|Umberto Vincenti 

Elenco puramente esemplificativo di settori economici in cui sono implicate attività produttive di beni e servizi di interesse generale: energie, telecomunicazioni, trasporti, salute, turismo. E ora poniamoci la medesima domanda: siamo contenti di come esse siano attualmente gestite? Siamo contenti della confusione che regna nel mercato del gas naturale? Siamo contenti che in autostrada o nelle località di villeggiatura la benzina sia parecchio più cara? Siamo contenti che la telefonia mobile sia immune dai controlli statali? Siamo contenti che strade nazionali come le autostrade siano lottizzate da una miriade di società private che parcellizzano l’Italia come se ancora esistessero le dogane tra un territorio e un altro? Siamo contenti che la sanità privata sia preponderante in parecchie aree del Paese? Siamo contenti che talune località turistiche siano monopolio di singole società private a cui fanno capo tutti gli stabilimenti balneari, la darsena, i campeggi?

 Negli anni novanta, emulando esperienze di altri Paesi, e sull’onda emotiva di Tangentopoli, l’Italia ha privatizzato molto: decisivo fu l’impulso di Prodi, Ciampi e Draghi che, a giustificazione, portarono il mantra, ormai logoro, che ce lo chiedeva l’Europa quale condizione per entrare nel circuito dell’euro. Ma, Europa o no, si trattò di una scelta che fu fatta dimenticando che la ripresa post-bellica e il successivo boom erano stati possibili proprio per quel sistema economico-produttivo misto, pubblico-privato, nel quale era garantita la presenza di alcune grandi imprese a partecipazione pubblica in settori strategici, nel contesto di un Paese in cui abbondavano (e abbondano, anzi lievitano) imprese medie e piccole. Anzi, accade ora che il piccolo sia enfatizzato da un improbabile ministero del made in Italy, la cui preoccupazione è soprattutto quella di tutelare particolarmente i settori dell’alimentazione e del turismo ai quali l’Italia si è da tempo consegnata, così rinunciando alla possibilità di una reale crescita economica e, purtroppo, anche di un’autentica protezione del lavoro che, in quei settori, è facilmente oggetto di sfruttamento.

 Disastrosa è stata la privatizzazione di Eni e Telecom, se si considerano, per la prima, il surplus di otto miliardi di euro realizzato nel primo semestre del 2022 e, per la seconda, il numero dei dipendenti e l’ammontare del fatturato all’epoca della sua dismissione da parte dello Stato e, soprattutto, le prospettive future del settore relativo, che si avviava a una straordinaria crescita, poi avvenuta, com’è noto a chiunque. Ma si consideri anche il caso dell’Ilva – cioè l’acciaio italiano – acquisita dal gruppo Riva, certamente inadeguato anche dal punto di vista dimensionale, e incapace di introdurre i necessari aggiornamenti tecnologici, con le conseguenze patite dalle maestranze e dai cittadini di Taranto. E poi, ad exemplum, c’è il caso autostrade; e la criminale vicenda del ponte Morandi, la cui causa è principalmente il desiderio smisurato di profitto nutrito da una proprietà culturalmente inidonea o matura a gerire imprese che, per l’attività svolta, possono compromettere la vita della loro utenza.

 Proprio le tante vittime del crollo di quel ponte costituiscono, purtroppo, la prova che le privatizzazioni – con imprese floride assegnate a capitalisti senza eccessivi scrupoli e, talora, senza sufficienti capitali – hanno creato, e creano, gravi difficoltà, talora l’impossibilità, ad esercitare controlli efficaci e tempestivi da parte dello Stato, a cui spesso difettano le competenze necessarie, con la conseguenza che la stessa vigilanza finisce con l’essere esternalizzata.

 Ciò accade drammaticamente, e da tempo, anche nel settore della sanità, nel quale le Regioni – tutte, anche se in diversa misura – debbono considerarsi inadempienti, nonostante certe roboanti dichiarazioni auto-elogiative di certi Presidenti regionali, specie del Nord Italia. Il privato non solo non è adeguatamente controllato, ma ha progressivamente acquisito ampi spazi di libera azione; e i cittadini, causa l’arretramento della sanità pubblica, sono trascinati dentro quegli spazi. Da questo punto di vista l’autonomia regionale ha variamente inciso, creando una situazione a macchia di leopardo in ordine alla somministrazione di un servizio essenziale, anzi il più essenziale, che dovrebbe essere espletato con la maggior uniformità possibile in tutto il Paese. Mentre la sanità pubblica dovrebbe avere ovunque la primazia, relegando il privato in ambiti alquanto limitati. Anche per evitare il paradosso – che è una realtà inaccettabile – che i cittadini debbano finanziare con le imposte un servizio pubblico di cui non usufruiscono o usufruiscono solo in parte, essendo costretti o indotti (talora per disinformazione) a consegnarsi al privato, la cui affidabilità non è quasi mai realmente testata e certificata.

 Poi si capisce che più si privatizza, e più lo si fa a livello di imprese e attività importanti, più si irrobustisce la pressione degli agenti esterni sui decisori politici, con la compromissione del circuito democratico delle decisioni coinvolgenti la comunità: corruzione e clientelismo sono inevitabilmente favoriti e altrettanto il pericolo della compromissione dell’indipendenza degli organi di governo ai vari livelli.

 Vi è chi pensa che le privatizzazioni siano state la causa principale del declino dell’Italia.  Comunque fu una scelta improvvida nel nome dell’Europa, fatta con gran faciloneria che, forse, è oggi alla base anche del sogno PNRR, coltivato un po’ da tutti, ma che nei fatti si traduce nella creazione di un debito pubblico enorme, che poi qualcuno pagherà, come oggi stiamo pagando l’opzione delle privatizzazioni degli anni Novanta.  Per queste ultime si è evidenziato che il sistema politico-costituzionale italiano, caratterizzato dalla commistione tra stato di diritto, democrazia e diritti, ha iscritta la necessità del limite alle privatizzazioni. È una valutazione corretta. Ma non occorre analizzare l’identità del nostro sistema per scoprire che essa è poco compatibile con le privatizzazioni, almeno di imprese strategiche e non ausiliarie. Basta un’occhiata all’art. 43 della Costituzione: le imprese «che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale» possono essere trasferite allo Stato o ad enti pubblici (o, addirittura, a comunità di lavoratori o di utenti). Questo accadde con l’Enel nel 1962, quando furono espropriate le vecchie società elettriche. Prodi, Ciampi, Draghi hanno fatto finta che l’art. 43 Cost. non esistesse … già, ce lo chiedeva l’Europa. Magari, da sinistra, qualcuno potrebbe oggi ripescare, dentro la nostra Costituzione, questo art. 43 e promuovere un bel cambiamento. Quasi una rivoluzione. Dubito, però, che ci sia chi lo possa anche solo immaginare.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy: