito della libertà austriaco (FPÖ), fondato nel 1956 da alcuni notabili ex nazisti, che aveva ricevuto poco meno del 27% dei voti ed era arrivato al governo con l’ÖVP (il partito conservatore democristiano) tra il 2000 e il 2005 sotto la guida di Jörg Haider. Per questo, allora, molti Paesi europei e Israele inflissero sanzioni diplomatiche all’Austria, mentre Nicole Fontaine, presidente del Parlamento Europeo, affiliata al PPE, annunciò persino che non avrebbe messo piede in Austria finché l’estrema destra fosse stata al governo. “L’Europa può benissimo fare a meno dell’Austria. Non ne abbiamo bisogno”, era stata la dura reazione del ministro degli Esteri belga Louis Michel. Alle successive elezioni il FPÖ aveva subito un crollo elettorale che sembrava condannarlo ad un definitivo declino. Invece, dopo qualche anno è nuovamente cresciuto sotto la guida di un nuovo leader, Hans Christian Strache (che era stato arrestato nel 1988 per aver preso parte alla marcia di un movimento neonazista modellato sulla Hitlerjugend), ed è rientrato nel governo anti-immigrazione, anti-Islam e anti-welfare guidato dal wunderwuzzi dell’ÖVP, Sebastian Kurz, nel 2017, per poi essere travolto, insieme al governo (18 maggio 2019), a causa del cosiddetto Ibizagate, uno scandalo che ha fatto temere che la Russia di Putin avesse una linea diretta in un governo nel cuore dell’UE (si veda il nostro articolo qui). Il “patriota” Strache si è dovuto dimettere (ma anche Kurz è stato travolto) e alle successive elezioni generali il FPÖ ha perso la metà dei voti. Tuttavia ora è di nuovo in ripresa nei sondaggi (dato al 28%, 5 punti avanti all’ÖVP e 6 all’SPÖ) e potrebbe vincere le prossime elezioni generali nel 2024.
Durante la pandemia da CoVid-19 nel 2020/21, molti analisti mainstream si dichiararono fiduciosi che l’estrema destra era ormai in declino perché si era compreso il valore e l’importanza della gestione politica. In molti hanno sostenuto che l’ondata nazional-populista era finita e che tutto sarebbe tornato, più o meno, sui canali tranquilli di un tempo.
Niente di più lontano dalla realtà. Lo stiamo vedendo in quest’ultimo anno perché, prima di tutto, le cause che spiegano l’ascesa di queste formazioni politiche sono ancora lì: l’aumento delle disuguaglianze, il crollo dell’ascensore sociale, la modesta crescita economica, la cosiddetta “reazione culturale” ai cambiamenti vissuti dalle società europee, gli altissimi livelli di sfiducia dei cittadini nelle istituzioni, la crisi dei partiti tradizionali, il sentimento di preoccupazione o addirittura di paura di fronte alle trasformazioni che stiamo vivendo, a cominciare dai cambiamenti climatici della “era della ebollizione globale”, e ai sacrifici che i governi indicano che saranno necessari per affrontarle2, il crescente invecchiamento della popolazione e la drammatica crisi della riproduzione sociale (esemplificata dal numero dei NEET, dal declino demografico, dal crollo di fecondità, natalità e popolazione in età attiva, dalla carenza di asili nido e servizi socio-sanitari, da patriarcato, femminicidi e battaglie per il controllo sulla capacità riproduttiva delle donne), dall’impatto delle nuove tecnologie digitali.
In secondo luogo perché la guerra in Ucraina, con tutte le sue conseguenze – aumento dell’inflazione (con la conseguente perdita del potere d’acquisto) e dei tassi di interesse (arrivati ai massimi da 20 anni, con conseguenti rincari di mutui e prestiti bancari), crisi energetica, deindustrializzazione dei settori industriali energivori (siderurgia, chimica, ceramica, vetro, ecc.), a cominciare dalla Germania, il “motore” delle catene europee della produzione industriale, il prevalere di discorsi militaristici e l’aumento delle spese militari, l’aumento del debito pubblico, l’aumento delle tensioni geopolitiche e geoeconomiche tra Occidente e Sud Globale –, ha determinato un clima di paura e ansia favorevole per l’estrema destra.
Quando c’è paura, l’estrema destra conquista consensi perché la sua narrazione si basa proprio sul cavalcare la paura. Oggi, le classi medie e popolari vivono nella paura ed angoscia perché vedono peggiorare le loro condizioni di lavoro e vita. L’angoscia non solo condiziona fortemente la loro libertà di decisione, ma può rendere addirittura impossibile per loro operare una scelta non condizionata; solo una persona senza paura è in grado di decidere liberamente. Dopo 40 anni segnati da politiche (de)regolative neoliberiste, quello che sembra contare per molti è una sorta di «darwinismo sociale», ossia che nella lotta continua per la sopravvivenza, le condizioni di lavoro e vita delle persone di colore, dei migranti, dei poveri e degli altri esclusi, peggiorino più delle loro. L’importante è potersi sentire superiori almeno a qualcuno in una società dove quasi tutti sono trattati non come dei cittadini, ma come degli «scarti» o, come scriveva Hannah Arendt nel suo capolavoro Le origini del totalitarismo3, degli «uomini superflui».
L’estrema destra promette politiche securitarie che si basano sul capro espiatorio, colpevolizzando e criminalizzando poveri (visti come colpevoli della loro condizione perché “fannulloni” in quanto considerati “occupabili”, ossia abili al lavoro), immigrati, minoranze, altri soggetti deboli, giovani e attivisti sociali e climatici4. Promette protezione anche sul piano economico anche se poi le politiche che promuove generalmente prevedono tagli alla spesa per il welfare, guerra ai poveri e non alle cause strutturali della povertà, austerità di bilancio, nuove deregolamentazioni del mercato del lavoro (per renderlo iper-flessibile) e nuove dosi di ordoliberismo.
Il terzo motivo che spiega l’avanzata dell’estrema destra è che i “cordoni sanitari democratici” ora sono stati abbattuti e vediamo il moltiplicarsi delle alleanze tra la destra conservatrice tradizionale (moderati, democristiani, conservatori, liberali) e l’estrema destra – in Italia, Olanda, Svezia, Finlandia, Danimarca, Spagna, Paesi baltici5. Tranne che in Ungheria e Polonia (due Paesi che perseguono da anni modelli politico-istituzionali nazional-conservatori e “illiberali“), infatti, l’estrema destra è entrata in diversi governi europei, sempre a braccetto con la destra mainstream6.
Da una parte, l’estrema destra è consapevole di non poter arrivare al potere da sola e che quindi deve trovare accordi con la destra tradizionale. Dall’altra, quest’ultima ha preso atto che, se vuole governare, se non è in grado di ottenere la maggioranza assoluta autonomamente7, nella maggior parte dei casi, con sistemi politici sempre più frammentati e polarizzati, deve allearsi con queste forze estreme. Per questo le sta normalizzando e legittimando ancor più di quanto non lo fossero già. In molti Paesi europei, i partiti di destra non sarebbero dove sono senza la complicità dei partiti tradizionali mainstream che tendono a non opporsi vigorosamente a loro e ad offrire una visione alternativa del futuro, ma ne imitano la retorica, parole d’ordine e politiche. Tutto ciò che hanno ottenuto finora è legittimare i fanatici e consentire loro di definire i termini del dibattito pubblico.
Il primo ad abbattere il “cordone sanitario democratico” è stato Silvio Berlusconi che nel 1994 portò al governo i neofascisti del Movimento Sociale Italiano di Gianfranco Fini e gli etno-regionalisti “padani” della Lega Nord di Umberto Bossi. Oggi, i cosiddetti “cordoni sanitari democratici” continuano a funzionare solo in Germania e, con crescenti eccezioni, in Francia e in Belgio8. Di recente, in Germania il leader dell’Unione Cristiano Democratica (CDU), Friedrich Merz, possibile candidato al cancellierato per il partito alle prossime elezioni generali, ha fatto scalpore aprendo la possibilità di collaborazione con Alternativa per la Germania (AfD) a livello locale9. Dopo aver ricevuto numerose critiche, Merz si è corretto, ma la proposta rimane sul tavolo. AfD è stata inserita dall’agenzia di intelligence, incaricata di difendere l’ordine costituzionale democratico della Germania, nella categoria dei “casi sospetti” di estremismo di destra nel marzo 2022. Di recente, ha vinto, per la prima volta, l’equivalente del sindaco nella città orientale di Sonneberg. I sondaggi suggeriscono che l’AfD è ora il secondo partito più popolare della Germania (con il 21%, dietro al 25,5% di CDU/CSU e davanti al 19% dell’SPD) e ha una piattaforma anti-immigrazione, anti-Islam, anti-LGBTQI+, anti-guerra in Ucraina (anti-sanzioni contro la Russia), di negazionismo riguardo ai cambiamenti climatici e per una “Europa degli Stati nazionali”. La coalizione del “semaforo” – SPD, Verdi e FDP – che governa, ha perso popolarità e secondo diversi sondaggi ora non ha più la maggioranza.
Lo sdoganamento dei partiti di destra non sta avvenendo solo a livello nazionale, ma anche a livello europeo. A partire dall’estate 2022 è stata lanciata un’operazione ideata da Giorgia Meloni e Manfred Weber per un’alleanza tra il Partito Popolare Europeo (PPE), di cui il bavarese Weber (politico della CSU) è presidente, e i Conservatori e Riformisti Europei (ECR). Questo partito paneuropeo, presieduto da Giorgia Meloni, riunisce, tra gli altri, Fratelli d’Italia (al governo), il polacco Diritto e Giustizia (PiS, al governo), Vox in Spagna, i Democratici di Svezia (al governo) e il Partito dei Finlandesi (al governo). Tutte formazioni politiche, tranne il PiS, che hanno siglato accordi con la destra mainstream nei rispettivi Paesi a diversi livelli di governo (Vox solo per i governi regionali e comunali con il PP). Questa operazione ambisce a cambiare gli equilibri politici dell’UE alle prossime elezioni europee del giugno 2024, stringendo un’alleanza tra PPE ed ECR per sostituire la grande “coalizione Ursula” tra popolari, socialisti e liberali che ha governato fino ad ora l’Unione.
La non vittoria della destra in Spagna nelle recenti elezioni del 23 luglio (Vox ha perso 600 mila voti e 19 deputati ed è irrilevante nel nuovo Parlamento) ha significato una battuta d’arresto per questa operazione. “È arrivato il momento dei patrioti in Europa“, aveva proclamato Giorgia Meloni, in videoconferenza e in perfetto spagnolo, durante un comizio della campagna elettorale di Vox il 13 luglio. Se il Partito Popolare avesse vinto le elezioni con un numero maggiore di deputati, Vox si sarebbe assicurato l’ingresso nell’esecutivo, spostando a destra un Paese importante come la Spagna (si vedano gli articoli su Transform qui, qui e qui)10. I popolari sono cresciuti, recuperando tutti i voti persi nell’ultimo decennio a favore di Ciudadanos, ma non hanno soddisfatto le aspettative che erano state create. Sebbene il PP sia il primo partito, non ha alcuna possibilità di formare un governo. Ma Vox ha comunque ottenuto più di tre milioni di voti, consolidando buona parte del suo elettorato, senza aver voluto moderare i propri i toni identitari di estrema destra su temi come immigrazione, laicità, famiglie non tradizionali, LGBTQI+, violenza contro le donne, aborto ed eutanasia. Dipenderà da cosa succede ora, dalla possibile formazione di un nuovo governo di centro-sinistra (con una difficile trattativa con i partiti regionali e quelli autonomisti catalani) o dal ritorno alle urne e da cosa farà il partito guidato da Santiago Abascal e da cosa faranno i popolari, per poter capire se Vox è un partito con un futuro o è stato un fuoco fatuo della politica spagnola.
Il risultato delle ultime elezioni generali spagnole ha confermato quello che abbiamo già visto negli Stati Uniti e in Brasile: l’estrema destra può essere sconfitta solo se l’elettorato di sinistra e progressista si mobilita e va in massa a votare. Donald Trump ha ottenuto nel 2020 11 milioni di voti in più rispetto al 2016 e Jair Bolsonaro mezzo milione in più nel 2022 rispetto al 2018. Non hanno perso, insomma, perché i loro elettori sono rimasti delusi dalla loro gestione politica o si sono resi conto che erano impresentabili, ma perché c’erano 15 e 13 milioni di persone in più che sono andate a votare rispettivamente per Joe Biden e Luiz Inácio Lula da Silva. Lo stesso è avvenuto in Spagna. Un governo PP-Vox non è stato evitato perché la destra ha regredito elettoralmente (insieme PP e Vox hanno preso 700 mila voti in più rispetto alle elezioni generali del 2019), ma perché gli elettori di sinistra si sono mobilitati per fermare l’ondata reazionaria.
Il pragmatismo della destra radicale: il modello Meloni
In questi mesi si è detto spesso che Meloni ha moderato toni e ambizioni politiche dopo essersi insediata al governo a Roma11. È un’analisi superficiale e sbagliata, che non coglie le trasformazioni sottostanti. Meloni non è diventata moderata. È semplicemente pragmatica.
Ha capito che ci sono due linee rosse che non può superare se vuole garantire la sua sopravvivenza politica: l’Atlantismo della NATO (riconoscendo che Italia e Unione Europea sono dei semplici satelliti degli Stati Uniti, soggetti ai loro interessi di dominio imperialista globale, per cui il governo italiano, oltre a inviare armi in Ucraina, intende inviare una portaerei nel mare della Cina allineandosi alla nuova strategia di intervento nell’Indo-Pacifico della NATO) e quello che potremmo chiamare euro-realismo, cioè una sorta di europeismo di facciata che maschera un euroscetticismo di fondo, ma accetta il paradigma delle politiche di austerità imposto da Bruxelles.
La posizione di Meloni sulla guerra in Ucraina è stata chiara: sostenere la NATO e inviare armi a Kiev. Ciò garantisce che viene vista come un alleato affidabile da Washington (mentre un anno fa era guardata con preoccupazione), come è emerso dal recente incontro con Biden, il quale ha parlato di “solida alleanza” tra USA e Italia sulla questione Ucraina e ha minimizzato le differenze sulle posizioni del governo Meloni su Cina12, immigrazione, aborto e diritti LGBTQ+. Oggi, grazie al pragmatismo di Meloni, l’Italia (con la sua dozzina di basi NATO) è considerata, insieme alla Polonia, l’alleato più fedele degli USA nell’Unione Europea. Questo anche se il riferimento politico statunitense di Meloni e Fratelli d’Italia non sono certo Biden e i Democratici, ma Donald J. Trump, i Repubblicani, Steve Bannon e la Conferenza sull’Azione Politica Conservatrice (CPAC).
Con i vertici di Bruxelles Meloni ha capito di aver bisogno di un rapporto un po’ cordiale: il tempo per chiedere l’uscita dell’Italia dall’euro e dall’UE è passato. Meloni fa i conti con il fatto che l’Italia è la terza economia dell’UE, ma dopo la Grecia è il Paese con il più alto debito pubblico del continente e il maggior beneficiario dei fondi europei Next Generation EU (che però il governo non riesce a spendere). Per questo è necessario avere un rapporto cordiale con Bruxelles. Nell’estate 2022, prima delle elezioni politiche di settembre, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen aveva minacciato di gravi conseguenze gli italiani se avessero eletto Giorgia Meloni. Ma ora i due leader, uno della destra conservatrice e l’altro di estrema destra, sono tutti sorrisi per i fotografi, si scambiano convenevoli sui social e viaggiano insieme in Tunisia (un Paese sull’orlo del collasso sociale ed economico sotto il controllo di un presidente autocrate). In pochi mesi la presidente del Consiglio italiano, precedentemente descritta come “populista”, “illiberale” e “postfascista”, è diventata un interlocutore serio, ragionevole e affidabile.
Questo ovviamente non significa che Meloni sia favorevole a una maggiore integrazione politica del continente. Al contrario, chiede che i poteri siano restituiti agli Stati nazionali. Sa che sfoghi e polemiche sono controproducenti perché è una battaglia a lungo termine. Quello che le interessa è arrivare al potere a Bruxelles: da qui l’operazione ordita con Weber (dall’ottobre 2022 Weber è venuto a Roma cinque volte per corteggiare Meloni).
Ora, al di là del pragmatismo atlantico ed europeo, in tutto il resto Meloni continua a dire a fare come prima. L’unica differenza è che forse usa un tono più istituzionale per via della posizione che occupa. In questi primi 9 mesi, la maggioranza di estrema destra che governa a Roma ha portato avanti politiche identitarie, tagli ai diritti, tagli al welfare (come l’abolizione del Reddito di Cittadinanza in presenza di oltre 5,5 milioni di persone in povertà assoluta senza alcuna rete di protezione e sicurezza sociale universalistica) e occupazioni manu militari di istituzioni e televisioni pubbliche che richiamano i modelli polacco e ungherese, senza contare il progetto di una semi-riforma presidenziale che rafforzerebbe il ramo esecutivo (mentre nella cosiddetta prima Repubblica il presidenzialismo veniva considerato un attentato golpista alla Costituzione antifascista).
In materia di immigrazione e asilo, se la linea di fondo del governo rimane quella razzista, suprematista e xenofoba espressa dal ministro dell’Agricoltura Lollobrigida (cognato di Meloni) che considera l’arrivo di persone non bianche e non cristiane come una minaccia di “sostituzione etnica” (una teoria del complotto secondo cui non ben definite élite stanno sostituendo gli europei bianchi con i migranti di colore nelle loro “patrie“), la Meloni dimostra che oltre ad essere un politico pragmatico, è anche un politico intelligente che sa come arrangiarsi. Ha capito che non può risolvere l’arrivo dei migranti solo con la xenofobia, il blocco navale o la chiusura delle frontiere. Così plasma il suo discorso secondo il momento: a volte carica i toni per la gioia del suo elettorato più radicale, a volte cerca di presentarsi ragionevole e moderata. Sta mostrando anche una certa audacia politica andando in Africa con un discorso quasi anticoloniale, dicendo che le migrazioni si fermano sostenendo quel continente con aiuti finanziari e investimenti da realizzarsi attraverso il (per ora fantomatico) “Piano Mattei” (apparentemente incentrato sulla possibilità di fare dell’Italia un vero snodo energetico – non soltanto un terminale – euromediterraneo per il gas naturale). Vende questo discorso come la versione pratica dello slogan “aiutiamoli [i migranti] a casa loro“, dopo che per secoli l’Italia e gli altri Paesi europei li hanno saccheggiati e continuano a farlo con una politica economica estrattivista che va a beneficio delle loro banche e imprese.
L’obiettivo è duplice. Da un lato, per essere più accettabile tra l’elettorato italiano moderato che l’ha votata a malincuore o che non l’ha ancora votata, ma potrebbe apprezzare una presa di posizione più istituzionale in materia. Dall’altro, per trovare punti di contatto con le istituzioni europee. Esemplare in questo senso sono i viaggi in Tunisia con la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il premier liberal-conservatore olandese Mark Rutte per raggiungere un accordo con il governo del Paese (un Memorandum d’intesa UE-Tunisia definito una “partnership strategica“) per fermare la partenza dei migranti dell’Africa subsahariana (respingendoli nel deserto lungo i confini libico e algerino), in cambio di aiuti finanziari (1,12 miliardi di euro complessivi) e ignorando le continue gravi violazioni dei diritti umani commesse dal governo tunisino13.
Viaggi seguiti dalla convocazione di una “Conferenza su migrazioni e sviluppo” a Roma (23 luglio) con l’obiettivo di estendere il modello tunisino ad altri Paesi della sponda sud del Mediterraneo, esternalizzando le frontiere. Uno “zibaldone di intenti” che rischia di rimanere sulla carta e di essere mera propaganda perché incontra il suo limite nella profonda diffusa instabilità politica ed economica di quasi tutti i Paesi del “Mediterraneo allargato” (una delle aree della nuova strategia di intervento della NATO, ormai definito il “confine meridionale d’Europa”), ossia della riva sud del Mediterraneo e dell’Africa maghrebina e saheliana (con colpi di Stato militari in sequenza in Mali, Chad, Burkina Faso, Niger, Sudan e Guinea Bissau che hanno abbattuto regimi politici in gran parte filo-occidentali, guerre civili in corso in Libia, Somalia, Etiopia, Sudan, Repubblica Centro Africana, penetrazione delle milizie armate russe della Brigata Wagner, regimi autoritari in Tunisia, Egitto, Algeria) e nella crescita dell’ostilità degli africani verso UE e USA e nel conseguente progressivo declino dell’influenza politico-militare francese (l’ex potenza coloniale), europea, statunitense e delle Nazioni Unite in favore di una penetrazione geopolitica da parte di attori internazionali non occidentali (Russia, Cina, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti). Insieme agli effetti disastrosi dei cambiamenti climatici (che fanno fallire i raccolti e morire il bestiame, provocando carestie, fame e sete), si è determinata una tragica spirale fatta di più militarizzazione delle frontiere interne dell’Africa, più repressione, più colpi di Stato, più corruzione, più violenza e violazioni dei diritti umani, più sofferenza e, in definitiva, più rifugiati e migranti che tentano viaggi pericolosi verso l’Europa in cerca di asilo e sicurezza.
Ma i politici europei continuano a vedere la difficile situazione dei migranti che viaggiano dall’Africa verso l’Europa essenzialmente come un problema di politica interna, non come un problema derivante dalle disuguaglianze globali, dallo sfruttamento iniquo delle risorse, dai cambiamenti climatici, dai regimi autoritari e dalle guerre. A questo proposito, un osservatore attento come Domenico Quirico si domanda: “Quanti dei politici di destra e di gauche, a Bruxelles, a Roma, in Europa sanno chi sono gli uomini che vivono in questa parte disperata del mondo, quali sono i loro bisogni, le loro accanite speranze, di come vogliono liberarsi della vecchia pelle?”. Secondo Quirico, l’Europa/l’Occidente ha fatto un “calcolo sbagliato. Non si è accorto che in tutto il Sahel, e non solo, sta montando un nuovo anti-colonialismo, una nuova Africa furibonda a cui l’irrompere della Cina e la tragedia del jihadismo ha offerto spunti di riflessione e rabbia. Che si riflette anche nel moltiplicarsi delle ‘giunte militari patriottiche’ e nella rivolta delle società civili che non vogliono più essere vittime inermi della violenza jihadista e della contro violenza della lotta al terrorismo occidentale. A costo di trattare con i fanatici e di farli entrare nel gioco politico. A costo di accettare i Colonnelli e i loro oscuri accidenti”.
D’altra parte, come ha affermato il socialista Joseph Borrell, il responsabile della politica estera della UE, a un vertice informale dell’UE a Praga il 7 ottobre 2022, in Europa c’è «la migliore combinazione di libertà politica, prosperità economica e coesione sociale che l’umanità è stata in grado di costruire: tutte e tre le cose insieme». Borrell ha sostenuto che «l’Europa è un giardino», mentre «la maggior parte del resto del mondo è una giungla e la giungla potrebbe invadere il giardino». Borrell ha sostenuto che «il giardino» non può difendersi costruendo un muro, «perché la giungla ha una forte capacità di crescita e il muro non sarà mai abbastanza alto da proteggere il giardino». La soluzione per Borrell è che «i giardinieri devono andare nella giungla. Gli europei devono essere molto più coinvolti con il resto del mondo. Altrimenti, il resto del mondo ci invaderà, in modi e mezzi diversi». Ossia, gli europei devono farsi nuovamente carico del «fardello dell’uomo bianco» di Kipling e aiutare a civilizzare il mondo con un nuovo neocolonialismo. Coerentemente con la linea espressa da Borrell, la leader di Fratelli d’Italia cerca di siglare accordi bilaterali con diversi Paesi africani e creare così una propria agenda per avere maggiore influenza nella regione.
Se l’UE ha accettato che un governo socialdemocratico come quello danese mantenesse una politica migratoria paragonabile a quella proposta da governi e partiti di estrema destra, perché dovrebbe condannare quanto sta facendo Meloni?
I modi di pensare dell’estrema destra, in particolare sull’immigrazione e l’identità, sono penetrati nel mainstream europeo. In materia di immigrazione, molti principi fondamentali dell’estrema destra – la militarizzazione dei controlli alle frontiere, la detenzione di massa e la deportazione di migranti privi di documenti, l’insistenza sul fatto che i rifugiati debbano chiedere asilo solo al di fuori dell’UE – sono stati trasformati in politiche, e non solo nell’UE. L’approccio del governo italiano e dell’Unione Europea alla migrazione dal Sud del mondo riproduce gerarchie globali che negano alle persone di colore – quasi tutti i migranti africani sono classificati come «irregolari» (dato che quasi non esistono canali legali di migrazione per studio e lavoro dall’Africa e viene ristretto anche il canale del diritto d’asilo con i respingimenti collettivi in mare e terra in evidente violazione del divieto di non respingimento della Convenzione sui rifugiati di Ginevra, nonché in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali e degli articoli 4 e 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) – pari accesso alle opportunità di partecipazione politica ed economica e in effetti alla vita stessa. Le politiche migratorie europee attuali non sono solo «modellate dal razzismo», sono razzismo.
Potrebbe sembrare paradossale che l’UE, un’organizzazione definita, sia dai sostenitori sia dai critici, dal suo attaccamento al cosmopolitismo universalista, dovrebbe guardare all’estrema destra nel plasmare le sue politiche. Quel cosmopolitismo è stato, tuttavia, sempre superficiale. Nel suo libro di prossima pubblicazione, Eurowhiteness, il ricercatore Hans Kundnani suggerisce che, per l’UE, ciò che significa essere “europei” è stato fin dall’inizio visto in termini etnici e di civiltà. “Il progetto europeo“, sostiene, “è stato definito non solo in opposizione al passato dell’Europa, ma anche in opposizione agli altri non europei“.
Uno dei primi atti di von der Leyen quando è stata nominata presidente della Commissione Europea nel 2019 è stato quello di ribattezzare la vicepresidente responsabile per le politiche migratorie come “commissaria per la promozione del nostro stile di vita europeo“, chiarendo che i migranti rappresentano una minaccia esistenziale per la cultura e l’identità europea. Per Le Pen, la mossa di von der Leyen “conferma la nostra vittoria ideologica“, l’UE è stata “costretta ad ammettere che l’immigrazione pone interrogativi sul futuro del modo di vivere degli europei“.
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Anche se ha dovuto pagare un prezzo politico sempre più alto, l’UE ha funzionato come una sorta di protezione contro possibili derive illiberali o, almeno, le ha parzialmente smorzate o bloccate. Il superamento della regola dell’unanimità nel processo decisionale del Consiglio Europeo è stato un passo avanti importante perché ha rimosso il potere di veto che aveva un singolo governo, ad esempio, come quello dell’Ungheria che lo ha spesso utilizzato.
Importante è stata anche la decisione europea di legare al rispetto dello Stato di diritto i fondi strutturali o gli aiuti del piano post-pandemia, che ha permesso di bloccare, anche se parzialmente, l’erogazione di questi fondi ai governi di Budapest e Varsavia.
Ora, da un lato, ci sono sempre più crisi politiche di questo tipo e sarà difficile placarle tutte. Dall’altra, l’estrema destra pesa sempre di più nelle istituzioni a tutti i livelli e può, o almeno questo è il suo tentativo, impadronirsi del potere a Bruxelles. Mano a mano che l’ondata reazionaria si va estendendo nei diversi Paesi europei, tra i leader e i partiti/movimenti populisti nazionalisti conservatori e di estrema destra si sta diffondendo la convinzione che non sia più così necessario battersi per uscire dall’Unione Europea (anche in considerazione delle difficoltà incontrate dal Regno Unito nel percorso verso la Brexit), dal momento che intravedono la possibilità di contrastarla, conquistarla e svuotarla dall’interno, preservandone la forma, ma cambiandone la sostanza attraverso un progetto transnazionale identitario di una “Europa dei popoli” dove “ogni Stato recupera sovranità e controllo del territorio” (come sostengono Marine Le Pen, Giorgia Meloni, Mateusz Morawiecki, Viktor Orbàn e Matteo Salvini), che faccia leva su una interpretazione ideologica conservatrice dello Stato-nazione ed integralista, antimoderna e antidemocratica della cristianità, ossia sull’idea che lo Stato debba essere subordinato alle Chiese (cattolica e/o evangeliche) e debba usare il suo straordinario potere per creare e difendere la particolare comunità morale che le Chiese immaginano. In difesa di un’”Europa bianca e cristiana” considerata “il vero Occidente”, quello dei “valori originari”, che l’Europa occidentale attuale avrebbe tradito per seguire le “chiacchiere liberali”, per realizzare una visione di progresso associato al laicismo, alla liberal-social-democrazia, al capitalismo democratico, all’ecologia, alla celebrazione delle minoranze, all’accoglienza dei rifugiati neri e musulmani, ai diritti umani, civili, delle donne e della comunità LGBTQ+, al cosmopolitismo e al multiculturalismo.
Una posizione esplicitata da Orbàn (il cui partito, Fidesz, è uscito dal PPE nel marzo 2021): “Sembra che l’Europa occidentale e l’Europa centrale abbiano scelto due strade divergenti. […] E per quanto possa sembrare assurdo la minaccia più pericolosa per l’Ungheria oggi arriva dall’Occidente. Questa minaccia è rappresentata dai politici di Bruxelles, Berlino e Parigi. Vogliono farci adottare le loro politiche, quelle politiche che hanno trasformato i loro Paesi in Paesi di immigrazione e che hanno aperto la strada al declino della cultura cristiana e all’espansione dell’Islam. Vogliono farci accettare gli immigrati e trasformarci in un Paese con una popolazione mista.” Orbàn è un membro della Chiesa riformata calvinista, ha una moglie cattolica e un figlio pastore di una comunità pentecostale, mentre lo Stato ungherese spende milioni di fiorini per restaurare cappelle e campanili, ma soprattutto finanzia il sistema scolastico delle chiese cattoliche e protestanti. Le scuole cristiane (completamente gratuite) ricevono il triplo dei fondi pubblici rispetto a quelle statali e dal 2011 le iscrizioni sono aumentate dell’80%.
Le posizioni di Orbàn e di altri nazional-populisti reazionari europei sono molto simili a quelle espresse da Vladimir Putin che già nel 2013 aveva avvertito che i “Paesi euro-atlantici” stavano “rifiutando le loro radici“, che includevano i “valori cristiani” che costituivano la “base della civiltà occidentale“. Secondo Putin, Europa e Stati Uniti stanno “negando i princìpi morali e tutte le identità tradizionali: la cultura nazionale, religiosa e anche sessuale“. Non a caso Putin, fino a quando buona parte dei partiti di estrema destra non si sono convertiti all’Atlantismo della NATO dopo l’avvio della guerra tra Russia e Ucraina, è stato considerato come il leader di coloro che in Europa (come Meloni, Salvini, Berlusconi, Le Pen e i leader dell’austriaco FPÖ) e nel mondo propugnano una visione socialmente e culturalmente conservatrice (se non proprio reazionaria) che si contrappone a quella della democrazia liberale.
Il PPE è stato un veicolo per l’egemonia del moderatismo e ordoliberismo merkeliano (Angela Merkel) sull’Unione Europea per oltre 15 anni, ma ora i partiti che compongono il PPE non sono alla guida di nessuno dei governi dei sei grandi Paesi – Germania, Francia, Italia, Spagna, Polonia e Olanda. Una deriva del PPE verso destra potrebbe contribuire a dare legittimità e spazio al progetto politico delle forze reazionarie nazionaliste. Un progetto che potrebbe essere articolato in armonia con le diverse identità culturali, specificità storiche e sensibilità religiose nazionali, trasformando l’Unione Europea in una “Unione per le Nazioni Europee”, ossia in un’alleanza che fornisce protezione politica e risorse finanziarie à la carte o in una semplice organizzazione di cooperazione economica, senza intaccare la sovranità nazionale, tornando quindi alla prima tappa del progetto europeo: una zona di libero scambio fra Paesi sovrani, nella quale merci, capitali e lavoratori possano circolare liberamente.
Secondo il polacco Kaczyński, “la forza dell’UE deve essere basata sulla forza degli Stati nazionali e sulla loro cooperazione volontaria“. Una riedizione, con gli Stati-nazione sotto l’ombrello di una fragile Unione delle Nazioni, dell’impero cattolico, multiculturale (ma limitato ad etnie nazionali europee) austro-ungherese degli Habsburg che da Vienna e Budapest ha governato per 650 anni la mitteleuropa e di cui è ricorso il centesimo anniversario della sua dissoluzione nel novembre 2018. Oppure, la riproposizione di una “Europa delle Patrie” proposta negli anni ’60 da parte della Francia di Charles De Gaulle, ossia la visione di una comunità di Stati, uniti da molti obiettivi comuni, ma separati da differenti tradizioni nazionali. “Vogliamo l’80% in meno di Europa e più autonomia nazionale“, ha affermato l’eurodeputato Maximilian Krah, che è stato scelto come capolista dell’AfD per le elezioni europee del giugno 2024, precisando che “l’Europa del futuro deve essere un’Europa delle patrie e non un’Europa dei burocrati“.
L’ascesa del nazionalismo conservatore, in molti casi apertamente reazionario, ha le caratteristiche del “contromovimento” descritto da Karl Polanyi (si veda il nostro articolo qui) e sembra avere l’obiettivo di creare forme più statalizzate di capitalismo nazionale (nazionalcapitalismo) e «comunità nazionali» dirette da leaders carismatici indiscutibili che ambiscono a difendere valori nazionali tradizionali speciali, controllare i confini contro i virus dell’immigrazione non bianca, del multiculturalismo e dell’influenza «straniera» (dagli attivisti dei diritti umani ai migranti musulmani, dai terroristi alla grande finanza, dalla tecnocrazia dell’Unione Europea al miliardario finanziere e filantropo «globalista» ebreo ungherese naturalizzato americano George Soros, fautore della «società aperta» auspicata dai filosofi-economisti neoliberisti austriaci Karl Popper e Friedrich August von Hayek). Una deriva che è rapidamente divenuta una minaccia, perché rappresenta la ricetta per la repressione domestica, il capitalismo clientelare, la corruzione massiccia, l’implosione dello Stato di diritto, l’erosione dei diritti individuali e sociali di cittadinanza, l’ascesa di razzismi e conflitti internazionali.
