Due gravi episodi hanno riacceso la luce sulla drammatica situazione che, ogni anno di più, si vive all’interno delle carceri italiane. L’ultimo riguarda il contenuto di una circolare inviata dal Provveditore dell’amministrazione penitenziaria lombarda, Maria Milano, ai direttori delle case circondariali della regione, in cui si afferma che nelle carceri della Lombardia sarebbe “emerso un uso improprio dei mezzi di coercizione fisica“, in particolare attraverso l’indebito utilizzo di “manette” all’interno delle varie sezioni. A precederlo di pochi giorni è invece la notizia della tragica dipartita di due detenute che si sono tolte la vita a poche ore di distanza nel carcere torinese Lorusso-Cutugno: una si è lasciata morire di fame e di sete, l’altra si è impiccata nella sua cella. E sono solo gli ultimi tasselli di una catastrofe che parte da molto lontano.
L’eloquente nota emessa dal Provveditorato lombardo è stata diffusa ieri. “Dalla lettura di eventi critici recentemente occorsi – si legge nel documento – è emerso, in talune circostanze, un utilizzo improprio dei mezzi di coercizione fisica. In particolare, è stato rilevato l’uso delle manette all’interno delle sezioni detentive per contenere gli agiti auto ed etero aggressivi posti in essere dai detenuti”. In merito a quest’aspetto, prosegue il comunicato, “si osserva che l’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario, che detta i principi generali e disciplina limiti e condizioni dell’uso della forza e dei mezzi di coercizione fisica, demanda al regolamento di esecuzione la previsione di ulteriori strumenti ai quali, comunque, non si può fare ricorso a fini disciplinari ma solo al fine di evitare danni a persone o cose o di garantire l’incolumità dello stesso soggetto. L’uso deve essere limitato al tempo strettamente necessario e deve essere costantemente controllato dal sanitario“.
I decessi delle due detenute tra le mura dell’istituto penitenziario Lorusso-Cotugno risalgono invece allo scorso 11 agosto. La prima, la 42enne nigeriana Susan John, aveva fatto il suo ingresso in carcere il 22 luglio dopo una condanna a 10 anni per gravi reati (tratta degli esseri umani e induzione alla prostituzione). Da quando aveva messo piede in galera si era rifiutata di mangiare, bere e sottoporsi a controlli e cure mediche. Diceva di essere stata condannata ingiustamente e chiedeva di vedere la figlia piccola che, dopo l’arresto, era rimasta a casa con il marito. Gli agenti della polizia penitenziaria hanno rinvenuto il suo corpo attorno alle tre del mattino. Poche ore dopo, è stata trovata morta un’altra donna, la 28enne ligure Azzurra Campari, che si è impiccata con un lenzuolo. Sulla base dei primi accertamenti, la donna aveva problemi che erano stati segnalati agli operatori: per questo era stata sottoposta inizialmente a un alto livello di sorveglianza, per poi passare a un livello medio con una compagna di cella, che non era presente nello spazio comune quando Azzurra ha messo in atto il gesto estremo. Mirko Campari, il fratello della donna, negli scorsi giorni è intervenuto con un post Facebook attaccando le fantasiose ricostruzioni di alcune testate giornalistiche, che trattando la notizia avevano erroneamente inquadrato la donna come “tossicodipendente” e diramato informazioni errate sugli ultimi colloqui che avrebbe avuto con sua madre, della quale sarebbero stati pubblicati virgolettati contenenti frasi in realtà mai proferite. Nella sezione femminile del carcere di Torino sono recluse 110 donne, anche se i posti a disposizione sono circa 80. Qui, lo scorso 29 giugno, si era già uccisa un’altra donna di 52 anni, peraltro a pochi giorni dalla scarcerazione.
La situazione legata al numero di suicidi in carcere è pesantissima: ad oggi, infatti, nel solo 2023 si sono tolti la vita 47 detenuti (circa uno ogni cinque giorni). L’ultimo in ordine di tempo è quello di uomo di 44 anni, originario di Lamezia Terme e recluso per reati connessi al traffico di stupefacenti, che sabato scorso si è ucciso impiccandosi all’interno della sua cella della Casa di Reclusione di Rossano. Nel 2022, negli istituti penitenziari italiani si sono suicidati in totale 84 prigionieri, mentre 1078 tentati suicidi sono stati sventati dall’intervento della polizia penitenziaria. A far risuonare un ulteriore campanello d’allarme sulla situazione di degrado vissuta all’interno delle carceri è anche un altro dato emblematico: nel corso di undici anni, dal 2011 al 2022, in Italia si sono registrati anche 78 suicidi tra le guardie carcerarie. In particolare, nel 2013 e nel 2019, le morti sono state 11.
Tornando allo stato delle carceri, i dati ci dicono che attualmente sono 189 gli istituti penitenziari in funzione, la maggior parte dei quali è stato costruito prima del 1950. Si tratta, dunque, di strutture piuttosto vecchie, che molto spesso non presentano i requisiti adeguati richiesti dall’Ordinamento penitenziario e che necessiterebbero di ristrutturazione e adeguamento alle norme. Secondo i dati dell’Ufficio statistico del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP), il tasso medio di affollamento ufficiale nelle carceri italiane è del 107,4%: la situazione più difficile si ha in Puglia, dove arriva al 134,5%, e in Lombardia, in cui si attesta al 129,9%. Inoltre, sul totale delle celle visitate dall’associazione Antigone, il 20% non è dotato di riscaldamento e nel 36% non è garantita l’acqua calda per tutto il giorno e in ogni periodo dell’anno.
Ampliando i confini delle criticità evidenziate dal Provveditorato, appare poi significativo riflettere su come, nonostante negli ultimi anni siano emerse numerosissime inchieste (poi sfociate sovente in processi e anche in pesanti condanne) sui presunti abusi, violenze e torture perpetrati da esponenti delle forze dell’ordine nei confronti dei detenuti delle carceri dello stivale, Fratelli d’Italia – principale azionista di governo – ha recentemente fatto pervenire in Commissione Giustizia del Senato la proposta di legge per l’abrogazione del reato di tortura e la sua derubricazione ad aggravante comune. Nello specifico, il reato – presente in più di 100 Paesi del mondo e introdotto nell’ordinamento dall’Italia, con grande ritardo, solo nel 2017 -, riguarda “chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa”.
A fronte di una situazione sempre più tragica, appare palese il senso di disorientamento del governo, che scandisce la sua comunicazione politica alternando in maniera quasi aritmetica aperture garantiste (quasi sempre all’indirizzo di colletti bianchi e detenuti d’élite), tra cui spicca l’annuncio del ritorno alla prescrizione pre-Bonafede, ed esternazioni in difesa della certezza della pena, in particolare attraverso il niet alle proposte di un maggiore utilizzo delle pene alternative come semilibertà o detenzione domiciliare. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha reagito ai suicidi ravvicinati avvenuti a Torino con vari proclami, affermando che interverrà per garantire ai detenuti più colloqui telefonici con i familiari e la ristrutturazione «entro tempi ragionevoli» di caserme dismesse per accogliere detenuti e nuovo personale. Un progetto estremamente complicato, sia per l’iter burocratico (gran parte delle strutture sono in dotazione al Ministero della Difesa e dovrebbero passare, attraverso il Demanio, al Ministero della Giustizia, e molti immobili dismessi sono già stati assegnati) che per le tempistiche previste, tutt’altro che rapide, come dimostrano i rari casi di “riconversioni” avvenute negli ultimi decenni. Nel frattempo, dietro le sbarre, l’inferno continua.
[di Stefano Baudino]