Fabrizio Casari
Tra minacce e tensioni, è scaduto l’ultimatum che l’ECOWAS aveva offerto al Niger. L’Occidente collettivo grida contro il “golpe” ma sostiene il presidente deposto Bazoum, che vinse le elezioni con una frode. Bazoum è uomo della Francia, poiché nel suo Paese ha sempre avuto a cuore gli interessi di Parigi e non quelli dei nigerini, reprimendo l’opposizione e ospitando persino le truppe francesi espulse dal Mali.
Il contagio ad altri Paesi della regione, Senegal in primis, è il timore più grande dell’Occidente, ed è per questo che l’Ecowas (Comunità economica dell’Africa occidentale), docile strumento africano della devozione occidentale, sembra finora decisa a preparare un intervento militare contro il Niger. Non si può certo far passare per una risposta democratica al rovesciamento di un governo eletto; piuttosto, è chiaro che è l’Occidente a stabilire quali colpi di Stato sono possibili e quali no, quali sostenere e quali combattere. Infatti, in Mali, come in Guinea, Burkina Faso e Niger, l’elemento distintivo delle rivolte militari è solo uno: hanno il sostegno delle rispettive popolazioni, il che rende il “colpo di Stato” un pronunciamento militare che accoglie le richieste popolari, che spazza via le élite a favore degli ultimi.
Parigi sente il dito sul grilletto e valuta la catena di errori commessi dai contingenti occidentali nel Sahel. Ma a complicare il suo disegno di restaurazione violenta c’è un quadro generale problematico, in cui solo i nemici appaiono chiari e insidiosi.
Stati Uniti. Non hanno intenzione di fare la guerra in Africa e per diversi motivi. Il conflitto globale che Washington sta conducendo contro l’emergere di un disegno multipolare ha come principali avversari la Cina e la Russia, ma a differenza della Francia, nel breve periodo l’Africa per Washington ha un’importanza strategica, ma non vitale. Non è l’America Latina, né l’Europa o l’Asia. In cambio, nelle condizioni attuali degli USA, la cui ripresa economica sembra tenue, impantanarsi in una guerra da cui non si otterrebbero guadagni strategici concreti non è sostenibile dal punto di vista politico, militare ed economico. Non è un caso che la Casa Bianca abbia ufficialmente smentito la versione francese del ruolo della Russia nel licenziamento di Bazoum, affermando che il Cremlino non è responsabile della vicenda del Niger.
Chiaramente, in qualità di comandante in capo della NATO, Washington non può lasciare Parigi da sola, che a sua volta gli ricorda che la guerra per la salvaguardia dell’impero ha diversi fronti. Probabilmente alla fine sarà dell’Eliseo l’ultima parola, ma Washington ha chiarito che l’impegno al fianco del regime nazista ucraino ha già messo a dura prova le casse e le capacità militari degli Stati Uniti, tanto da non potersi impegnare a fondo in un’altra guerra. Quindi sostiene la Francia, per comunanza atlantica e anche per evitare che Parigi si tiri indietro in Ucraina, ma senza un coinvolgimento diretto.
G.B. Se Washington non gli chiede di intervenire, si fa da parte. Come di consueto senza autorizzazione o richiesta USA Londra non prende nessuna iniziativa. Ma Downing Sreet non ha intenzione di entrare in un conflitto in cui non avrebbe nulla da guadagnare. Ovviamente, a meno che la Nigeria non si esponga al rischio di una rivolta progressista, cosa che causerebbe non pochi grattacapi a Londra e potrebbe spingerla alla riproposizione di un’asse con Parigi, che in Africa e Medio Oriente è film già visto diverse volte.
Germania. Ha assunto un ruolo di primo piano nel sostegno militare e di intelligence all’Ucraina e non vuole rientrare nello scacchiere africano, dove la sua storia nazista richiede ormai estrema cautela. La presenza di sue truppe “contro il terrorismo” è giudicata più che sufficiente. Non ci sono “Afrika Korps” all’orizzonte: Berlino probabilmente preferirebbe vedere Parigi indebolita piuttosto che alla testa di un’iniziativa politico-militare europea che ne sancirebbe la leadership militare nella UE e alla quale la Germania dovrebbe aderire per obbligo più che per interesse.
Italia. L’Italia è decisamente contraria a qualsiasi tipo di iniziativa militare. Nessun pacifismo, figurarsi, solo che difende ad oltranza le decisioni degli Stati Uniti e non vuole nemmeno deviare dal percorso indicato da Washington. Le tensioni tra Roma e Parigi sull’immigrazione non spingono a una gestione condivisa in Europa, e Roma amerebbe restituire alla Francia ciò che ha ricevuto in Libia.
