Iportavoce della NATO sono sempre molto attenti nelle loro dichiarazioni ad usare le parole appropriate. Ne va della sicurezza di interi paesi o, per meglio dire, ne va degli interessi di governi, economie, apparati finanziari. Perché, dunque, questa volta il capo di gabinetto dello stesso segretario generale, Stian Jenssen, ha dichiarato che una delle eventualità per far entrare l’Ucraina nell’Alleanza potrebbe essere la cessione di una parte dei territori conquistati dalla Russia?
La guerra è diventata un pantano. La controffensiva annunciata a pieni polmoni da Volodymyr Zelens’kyj non sta avendo alcun rilevante successo sul piano tattico e nemmeno nella prospettiva di una strategia di più lungo corso si possono intravedere punti a favore di Kiev. I russi tengono la linea del fronte e, nel fare questo, mettono, giorno dopo giorno, sempre più a rischio le scorte di armi, munizioni e mezzi pesanti che sono stati forniti da mezzo mondo.
Mezzo. Perché l’altra metà (e forse anche qualcosa di più in termini di popolazione rappresentata dai governi non filo-occidentali) è fortemente critica nei confronti di una guerra che nessuno chiama più “per procura“, nemmeno (ed anzi, soprattitto…) riferendosi al ruolo della NATO, degli Stati Uniti d’America e di una Unione Europea completamente asservita al nordatlantismo.
C’è chi, come la Cina, non fa mistero di sostenere apertamente l’economia di Mosca e di Minsk (e di dare supporto logistico e militare, seppure “indirettamente“); e c’è chi vende armi a Putin senza alcun filtro necessario per le etichette diplomatiche internazionali.
Della pace sembra rimasto amico e sostenitore a tutto tondo solo papa Francesco. La missione del cardinale Matteo Zuppi non ha sortito quegli effetti che si sperava potesse avere: né ucraini e né russi hanno intenzione di cessare il fuoco, di aprire un tavolo di interlocuzione, di addivenire ad un successivo passo che contempli le trattative per mettere fine al conflitto.
Ma quella voce fuggita dal sen di Jenssen non può essere considerata un grossolano errore, una mala interpretazione esclusivamente personale dei fatti che spingono ad sempre più diffusa critica dello stato in cui versa la guerra. Quella voce voleva proprio dire quello che ha proferito: «…la soluzione potrebbe essere che l’Ucraina ceda il suo territorio e ottenga in cambio l’adesione alla NATO. Non sto dicendo che questo debba essere il caso. Ma potrebbe essere una soluzione possibile…».
Ipse dixit, ma intanto il messaggio è stato dato in pasto al mondo. Si parla a tutti per parlare a Kiev. Probabilmente con l’assenso dell’amministrazione Biden e, quasi certamente, col plauso di un Pentagono che, non certo da oggi, è fermo sulla convinzione di una guerra in cui non possa vincere nessuno dei contendenti e che si rischi un immobilismo che non farebbe altro se non confermare il ruolo terzo di una Ucraina tra Est ed Ovest, tra oriente ed occidente.
E’ un po’ la conclusione cui arriva l’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, non certo un sostenitore di Putin, ma il cui punto di vista va oltre il semplicistico allineamento nel nome dei valori occidentali, di una democrazia peraltro molto poco esistente a Kiev (dove le opposizioni sono represse e dichiarate illegali, dove si bistrattano le minoranze russe, dove si fa scempio della memoria storica del paese abbattendo i simboli sovietici, innalzando statue a Bandera…).
Sarkozy parla di un ruolo dell’Ucraina come paese intercapedine tra i blocchi, come terra neutrale, come una sorta di Svizzera dell’Est nel cuore di una Europa sempre più spostata sull’asse Roma – Varsavia e che, proprio per questo, rischia di far deflagrare quello che rimane di una Unione priva di contenuto politico sul piano internazionale, quindi completamente assente sulla scena dei confronti tra le grandi potenze.
Secondo l’ex inquilino dell’Eliseo, che ha rilasciato una intervista a “Le Figaro“, la guerra “fatta senza entrarci” è una ambiguità tutta europea. Una mancanza di autonomia politica e di indipendenza della UE che sta portando le democrazie ad un tiro al bersaglio fatto dalle destre più illiberali e conservatrici che, da un lato osteggiano il nordatlantismo filoamericano e, dall’altro, premono per un sempre maggiore sostegno alla linea tracciata da Biden e da Stoltenberg.
