In un editoriale su “L’Ordine Nuovo” dell’8 maggio 1921 Gramsci mostra tutta la sua preoccupazione per una condizione della politica socialista (e comunista) che sta snervando le lavoratrici e lavoratori e li sta portando ad una disaffezione sempre più evidente e marcata nei confronti della rappresentanza parlamentare.
E’ una critica che l’intellettuale e politico sardo estende anche al sindacato, rimproverando un eccesso di cavillosità nelle contrattazioni, ed anche un protrarsi degli scioperi oltre quel limite umano consentito dalla “carne ed ossa” di cui è fatta la classe operaia e, per estensione, tutto il mondo del lavoro.
Si tratta di persone, di cittadini, di gente che deve prima o poi tornare al lavoro e deve farlo per mantenere sé stessa e le famiglie. La condizione oggettiva di necessità fa, quindi, del proletariato di allora e di quello moderno di oggi un soggetto collettivo e singolare al tempo stesso la cui unità e determinazione è vincolata da condizioni reali, da rapporti di forza interni alla classe stessa e che, pertanto, rispondendo ad una oggettività reale dei bisogni, deve fare i conti con un limite invalicabile.
Scrive Gramsci: «Specialmente noi comunisti, che viviamo gomito a gomito con gli operai, che ne conosciamo i bisogni, che della situazione abbiamo una concezione realistica, dobbiamo comprendere il perché di questa conclusione della lotta torinese [si riferisce agli operai della FIAT che sono rientrati al lavoro dopo un mese di sciopero]. Da troppi anni le masse lottano, da troppi anni esse si esauriscono in azioni di dettaglio, sperperando i loro mezzi e le loro energie».
Il punto fissato è questo: la classe dei lavoratori lotta, si batte e, come ovvio, in questa dinamica di contrapposizione con la borghesia e il grande padronato non sempre ha la meglio. Tuttavia non sono le sconfitte singole che possono infiacchire lo spirito di combattività per la conquista di nuovi diritti sociali e di maggiore sicurezza nelle fabbriche. Non sempre si resiste un minuto in più del padrone ieri e dell’imprenditore altrimenti detto oggi.
Quello che, sia nel 1921 e sia oltre cento anni dopo, indebolisce l’iniziativa e disunisce è la pervasività delle controproposte, la capacità che hanno i governi di sedurre i sindacati e le parti politiche ad addivenire ad accordi che, più che compromessi, sono delle vere e proprie compromissioni. Gramsci chiama questi abboccamenti tra le parti contraenti “schiamazzi” da un lato (se si parla di propaganda politica nelle fabbriche) e “opportunismo” se ci si riferisce ai cedimenti sindacali.
La straordinaria attualità dell’analisi gramsciana riguardo ai rapporti tra i corpi intermedi, la società, il mondo operaio e del lavoro in generale e, nel nostro caso, Confindustria e le grandissime aziende multinazionali che operano anche al di fuori delle organizzazioni dell’impresa, è una buon punto di partenza per riesaminare quanto sta avvenendo in queste settimane sul tema del salario minimo.
E’ evidente che il governo Meloni, proprio in assenza di mobilitazioni nazionali (per cui si attende un “autunno caldo“, forse caldissimo…), e con davanti a sé una proposta di larghissima parte delle opposizioni parlamentari contraddittoria e al ribasso rispetto a quella formulata da Unione Popolare, sta giocando la carta dell’accreditamento di sé stesso come di un comitato di gestione degli affari del “lavoro povero” pur essendo, invece, un comitato di affari della borghesia – proprio marxianamente inteso – e, possiamo tranquillamente aggiungere, della grande impresa e dell’alta finanza.
Intendiamoci, il dialogo parlamentare e il confronto sono propedeutici almeno ad una apertura di una discussione molto più ampia, ad un dibattito sociale e civile che coinvolga milioni e milioni di lavoratori, i sindacati tutti, le organizzazioni e i comitati in difesa del potere di acquisto e contro la crisi multistrato che ci attanaglia oggi.