Tra l’altro, con i nazionalisti conservatori e reazionari, così come avveniva con i politici mainstream, le questioni che riguardano davvero la maggioranza della popolazione, i milioni di lavoratori – la riduzione del lavoro stabile, ben pagato e di qualità, le disuguaglianze sociali, la vecchiaia in povertà, l’insicurezza e lo sfruttamento del lavoro, i problemi abitativi, la negazione dei diritti sociali, l’evasione fiscale, il finanziamento di servizi sanitari e sociali – sono onnipresenti, vengono agitate, ma non vengono realmente agite e affrontate, perché anche questi «uomini nuovi» non mettono in discussione il paradigma economico neoliberista, il modo disumanizzante in cui il capitalismo opera. Non considerano questo il problema, ma la soluzione, ancorché declinata in una logica territoriale «sovranista» (perché ritengono che solo nella nazione ci possa essere solidarietà)14.
Ciò risulta evidente dalle politiche economiche nazionali che finora hanno perseguito una volta saliti al potere: nuova detassazione per i ricchi, condoni fiscali, ulteriori deregolamentazioni (anche in campo ambientale) e privatizzazioni, tagli generalizzati ai capitoli di spesa sociale per trasferire le disponibilità alla spesa militare e securitaria, nessun vantaggio diretto per la classe lavoratrice se non la concessione di modesti sussidi categoriali selettivi (bonus una tantum per sostenere la natalità, il caro bollette o la spesa alimentare) e la promessa di una reindustrializzazione da parte delle imprese private incentivate da aiuti di Stato, fondi europei, protezionismo e detassazione degli utili.
La connessione tra neoliberismo e autoritarismo di destra – un «neoliberismo autoritario», in cui la democrazia liberale è ridotta a mera apparenza – ha portato alla ribalta un antintellettualismo emotivo, ideologico, che impedisce qualsiasi discussione sulle idee socialdemocratiche, socialiste e di emancipazione sociale e che giustifica ideologicamente e cementa le forze politico-culturali conservatrici che partecipano al capitalismo neoliberista. Pertanto, un capitalista miliardario come Donald Trump può fingere con successo di essere un eroe della classe lavoratrice e presentarsi come un difensore di persone «reali» contro le élite corporative e dello «Stato profondo». Leader autoritari di destra come Trump, Orbàn, Salvini o Meloni spesso fanno appello alla classe lavoratrice mostrando modi rozzi, un habitus proletario e usando un linguaggio semplice e dicotomico. L’inciviltà è centrale nelle loro strategie di comunicazione: li aiuta a galvanizzare i loro sostenitori ricordandogli quanto sia «cattiva» e «minacciosa» l’altra parte. Ogni volta che gli avversari attaccano i loro leader, i sostenitori sono spinti a difenderli e sostenerli ancora di più. In questo modo, il dibattito pubblico viene deviato dalle politiche, dalla corruzione e da altre questioni sostanziali come la riduzione delle disuguaglianze. Un elemento cruciale perché, in realtà, quando sono al potere questi leader ideologici si oppongono agli interessi della classe lavoratrice e attuano leggi che prevedono agevolazioni e riduzioni fiscali (come la flat tax) che avvantaggiano le grandi società e i super-ricchi e danneggiano la classe lavoratrice perché smantellano gli effetti redistributivi dello Stato sociale e dei servizi pubblici.
Se l’alleanza tra PPE e ECR si salderà nel 2024, il potere deterrente dell’UE (con la vigilanza sull’applicazione delle regole della democrazia liberale) si indebolirà notevolmente o scomparirà del tutto. Comunque, nel quadro attuale, l’estrema destra può fare molte cose senza andare oltre quelle linee rosse o farlo poco a poco, gradualmente, in modo diffuso, per non provocare troppe reazioni. Infatti, qualcuno ha alzato la voce in sede europea sulla politica di vessazioni della Meloni nei confronti delle ONG che salvano le vite dei migranti con le loro navi nel Mediterraneo (navi che sono state definite dei «taxi del mare» da Salvini e Meloni)? Al di là di proteste e denunce, qualcuno è intervenuto per dare alle donne polacche il diritto di abortire senza tante restrizioni? Qualcuno ha mosso un dito dopo aver appreso che i nuovi governi regionali di PP e Vox in molte regioni spagnole hanno abolito il Dipartimento per le Pari Opportunità, o che in alcuni comuni governati dagli stessi partiti sono stati cancellati spettacoli come Orlando di Virginia Woolf o un film perché si vedono due donne che si baciano?
Possono sembrare piccole cose, ma in realtà sono “guerre culturali” che mirano a promuovere cambiamenti reali e tangibili. I partiti di estrema destra si concentrano essenzialmente su politiche di identità e sicurezza che a poco a poco cambiano l’immaginario delle persone. Una volta raggiunto questo obiettivo, che alla fine significa conquistare l’egemonia culturale, possono passare a un altro livello e mettere in discussione la separazione dei poteri. Si veda l’Ungheria, ma anche la Polonia, dove la magistratura è ormai praticamente controllata dall’esecutivo. Oppure, al di fuori dell’UE, basta guardare cosa sta succedendo in Israele con la controversa riforma della giustizia di Benjamin Netanyahu che ha l’obiettivo di mettere sotto il controllo del governo la Corte Suprema e la magistratura, dando vita ad una “democrazia illiberale”, oltre che legittimare una apartheid che segrega ed esclude le popolazioni palestinesi.
Alessandro Scassellati
- Marine Le Pen ha ottenuto un record del 41,46% nelle elezioni presidenziali dello scorso anno, e il suo partito di estrema destra Rassemblement Nationale ha vinto 89 dei 577 seggi in parlamento, un aumento di 11 volte. Essendo il più grande partito di opposizione, si sta sforzando di mostrare disciplina e responsabilità nel tentativo di ripulire ulteriormente la propria immagine e seppellire le accuse di razzismo e xenofobia di lunga data. Andando oltre la sua tradizionale agenda “la Francia per i francesi”, ora afferma di avere un solo obiettivo: il “miglioramento concreto della vita dei francesi“. A quattro anni dalle prossime elezioni presidenziali, i sondaggi suggeriscono che Le Pen vincerebbe se il ballottaggio si tenesse oggi. [↩]
- Nei Paesi Bassi quest’anno, il Movimento contadino-cittadino populista (BBB) di destra ha conquistato il maggior numero di seggi di qualsiasi partito nella camera alta del parlamento alle elezioni provinciali cavalcando la protesta degli agricoltori contro la politica governativa tesa a ridurre drasticamente l’inquinamento da azoto. In Francia, prima della pandemia da CoVid-19, Emmanuel Macron ha provocato la nascita del movimento dei gilet gialli quando ha cercato di aumentare i prezzi della benzina nel tentativo di scoraggiare le persone a viaggiare in auto. Mentre in Germania, la preoccupazione pubblica e la rabbia per i costi finanziari stanno trattenendo il Partito dei Verdi al governo dall’introdurre le riforme ambientali che aveva promesso.[↩]
- Edizioni di Comunità, Milano, 1996 (1951). Della Arendt si vedano anche La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2019 (1963) e Noi rifugiati, Einaudi, Torino 2022 (1943).[↩]
- Negli ultimi anni, tutti i Paesi europei hanno approvato o reso più feroci leggi di polizia contro le proteste, le manifestazioni, gli scioperi, ma anche semplicemente contro il disagio sociale e la povertà, considerati come offesa al decoro e alla rispettabilità. Sempre di più gli Stati democratici europei volgono verso forme di Stato di polizia, legittimando l’uso della violenza e delle armi contro i manifestanti, creando nuove fattispecie di reato (come l’ecovandalismo) ed inasprendo le pene detentive per colpire ogni forma di opposizione. L’enfatizzazione del pericolo per l’ordine pubblico e, quindi, la criminalizzazione dei poveri, delle minoranze, dei migranti (un «capro espiatorio» particolarmente conveniente, dato che in quanto non votanti i loro interessi possono essere ignorati in sicurezza) e degli attivisti attraverso l’azione repressiva dello Stato contribuisce a celare le contraddizioni sulle quali si sostiene il sistema economico europeo, quali la precarietà lavorativa, la disuguaglianza economica, l’individualizzazione del rischio e la mancanza di solidarietà sociale. In questo modo, non solo viene disinnescato il potenziale di protesta politica presente in questi gruppi, ma viene costruita una rappresentazione politico-culturale che trasforma i bisogni che nascono da questioni sociali in problemi securitari, ossia da affrontare attraverso metodi e strumenti repressivi di ordine pubblico («law and order»), come denunciato dal movimento antirazzista Black Lives Matter nato nel luglio 2013 a seguito dello stillicidio di abusi e di uccisioni di giovani neri da parte delle forze di polizia statunitensi rimasti impuniti. Mettere crudelmente alla berlina le minoranze etniche, i «furbetti» del welfare, i «fannulloni», gli immigrati «clandestini» e i «vagabondi» senza casa è diventata una forma di soddisfazione pubblica attraverso la quale si manifestano sentimenti diffusi di risentimento, ansia, angoscia, paura, rabbia e disgusto contro i deboli che sono visti solo come un peso per i cittadini «laboriosi» e «rispettosi delle leggi» del ceto medio bianco.[↩]
- Quando Jean-Marie Le Pen del Fronte Nazionale Francese (ora Rassemblement Nationale) raggiunse il ballottaggio presidenziale nel 2002, il vincitore finale, Jacques Chirac, si rifiutò persino di discutere con il leader di estrema destra, tanto ripugnanti – e anormali – erano considerate le sue opinioni. In Svezia, nel 2016 gli altri partiti si erano rifiutati di collaborare con il partito dei Democratici Svedesi, che ha radici neonaziste. Anna Kinberg Batra, leader del partito conservatore dei moderati, lo aveva denunciato come razzista. Ma nelle ultime elezioni del 2022 è arrivato secondo e ha negoziato un accordo per sostenere un governo di centro-destra.[↩]
- È sempre bene ricordare che i fascisti di Mussolini e i nazionalsocialisti di Hitler hanno preso il potere in maniera “costituzionale”, tramite le elezioni e il supporto dei liberali e dei conservatori, rispettivamente, di Giovanni Giolitti e Antonio Salandra nel 1920-22 e di Franz von Papen e Paul von Hindenburg nel 1932-33, insieme alla complicità di membri dell’establishment (magistrati, ufficiali della polizia e delle forze armate, imprenditori), che pensavano di poterli addomesticare ed utilizzare in funzione anti-movimento operaio, anti-socialista e anti-comunista, e invece finirono presto per essere fagocitati. Pensavamo che gli europei avessero imparato dai loro momenti più bui della storia. Ma a meno che l’estrema destra non venga ancora una volta trattata come al di fuori del campo politico, è assai probabile che ci attendano nuovi orrori.[↩]
- In Grecia, il partito conservatore Nuova Democrazia del premier Kyriakos Mitsotakis ha portato a casa la maggioranza assoluta alla seconda elezione generale del 25 giugno. Ottenendo il 40% dei voti è scattato il premio di maggioranza, per cui non ha avuto bisogno del supporto dei tre partiti di estrema destra e nativisti poco conosciuti che hanno vinto seggi parlamentari. Tra questi ci sono gli Spartani lanciati dalla cella della prigione da uno degli ex leader del partito neonazista messo fuorilegge Alba Dorata, che hanno vinto 12 seggi.[↩]
- D’altra parte, sotto la spinta dei governi revisionisti dei Paesi dell’Est, al Parlamento di Strasburgo è stata approvata l’equiparazione di nazismo e comunismo. Questo revisionismo storico è diventato la base ideologica della guerra in Ucraina contro la Russia e del confronto sempre più aspro con la Cina. In questo modo è stato sdoganato il nazionalismo fascista europeo, a cui le forze politiche moderate riconoscono il merito di aver combattuto il comunismo, seppure dalla parte sbagliata. Tutte le sinistre socialdemocratiche e liberali hanno condiviso questa cancellazione revisionista del significato politico e sociale della resistenza e della guerra al nazismo.[↩]
- Originariamente, l’AfD è nata come formazione euroscettica, prima di rivolgersi negli ultimi anni alla destra populista con una maggiore enfasi sull’immigrazione. Dall’inizio dell’anno, il partito ha goduto di una ripresa di popolarità in parte dovuta alla recrudescenza del tema della migrazione nel discorso pubblico. Il numero di domande di asilo in Germania è aumentato dell’80% tra gennaio e marzo 2023 rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, secondo l’Ufficio federale per la migrazione e i rifugiati. L’AfD è il partito più popolare tra gli elettori nei Länder della Germania orientale (32%), che in passato appartenevano alla Repubblica Democratica Tedesca, secondo un sondaggio Forsa condotto all’inizio di questo settimana – rispetto al 13% nel resto del Paese. Il partito ha 81 deputati nel Bundestag e 9 eurodeputati che fanno parte del gruppo europeo Identità e Democrazia, insieme con i partiti di destra di Matteo Salvini e Marine Le Pen[↩]
- È bene ricordare che sia il PP sia Vox hanno le loro radici nel franchismo, il sistema politico istituito dal generale Francisco Franco e dai suoi sostenitori dopo la guerra civile spagnola (1936-39). Il PP è stato fondato nel 1976 dal ministro della propaganda franchista Manuel Fraga come Alianza Popular. La maggior parte della sua leadership oggi è composta da figli o nipoti dell’élite politica franchista, in particolare della sua frangia riformista che credeva che la Spagna avrebbe dovuto muoversi verso la democrazia dopo la morte di Franco. L’obiettivo era quello di riunire (a fini elettorali) sette organizzazioni politiche che rappresentassero le varie famiglie politiche del regime franchista, tra cui tecnocrati, democristiani, falangisti e tradizionalisti (nazionalisti e cattolici, con stretti legami con l’Opus Dei). Vox è stato fondato nel dicembre 2013 a seguito di una scissione dal PP da parte di membri neoconservatori o conservatori sociali del partito guidati da Santiago Abascal, Alejo Vidal-Quadras e José Antonio Ortega Lara. La piattaforma del partito chiedeva la riscrittura della costituzione spagnola in modo da frenare l’autonomia regionale e abolire i parlamenti regionali (una ricentralizzazione dello Stato).[↩]
- Giorgia Meloni è diventata il primo primo ministro di estrema destra dell’Europa occidentale del dopoguerra dopo che Fratelli d’Italia ha ottenuto quasi il 26% dei voti alle elezioni di settembre 2022 (rispetto al 4% del 2018) e ha formato con successo una coalizione con Forza Italia di Silvio Berlusconi (membro del PPE) e l’anti-immigrazione Lega di Matteo Salvini, entrambe con oltre l’8%. Negli ultimi mesi, poi, si è aggiunto di fatto anche il piccolo gruppo centrista Italia Viva, guidato dall’ex segretario del PD Matteo Renzi, che in Parlamento vota sistematicamente a favore dei provvedimenti della maggioranza che sostiene il governo.[↩]
- L’Italia è l’unico Paese del G7 che fa parte della Belt and Road Initiative (BRI), la Nuova Via della Seta cinese, la strategia di Pechino tesa a collegare la Cina con l’Asia, l’Europa, l’Africa e il Sudamerica con grandi progetti infrastrutturali. Una decisione presa nel 2019 dal governo Conte 1 e ora definita “un atto improvvisato e scellerato” frutto di “dilettantismo” dal ministro della Difesa Guido Crosetto. Un accordo che, pur non essendo mai stato attuato, ha contribuito a moltiplicare le esportazioni cinesi verso l’Italia e a far crescere le esportazioni italiane verso la Cina. Il deficit commerciale dell’Italia con la Cina non si è ridotto, dato che le esportazioni cinesi sono aumentate del 51% dal 2019 al 2022, mentre quelle italiane sono aumentate del 26% negli stessi anni (l’interscambio ha raggiunto quasi $ 78 miliardi). In ogni caso, come fa notare la stampa nazionalista cinese, i dati ufficiali mostrano che nei primi cinque mesi del 2023 le esportazioni italiane in Cina sono aumentate del 58%. I critici statunitensi vedono la BRI come uno strumento della Cina per diffondere la sua influenza geopolitica ed economica nel mondo. Al momento della firma dell’accordo tra Italia e Cina, il New York Times descrisse addirittura l’Italia come un “cavallo di Troia” del mondo occidentale, “che consente all’espansione economica – e potenzialmente militare e politica – della Cina di raggiungere il cuore dell’Europa“. Per il governo Meloni ora il problema è come uscirne entro dicembre (se non disdetto l’accordo si rinnoverebbe automaticamente nel marzo 2024) – allineandosi alle posizioni anti-cinesi di USA, NATO, UE e G7 – “senza danneggiare i rapporti” con Pechino (ossia senza subire ritorsioni), ormai vista come un avversario e un concorrente, ma anche come un partner. Dopo l’incontro alla Casa Bianca con Biden, Meloni ha dichiarato che il suo governo sta ancora riflettendo sulla BRI e ha annunciato un viaggio a Pechino nel prossimo futuro. L’Italia, come la UE, vive un drammatico dilemma: vuole il riconoscimento politico di Washington, ma non è disposta a rinunciare alla cooperazione economica con la Cina, e non vuole scegliere solo un’opzione.[↩]
- La posizione geografica della Tunisia, situata nella regione più settentrionale dell’Africa, la rende un punto di partenza privilegiato per i migranti disposti a rischiare il pericoloso viaggio oltremare verso la vicina Sicilia. I migranti dei vicini Paesi africani cedono i risparmi di una vita intera a contrabbandieri o trafficanti di esseri umani. Il loro numero è aumentato di sei volte rispetto al 2022 (oltre 43 mila fino ad inizio luglio). Solo nel primo trimestre del 2023, il governo tunisino ha impedito a 17 mila migranti di partire in barca, mentre i corpi galleggianti – che sono aumentati di oltre 3 mila rispetto all’anno precedente – hanno continuato ad arrivare sulle spiagge quotidianamente nella città portuale di Sfax. Finora quest’anno, oltre 88 mila migranti hanno raggiunto l’Italia, più del doppio rispetto al 2022. La Tunisia ha superato la Libia come principale hub di partenza.[↩]
- Gli «uomini nuovi» del campo della destra reazionaria, ciascuno sostenuto dal proprio «movimento» o «partito personale» privo sia di una vera dottrina sia di un compiuto progetto politico – quasi sempre definiti come «populisti» dai politici e dai media mainstream perché adottano uno stile politico basato su un contatto diretto con «il popolo» (anche se solo con il «loro» popolo, mentre per loro «gli altri» non contano nulla) – cercano di far credere che il ripristino di uno Stato nazionale governato con pugno di ferro (con «i pieni poteri»), dotato di tutti i suoi attributi di sovranità interna ed esterna, capace di chiudere i suoi confini ai migranti, di imporre alla popolazione leggi finanziarie e di mercato più dure e di respingere gli accordi di cooperazione internazionale sul clima, sia l’unico modo per migliorare la situazione sociale della stragrande maggioranza della popolazione. Se le principali minacce diventano i migranti, i nemici «delle nostre origini giudaico-cristiane», George Soros o le importazioni cinesi, questi leader sostengono che sia possibile una nuova politica pro-capitalista su base nazionale (favorita dai processi di onshoring e friend-shoring) che si pone l’obiettivo di tenere fuori il proprio Paese dalle istituzioni e dai flussi non graditi di capitale, merci e, soprattutto, persone – migranti economici, profughi, richiedenti asilo e rifugiati di pelle non bianca – in modo da implementare la propria versione nazionale di neoliberismo conservatore, etnico, razzista, reazionario e autoritario. Un conservatorismo essenzialmente neofascista che cerca di unire il dinamismo capitalista – “Non disturberemo chi produce ricchezza” è uno degli slogan del governo Meloni – con i valori e le gerarchie reazionarie tradizionali.[↩]