Una delle conseguenze provocate da questo dualismo che riguarda, in particolare, i paesi dell’Est europeo, quelli più direttamente minacciati dal conflitto anche sul piano di una mera considerazione geopolitica, è l’abbastanza netta spaccatura nel cosiddetto “gruppo di Visegrad“: la Polonia con la NATO, l’Ungheria con uno sguardo più rivolto al putinismo e agli interessi di Mosca. Se non fosse che è un conflitto sanguinosissimo a dare adito a questa scissione, ci sarebbe che da rallegrarsene.
La sensazione di cui si faceva cenno all’inizio, quella suscitata dalle parole del capo di gabinetto di Stoltenberg, è che da Washington a Bruxelles, da Londra ad Ankara, dopo la riunione dell’Alleanza a Vilnius nello scorso luglio, sia partito un confronto informale (o magari anche sufficientemente formale) per trovare una via di uscita da un conflitto che, come ammettono gli stessi dirigenti di governo ucraini, si protrarrà ben oltre la primavera del 2024.
Questo, detto in soldoni, significa che la controffensiva è, di fatto, fallita e che la tenuta russa è ben superiore rispetto alle aspettative forse della medesima NATO. E vuol dire anche che l’analisi del generale americano Mark Milley, a cui venne affidato il Joint Cheff of Staff nel 2019, in merito alla condizione di irrisolvibilità della guerra era ed è tutt’oggi il punto analitico più realisticamente vicino ad una schietta disamina delle forze in campo: una equipollenza che l’Ucraina si può permettere grazie agli ingenti fondi ricevuti, allo svuotamento degli arsenali da parte dell’Occidente.
Ma – sottolineava il capo di stato maggiore statunitense – proprio per mantenere una equidistanza tra politica e forze armate (ammesso che sia veramente possibile anche solo immaginare una autonomia di questa portata…), era necessario fin da subito stabilire i limiti del sostegno a Kiev e quali fossero le linee rosse da non oltrepassare.
Un limite tutto politico che non è stato messo, se non cincischiando di volta in volta sulle armi pesanti che si potevano dare all’Ucraina, sul tipo di missili (corto o lungo raggio), sui carri armati e sulle forze aeree. In sostanza sulla possibilità di far espandere la guerra oltre i confini del paese invaso.
Ma la guerra, con o senza missili che percorrono centinaia e centinaia di chilometri, è arrivata fin dentro Mosca. L’utilizzo dei droni ha permesso di sperimentare un confronto a distanza e ravvicinato al tempo stesso, evitando numerose perdite. Non si sa bene quanti siano i caduti sino ad oggi: si parla di oltre 250.000 morti ucraini e 200.000 russi. Sono cifre che riguardano civili e militari. Sono dati assolutamente da prendere con le pinze, perché sono certamente influenzati dalla propaganda dei rispettivi governi.
Qualunque sia la portata omicidiaria del conflitto, gli unici che parlano di pace e di fine delle ostilità sono il papa e Sarkozy. Ovviamente anche le forze politiche della sinistra di alternativa un po’ in tutti i paesi europei, sostenendo la necessità della fine dell’invio di armi e l’apertura di canali diplomatici; mentre socialisti, democratici e liberali si uniscono in una condivisione con le destre della linea NATO: dall’aumento dei fondi del PIL per una economia di guerra adeguata, fino al sostegno diretto sul campo mettendo a disposizioni basi, infrastrutture e quanto altro per il trasporto delle armi stesse.
La controffensiva partita il 4 giugno ha, al momento, fallito il suo scopo principale. L’obiettivo militare e politico al tempo stesso era sottrarre ai russi quanto più territorio possibile per tentare una negoziazione ovviamente da un punto di forza. Che, quindi, visto l’insuccesso, dalle parti dell’Alleanza Atlantica e pure del Pentagono si cominci ad ipotizzare che una trattativa diplomatica può essere una delle soluzioni, è, più che una indiscrezione giornalistica del Washington post, una delle conclusioni cui arrivano i governi in questa fase di stallo.
Si stimano mezzo milione di morti tra soldati russi e soldati ucraini. Si contano decine di migliaia di civili che hanno perso la vita, altrettanti che sono stati feriti. Centinaia di migliaia di profughi si sono riversati nei paesi limitrofi: Polonia, Ungheria, Austria, Slovacchia, Germania, Italia… La situazione umanitaria è una catastrofe: esattamente come prevedibile. La guerra non è altro se non morte, distruzione, annichilimento.