Ma, ancora più efficace, è una mobilitazione che deve poter crescere direttamente nei posti di lavoro, esigendo un innalzamento delle richieste, perché – per dirla ancora con Gramsci – dobbiamo «sostenere l’urto dell’avversario, rafforzato dalla non resistenza degli altri». E gli altri, questa volta dicendola con i versi di una nota canzone di Raf, beh, «gli altri siamo noi».
La proposta di legge delle opposizioni la si può definire “al ribasso” perché anzitutto non pone un tetto minimo salariale a dieci euro, ma sta sotto questa soglia che, oltretutto, non sarà indicizzata al costo della vita e, pertanto, quando l’inflazione salirà (perché inevitabilmente, purtroppo, tenderà a salire o, comunque, a creare le condizioni per i profittatori di aumentare i prezzi dei beni di prima necessità così come dei carburanti, delle risorse energetiche…), i nove euro previsti si ridurranno potenzialmente a molto meno.
Inoltre, la proposta di legge delle opposizioni dispone che la copertura per questa misura, pure importante, sarebbe in parte lasciata al finanziamento pubblico, prevedendo quindi che siano gli stessi lavoratori a sovvenzionarla. Se non si tratta di una beffa, poco ci manca.
Con profitti ed extraprofitti incamerati in questi anni di pandemia e guerra dalle maggiori aziende e dalle più grandi multinazionali che hanno i loro apparati produttivi anche in Italia, chiediamo, dall’opposizione, al popolo di pagare gli stipendi del popolo? A pagare devono essere i padroni, gli imprenditori e non coloro che gli effetti della crisi globale li stanno sentendo tutti quanti, a partire dall’aumento dei tassi di interesse della BCE, dei costi bancari dei conti correnti, delle transazioni e del generale aumento dell’inflazione.
L’IVA pesa come un macigno su tutti i prodotti che comperiamo ogni giorno: il pane per primo è a prezzi esorbitanti. Un chilo costa quasi la metà del pieno di benzina di uno scooter 125. Verdura, frutta, surgelati altrettanto. Se comperi una scatola di gelati ti sembra di aver acquistato un bene non necessario: per compensare i costi, le aziende riducono le quantità e lasciano prezzi quasi invariati (ma comunque al rialzo).
Si chiama “Shrinkflation” e pare andare molto di moda sul mercato: invece di acquistare tre cornetti di un etto ciascuno, te ne danno sempre tre ma di novanta, ottanta grammi e, così, con quello che le aziende risparmiano in costi di produzione, possono fare ulteriori indebiti profitti. Per il consumatore – che è anche ovviamente un lavoratore – tutto si traduce in una riduzione del potere di acquisto del salario, della pensione, delle paghe e sottopaghe avute con lavori precarissimi, a chiamata.
Ed ancora una volta Gramsci torna di attualità se riportiamo le sue parole nel contesto del presente caoticamente dinamico e nel disordine capitalistico del liberismo che imperversa sotto la protezione politica di Palazzo Chigi.
Leggiamo quello che dice il capo degli ordinovisti: «Non è coi comunisti, non è con il Partito comunista come piccolo nucleo di individui associati, che la reazione è in collera; essa è in collera con la classe operaia e contadina, come massa di salariati schiavi del capitale, essa ha paura che la classe lavoratrice nella sua totalità, sia essa comunista, socialista, repubblicana, popolare, oppressa, taglieggiata, affamata, insorga contro i suoi sfruttatori e capovolga gli attuali rapporti di classe» (“L’Ordine Nuovo“, 17 luglio 1921)
Oggi non è la sinistra ad essere l’avversario principale della destra, quindi del populismo, della conservazione e della reazione. Oggi sono proprio proposte larghissimamente condivise come quella sullo stabilimento di un salario minimo orario per Legge a far sobbalzare la pace sociale che il governo vorrebbe imporre.
Persino Confindustria si rende conto che una qualche misura del genere deve essere in qualche modo messa in campo se non si vuole far saltare il coperchio di una pentola dove i disagi sociali sono in grande ebollizione da tanto, troppo tempo. Ma il governo Meloni rimanda la questione al dopo estate, tra sessanta giorni, prima comunque della Legge di bilancio, assicura la Presidente del Consiglio.
L’esecutivo non può alienarsi il favore di milioni e milioni di lavoratrici e lavoratori escludendo a priori una misura che aumenti i salari davanti ad una crisi impossibile da far passare sotto le forche caudine del revisionismo attualistico sul piano sociale ed economico, magari con qualche azzeccato slogan politico.
L’esecutivo, del resto, non può nemmeno approvare e condividere una posizione meta-ideologica come quella che introdurrebbe un punto di vista di classe, quello del lavoro piuttosto che quello delle imprese, che significa riconoscere molto di più dei diritti sociali rivendicati.
Significa affermare che la questione della produzione della ricchezza dell’intero Paese è tema che riguarda la grande massa delle lavoratrici e dei lavoratori e non la presunta genialità degli imprenditori che, nella stragrande maggioranza dei casi, acquistano brevetti d’oltremare o dalle grandi industrie asiatiche. Pertanto, la narrazione liberista che affida al mercato e allo Stato, come suo latore e protettore politico-amministrativo, la gestione delle risorse, dovrebbe essere in un certo modo riscritta.
La lotta per l’affermazione anche in Italia, così come in Francia e in Germania, di un salario minimo orario ecco che diviene qualcosa di più del fissare un tetto inderogabile alle paghe dei dipendenti. E’ un baricentro che si sposta, una empatia sociale che si riformula in chiave moderna e che unisce trasversalmente la stragrande maggioranza delle persone, prescindendo dal colore politico.
Esattamente come Gramsci scrive quando fa riferimento al timore che la borghesia italiana dei primi decenni del Novecento ha di vedere compattarsi la classe operaia e contadina, piuttosto che fare fronte alle lotte di partito ed anche a quelle del sindacato.
Non va sottovalutata la portata innovativa di questa lotta sul salario minimo ma, sempre leggendo il Nostro dalle pagine dell’allora giornale del neonato Partito Comunista d’Italia, non va nemmeno trascurata l’importanza di un rafforzamento dei partiti che ieri come oggi sostenevano le ragioni delle lavoratrici e dei lavoratori, dei più deboli, degli sfruttati tutti quanti.
Allora era il fascismo a penetrare nelle crepe di una sinistra divisa dal moderatismo da un lato e dal settarismo dall’altro. Oggi è una destra dai tratti autoritari che, almeno formalmente, deve mostrarsi, nel grande consesso economico, bancario e finanziario europeo (nonché mondiale) come credibile e quindi affidabile nella gestione proprio degli interessi del capitale, aderendo perfettamente (o quasi) ai dettami liberisti.
Per questo, mentre si lotta per dare sostanza ad una legge di iniziativa popolare sul salario minimo da presentare in Parlamento, si deve allo stesso tempo cercare su questa un tavolo comune ampio, condiviso, per unire gli sforzi di contrasto di quelle politiche governative che mirano a impoverire il valore della vita di gran parte della popolazione che vive con redditi tutt’altro che sicuri, che è alle dipendenze di un padrone, che è anche soltanto alle dipendenze di istituzioni le cui risorse pubbliche dimagriscono giorno dopo giorno.
Tutto passa attraverso la riemersione di una forza di massa che si esprime nella coscienziosa consapevolezza che chiedere un salario giusto è, oltretutto, applicare la Costituzione nel suo trentaseiesimo articolo. Questa è molto di più di una semplice raccolta di firme per dare una dimostrazione di esistenza di un consenso minimo su una proposta che si può anche ritenere non oltrepasserà la mera discussione parlamentare.
Questo è un primo importante passo per rimettere al centro delle questioni il punto politico, sindacale e sociale del passaggio dalla rassegnazione alla sopravvivenza in un mondo dove l’apparenza dello sviluppo è data dal consumismo accecante, alla rivendicazione della vita dignitosa e degna di essere vissuta.
«Far credere alle grandi masse di operai disoccupati che essi possono guardare con fiducia nell’opera di aiuto del governo, è volerle mantenere nell’inganno». Antonio Gramsci, “L’Ordine Nuovo“, 8 agosto 1921. E tutto, come sempre, ricomincia…
MARCO SFERINI