Vedere governo e opposizioni fronteggiarsi, attorno a un tavolo, sulla questione del salario cosiddetto minimo può avere acceso qualche speranza. Può essere che l’abile Meloni abbia messo su nulla più che una sceneggiata, preoccupata di perdere consenso in quanto sembra largamente condivisa, nell’opinione pubblica, la convinzione – una realtà – che in Italia i salari siano ormai troppo bassi, anche perché ci si è consegnati al turismo e all’enogastronomia, settori nei quali lo sfruttamento della manodopera è inaccettabile (e il governo del made in Italy ci sta mettendo del suo, un po’ per miopia, un po’ per calcolo elettorale). Può anche essere che le opposizioni abbiano abboccato scientemente, anche loro per strategia (fermo restando che il minimo stabilito per legge sarebbe cosa buona e giusta): se nulla si farà, com’è possibile, sarà agevole scaricare la responsabilità sul governo per aver creato un’apparenza di disponibilità, con il deliberato intento di turlupinare. L’impressione è, comunque, che a quel tavolo il convitato di pietra sia stata la riserva mentale, nutrita dall’uno (forse, di più) e dalle altre (forse, un po’ di meno): si era là anche per fingere (specie da parte di chi quel tavolo l’aveva introdotto).
Se il salario minimo è riuscito in quest’impresa, l’ipotesi più plausibile è che si tema, per ragioni varie, la realtà di un Paese – o di una Nazione – che si sta impoverendo, a parte taluni fortunati che si stanno arricchendo oltre la decenza o, meglio, oltre la misura che si dovrebbe consentire in una Repubblica democratica. Per andare avanti ci vorrebbero tanti soldi: flat tax, reddito di cittadinanza, superbonus, migranti, emergenza Covid, emergenza ambientale ecc. ci sono costati e/o ci costano tanto. La valutazione di spesa è oggettiva e prescinde dal merito: è inoppugnabile che occorra soccorrere chi non ce la fa, è inoppugnabile che occorra sistemare i territori fragili, è inoppugnabile salvare chi sta affogando nel Mediterraneo ecc. Forse, però, è tempo di rovesciare quel tavolo o quei tavoli: i convenuti discutono sempre e solo di nuovi provvedimenti, leggi o altro, da assumere per tamponare questa o quella falla. Ecco che tutti, dico tutti, agognano le elargizioni del PNNR: fondi che si renderanno (semmai) disponibili senza il rischio di dover scontentare questa o quella categoria sociale e, naturalmente, tacendo che molti soldi dovranno poi essere restituiti a chi ce li avrà prestati. Tanto lo spettro della restituzione non è immediato e alle prossime elezioni si potrà solo arrogarsi o rubarsi, da una parte o dall’altra, il merito di avere ottenuto i fondi dall’UE (o, anche, accusare il governo di non averli ottenuti o di non averne ottenuto abbastanza). In questa prospettiva, preoccuparsi seriamente del debito pubblico è pericoloso perché implica delle conseguenze, cioè la necessità di fronteggiarvi, per esempio riducendo le spese (e danneggiando economicamente questi o quelli che non la prenderanno bene e, magari, si orienteranno elettoralmente verso chi abbia evitato di discorrere intorno al debito).
È così o no? Se è così, e potrebbe ben essere così, allora vi è da pensare che lo spirito pubblico, in questa Nazione, sia latitante, presso quasi tutti i politici e presso parecchi cittadini. Non che, in questa Nazione, lo spirito pubblico sia mai stato ampiamente diffuso; ma negli ultimi decenni se ne è registrata la caduta, che stiamo pagando e pagheremo ancor più. Se rischiamo che venga approvato il dissennato disegno di legge Calderoli, la causa sta anche in questa rarefazione dello spirito pubblico in luogo del quale sono spuntati interessi particolari, corporativi, egoistici i quali esigono trattamenti privilegiati, riservati, premiali.