La necessità della fine dei combattimenti è l’alternativa ad un conflitto che andrà altrimenti avanti molto a lungo e che farà da sponda ad altri tentativi di confronto espansionistico tanto della Russia quanto dei paesi occidentali della NATO in altre parti del globo. Se ne ha un esempio proprio in questi giorni. A Camp David si sono riuniti i presidenti e i ministri degli esteri giapponesi, sudcoreani e statunitensi. Hanno stretto un’alleanza preventiva sostanzialmente anti-sino-russa.
Qualche giornalista l’ha opportunamente definita una “mini-NATO” a tutela degli interessi di questi Stati nell’area dell’Asia-Pacifico. Non c’è nessuna clausola simile a quella dell’articolo 5 del Trattato dell’Alleanza atlantica, che impegni i sottoscrittori-membri ad intervenire militarmente in difesa di qualunque dei paesi aggrediti, ma c’è un accordo che la ricorda molto: se Giappone, Corea del Sud o Stati Uniti d’America fossero attaccati, l’azione di risposta sarà unitaria.
Una trilaterale moderna in chiave militare: una provocazione, secondo Pechino. Un cappello imperialista da mettere su un’altra porzione di mondo, senza alcuna ombra di dubbio. Non c’è alternativa a tutto questo? Siamo destinati ad andare incontro ad una globalizzazione delle tensioni nazionali, bi-trilaterali e internazionali? Non vi è alcuno spazio diplomatico tra i blocchi che si contendono l’egemonia in ambito economico, finanziario e, non di meno, sul terreno politico e culturale?
Se la controffensiva ucraina occupa le aperture dei quotidiani italiani e viene dichiarata fallita, visto che pare proprio impossibile che le truppe di Kiev (ben equipaggiate dai paesi della NATO) possano arrivare a Melitopol e spezzare la continuità territoriale degli oblast conquistati da Mosca, è ancora ragionevole pensare di proseguire una guerra che, nonostante tutte le centinaia di miliardi di dollari spesi, tutti gli arsenali svuotati e tutti i morti avuti, si preannuncia di lungo periodo?
Si stanno aprendo delle crepe nella graniticità e nel monolitismo occidentale. Del resto, gli interessi economici sono strutturali proprio per questo: perché si bada principalmente a loro per poter dire che un governo è e vuole rimanere stabile. Nessuna amministrazione è disposta all’estremo sacrificio. Nemmeno in nome di quella democrazia occidentale che dice di voler difendere mentre, invece, mette in campo una risposta imperialista ad una aggressione ugualmente imperiale.
Volodymyr Zelens’kyj rischia di essere progressivamente abbandonato dai suoi alleati se l’ostinazione a recriminare, ad esempio, anche la Crimea nell’unità territoriale del suo paese rimanesse uno dei punti irrinunciabili per una trattativa con la Russia. Putin, d’altro canto, non cederà. Ha dalla sua, viste anche le mosse americane nel Pacifico, metà e più di un mondo che noi consideriamo “non libero“, ma le valutazioni etico-politiche valgono poco in questi frangenti.
Conta una pluralità di punti di vista che, fino ad oggi, sono sempre e soltanto stati trattati con il metro del democraticismo liberale e liberista, sotto la bandiera di una predestinazione divina a rappresentare l’umanità che gli Stati Uniti si sono dati a partire dalla loro dichiarazione di indipendenza. Ma i tempi sono radicalmente cambiati: basti pensare all’atomica. Gli USA sono gli unici, fino ad ora, ad aver utilizzato la bomba più deflagrante. E non una, ma due volte.
Possiamo stare a discutere e a scrivere per pagine e pagine sulla cinica, cruda, tragica necessità di lanciare anche il secondo ordigno atomico sul Giappone nel 1945. Non arriveremo mai ad una conclusione eticamente accettabile. Perché ci sarà sempre chi affermerà che la guerra sarebbe altrimenti continuata per chissà quanto tempo. La deterrenza nucleare di oggi è, in fondo, ricollegabile a quella di allora e rischia di diventare un’arma prepotente, una discriminante seria, nonostante la Russia, a parole, affermi di non voler arrivare fino a quel punto.
Ma le certezze in guerra se le porta il vento. Le parole sono per lo più propaganda. Ed infatti, l’unica parola seria e concreta, pace, resta fuori dalle dichiarazioni, dai discorsi ufficiali ed ufficiosi. Per ora non è all’ordine del giorno, perché la grande confusione che regna è utile. Nonostante tutto…
MARCO SFERINI