Tutte le ipotesi di intervento richiedono la formazione di un “casus belli” e, poiché non si può sostenere apertamente il diritto di colpire il Niger che non vuole più essere saccheggiato, lo scenario militare richiede una condizione politica, ossia che le truppe francesi vengano chiamate in soccorso da altri Paesi africani. La disinformazione fornirà notizie allarmanti e spaventose su vaghe violazioni dei diritti umani e sulla sorte personale di Bouzum per cercare di giustificare l’intervento. Ci sarà poi da formare un governo in esilio con i notabili del deposto regime, magari proprio quelli che sono stati appena liberati in un blitz dei commando francesi pochi giorni fa in una casa dove erano detenuti alcuni membri della vecchia giunta.
L’Africa incerta
Dal punto di vista operativo, l’elemento più complesso riguarda i due Paesi di una certa importanza militare che dovrebbero aprire la strada alla Francia: il Ciad e la Nigeria. Ma entrambi sono alle prese con problemi interni di non poco conto.
La Nigeria, in particolare, sembra incapace di gestire i guerriglieri di Boko Haram e dello Stato Islamico dell’Africa e la criminalità organizzata, e non essere in grado di sgominare gruppi terroristici di poche centinaia di persone non è esattamente un bel curriculum militare dovendo misurarsi contro truppe regolari di tre Paesi. A questo si aggiunge una realtà economica molto difficile tra inflazione, debito e mancanza di crescita in uno dei principali Paesi produttori di petrolio al mondo.
Il fragile e corrotto presidente Bona Tinubu è impantanato in una profonda crisi politica e non ha l’autorità per affrontarla. L’Osservatorio nigerino per la risposta rapida alle crisi (OSPRE) si è schierato con forza contro qualsiasi interferenza in Niger, così come il Consiglio dei partiti politici (che si dichiara amico della giunta di Niamey) e i sindacati. Dato il sostegno popolare alla giunta e il crescente risentimento nei confronti dei francesi, hanno dichiarato apertamente la loro opposizione a qualsiasi intervento che faccia apparire il Niger come un invasore piuttosto che un liberatore. Il timore è di innescare un incendio che si propagherebbe per migliaia di chilometri fino alla Nigeria.
Il Ciad, dal canto suo, pur essendo strettamente legato alla Francia, ha nel suo presidente Idriss Deby (insediato con un colpo di Stato nel 2021 e quindi poco adatto a una crociata “contro i golpe” per ovvi motivi) un interlocutore problematico per Washington e Bruxelles. A far riflettere c’è il fatto che pochi giorni fa Deby ha visitato il Niger e ha incontrato la giunta di governo, alla quale ha assicurato che “mai e per nessun motivo il Ciad lancerà operazioni militari contro il Niger, perché il nuovo governo è amato dal suo popolo”.
Il Senegal, di stretta osservanza francese, ha una situazione interna molto delicata e l’arresto dell’amato leader dell’opposizione, Ousmane Sonkò, sta avendo serie ripercussioni sugli equilibri interni, che rendono consigliabile la cautela nell’entrare in conflitto con un Paese come il Niger, i cui leader politici sono ben visti e non minacciano in alcun modo Dakar. Un intervento militare esporrebbe il governo al rischio di sconvolgimenti interni e farebbe apparire il Paese come un avamposto francese contro l’Africa libera.
Insomma, si tratta di uno scenario complesso che dovrebbe contenere un intervento militare. Parigi è combattuta tra il non voler cedere e il non poter intervenire, se non vuole che l’intera costruzione ideologica e mediatica russofoba dell’intervento in Ucraina crolli come un misero castello di carte.
Tutto ciò non significa che i piani di intervento militare debbano essere considerati secondari, al contrario. Per certi aspetti, la complessità e il rischio potrebbero addirittura essere un acceleratore dell’iniziativa militare francese. Parigi non può permettersi di lasciare l’Africa con la coda tra le gambe perché, più che una questione di immagine, è una questione di sopravvivenza del suo modello.
Ma le rivolte degli ultimi anni nelle banlieues, l’ascesa di una terza e quarta generazione di immigrati dal Nord Africa, quasi tutti di religione islamica, che hanno saputo mettere in scacco il Paese negli ultimi mesi, ha messo in mostra un rifiuto dell’identità politica francese che in caso di guerra contro il Niger potrebbe diventare un vero e proprio “fronte interno”, molto difficile da affrontare per un governo privo di autorità come quello di Macron.
L’Eliseo dovrà valutare attentamente l’innesco di una crisi sociale e politica di vaste proporzioni, contemporaneamente a un’avventura militare complessa e piena di incertezze, che rischia di produrre un effetto domino nell’accelerazione dei processi di liberazione. Il Niger, con tutto il Sahel, potrebbe diventare l’ultima pagina del neocolonialismo francese. La grandeur, più che un’ambizione, rischia di diventare un sepolcro.
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