Ora, sarebbe tempo che i tavoli venissero aperti per dare attuazione fedele e scrupolosa a tutti quegli ordinamenti che la esigono – se siamo ancora uno Stato – e non la trovano. Gli esempi che qui potrebbero portarsi sono parecchi. Mi riferirò solo all’ordinamento tributario, semplificando al massimo: probabilmente il più importante, nel contesto in cui ci troviamo e ci verremmo a trovare, credo a lungo. Nessuna nuova legge: già ci sono. In più, alcuni articoli della Costituzione che esigono di essere applicati e non elusi: l’art 2, con i suoi «doveri inderogabili di solidarietà, politica, economica e sociale»; l’art. 42, con la «funzione sociale della proprietà privata»; e poi l’art. 53, che impone a tutti di pagare le tasse «in ragione della loro capacità contributiva».
Mi fermo qua, per non annoiare con il diritto (che generalmente annoia). Se siamo a corto di denaro e se lo Stato non ha le risorse necessarie per adempiere agli scopi istituzionali irrinunciabili, allora che si aspetta a far pagare le tasse a chi non le paga o le paga il meno possibile o le elude? Perché non allestire un bel tavolo per applicare la legge? Il governo se ne guarda bene e, anzi, dà l’impressione di non voler alzare il tiro contro gli evasori o certi evasori. Ma nemmeno le opposizioni premono in questa direzione; e, d’altronde, sono state per anni al governo e concretamente hanno fatto poco o nulla. Perché?
La risposta la conosciamo, tutti: gli evasori sono ovunque, stanno a destra, a sinistra, al centro, sono tra noi. Comunque diamo un’occhiata ai dati ufficiali del Mef (fonte: Commissione per la redazione della relazione sull’evasione fiscale): complessivamente l’evasione fiscale e contributiva ammonta, grosso modo, a quasi 100 miliardi di euro. Sempre secondo il Mef, la quota più cospicua di imposte evase è imputabile ai lavoratori autonomi e alle piccole imprese: in media non pagano circa il 70% delle imposte sul reddito che dovrebbero pagare. Si tratta di quelle categorie già inspiegabilmente beneficate dal governo Meloni con la recente estensione della flat tax. Secondo la Guardia di Finanza, nel 2022, gli evasori totali sarebbero aumentati di oltre il 50%.. Inoltre, in Europa l’Italia è in testa per quanto concerne l’evasione dell’Iva. Può bastare? I dati confermano la nostra personale esperienza sul campo: l’esperienza di noi tutti.
Che il governo sia blando nel perseguire l’evasione non deve stupire più di tanto: il partito dell’evasione parrebbe simpatizzare più con il centro destra. Ma fino a un certo punto perché non vi è alcun concreto attivismo delle opposizioni in questa direzione: si intuisce che gli evasori si annidano – e non può essere altrimenti – anche tra gli elettori del centro sinistra
Combattere l’evasione fiscale – stanare gli evasori e farli pagare – non è impossibile; oggi più di qualche tempo fa, grazie ai raffinati strumenti telematici di cui disponiamo. L’Agenzia delle Entrate può agevolmente mettere a confronto la situazione patrimoniale e finanziaria di ciascuno di noi con l’ammontare dei relativi redditi; e, se del caso, metterci alle strette. Perché poi non imporre, com’è in altri Paesi, la pubblicità delle dichiarazioni annuali dei redditi? E poi ci piacerebbe vedere che la Guardia di Finanza facesse qualche visita in più ai contribuenti appartenenti alle categorie con maggior indice di evasione. Soprattutto occorrerebbe che, nelle scuole e nelle università, si facesse comprendere ai giovani l’importanza di essere, o divenire, buoni cittadini: in questa direzione si fa davvero poco e, talora, si offrono esempi deteriori o (penso alle facoltà giuridiche) si mettono in mani dei futuri professionisti anche le tecniche elusive senza accompagnarle con il necessario corredo etico.
Ripeto, si tratterebbe solo di applicare le leggi che esistono. Non dovrebbe mai scordarsi quanto si legge nel Contratto di Rousseau: repubblica è lo stato retto da leggi perché solo in esso l’interesse pubblico governa. L’interesse pubblico, cioè di tutti. Allora ci piacerebbe tanto che le opposizioni se ne rammentassero e chiedessero – esigessero – al governo di convocare un tavolo per applicare le leggi che concretizzano il precetto costituzionale che impegna qualunque cittadino a concorrere alle spese pubbliche pagando le tasse: linee per un semplice, ma decisivo, patto per la Repubblica. Lo faranno? Difficile. Ma allora non ne verremo mai fuori