Crescono i fallimenti societari negli Usa con decine di migliaia di licenziamenti
I numeri relativi al fallimento delle imprese negli Usa sono tornati a livelli preoccupanti come ai tempi della crisi economica e finanziaria del 2008 e, pur in misura minore, nel 2020 a seguito della pandemia, quando furono costrette a chiudere numerose aziende dipendenti dalle importazioni di manufatti e prodotti tecnologici dal Sud est asiatico. Ad essere colpiti, a detta degli economisti ufficiali, sarebbero soprattutto le aziende fragili legate a cicli produttivi in crisi e in buona parte incapaci di affrontare la cosiddetta sfida green, ma non mancano clamorose eccezioni. In ogni caso questa spiegazione risulta fin troppo approssimativa. Andrebbe indagato il rapporto con il Sudest asiatico di alcune aziende Usa fallite. Ad esempio, per alcune industrie informatiche avere delocalizzato l’intera produzione in Cina, ai giorni nostri potrebbe non rivelarsi una scelta del tutto azzeccata alla luce del Covid, della guerra e delle politiche intraprese dall’amministrazione Biden. Il ruolo della finanza speculativa nel fallimento di molte aziende se non proprio ignoto è sicuramente poco indagato, eppure il crollo di alcuni titoli è stato determinante per decretare prima la crisi e poi la chiusura di queste imprese. Il fallimento della Yellow, che si occupa da quasi un secolo del trasporto su gomma, una azienda con circa 30 mila dipendenti, è forse anche il risultato dei rincari energetici ma suona come campanello di allarme per il capitalismo Usa.
Il crack di aziende con migliaia di dipendenti che nell’arco di poche settimane perdono il posto (e a seguire la casa per morosità incolpevole) non fa notizia negli Usa. Nei primi sei mesi del 2023 sono oltre 400 le imprese ad avere chiuso i battenti, coinvolgendo nel fallimento migliaia di lavoratori e lavoratrici, molti dei quali non troveranno collocazione alcuna in un mercato del lavoro sempre più problematico. L’aumento del costo del denaro, e dei tassi di interesse, gioca un ruolo dirimente in questa nuova crisi. Le aziende erano sorrette da prestiti e linee di mutuo a tassi poco superiori allo zero, oggi invece, aumentando il costo del denaro, non riescono a onorare il debito contratto con banche e istituti finanziari assai attenti a rivendicare il pagamento del debito, in quanto si trovano esposte oltre ai livelli di guardia. I fallimenti aziendali, esplosi da mesi negli USA, sono già arrivati a farsi sentire nell’ Unione Europea, e quindi anche nel nostro stesso paese.
In Italia abbiamo 54 mila casi di aziende in liquidazione con una crescita dei fallimenti in percentuale sopra il 4%, più numerosi perfino del 2019. Allora molte aziende furono salvate dal fallimento direttamente dallo Stato con aiuti fiscali, ammortizzatori sociali, moratorie e bonus di varia natura. L’aumento considerevole dei fallimenti è considerato una sorta di conseguenza naturale, o meccanica, dei tassi di interesse, eppure sono state proprio le spirali speculative scatenate dalla Guerra a determinare l’incertezza nei mercati. Al contempo sarebbe utile conoscere quali aziende abbiano portato i libri in tribunale, per scoprire tra i fallimenti anche quelli di imprese innovative e competitive alle prese con gli insostenibili rincari dei costi energetici e della materie prime e in evidente difficoltà nell’acquisire linee creditizie dalle banche e di restituire i finanziamenti in tempi accettabili e a costi ridotti. È questa l’ennesima dimostrazione del rapporto stretto tra guerra, speculazione finanziaria e monetaria e crisi economica. Anche sul ruolo della finanza rischiamo di ripetere luoghi comuni, pur essendo indubbio che la proprietà di aziende detenuta dai fondi di investimento ha spesso comportato scelte nefaste per l’occupazione, con chiusure rapide di siti produttivi per soddisfare l’andamento delle azioni in Borsa. E il ruolo della finanza in Italia, dopo la decisione di tassare – in misura assai lieve e inadeguata come scopriremo a breve – gli extraprofitti, sta suscitando la reazione di intellettuali e opinionisti a sinistra, ma anche del centrodestra, assai critici ciò che è considerato sorta di intromissione del Governo e del potere politico nelle attività finanziarie. E a lanciare il dardo è un un ex ministro come Flick, poco avvezzo a uscite pubbliche ma assai attento a rivendicare l’autonomia delle Banche, contestando in punta di diritto il principio stesso che sorregge la pur esigua tassazione dei profitti. Immaginiamoci allora negli Usa, capitale della speculazione finanziaria, quali potranno essere i giochi e gli interessi in campo. Per gli analisti mainstream saremmo in presenza di una crisi annunciata: imprese deboli e sorrette dal prestito di denaro da parte delle Banche, incapaci di innovarsi e per questo destinate al crollo. Una lettura fin troppo semplicistica perché una buona parte delle aziende è stata sovvenzionata da aiuti statali e dalla certezza di linee di credito agevolate da parte delle Banche.
La ripresa dell’economia Usa, dopo il crollo del 2009, si è basata su un nuovo ciclo di indebitamento. La crescita del costo del denaro determina una fattore di crisi irreversibile, soprattutto per le aziende che operano in settori oggi perdenti nella sfida capitalistica globale o per quelle crollate a causa di azzardate scommesse finanziarie destinate ad abbattere il valore delle loro azioni in borsa. L’impennata del costo dei carburanti, l’aumento del tasso di interesse sono dunque le cause della crisi ma un ruolo determinante viene giocato ancora una volta dai processi speculativi della finanza. Negli Usa il debito accumulato dalle carte di credito dei consumatori ha avuto una impennata da tenere sotto controllo. Nel recente passato l’indebitamento dei consumatori ha rappresentato un fattore non solo speculativo ma di crescita dell’economia basata sul debito, e tuttavia alla lunga i nodi vengono al pettine: non si possono tenere bassi i salari e pensare di vendere ugualmente il prodotto grazie all’indebitamento. Alcuni provvedimenti a favore delle imprese da parte dell’Amministrazione Trump sono state in parte riviste o eliminate da Biden che ha preferito indirizzare gli aiuti statali verso aziende impegnate in settori green, imprese sulle quali scommettere per i processi di ristrutturazione indispensabili ai processi di ristrutturazione capitalista dei prossimi anni. Un elemento importante viene giocato dalla crisi sociale e dalla ripresa degli scioperi negli Stati Uniti. Nell’anno corrente le ore di sciopero sono state assai superiori a quelle degli ultimi anni e riguardano innumerevoli settori produttivi, in un paese in cui il numero di iscritti al sindacato è tra i più bassi dei paesi a capitalismo avanzato: meno del 30 per cento nel comparto pubblico e attorno al 6% della forza lavoro in quello privato. Sempre negli Usa il crollo del potere di acquisto dei salari non riguarda solo le mansioni meno qualificate ma anche professionalità fino a un anno fa ricercate e in buona salute. Il sostegno del sindacato americano è stato spesso determinante per la vittoria alle elezioni presidenziali. Dubitiamo che abbia oggi la stessa rilevanza del passato ma il malessere sociale, i bassi salari, i mutui non pagati per il riscatto delle case – e la conseguente espropriazione del bene per insolvenza – , i licenziamenti selvaggi in alcuni settori e le condizioni imposte alla forza lavoro in altri, determinano un cambiamento importante degli scenari e la pur debole e frammentata forza d’urto della classe lavoratrice Usa potrà giocare un ruolo importante nei prossimi mesi. Tra gli scioperi che agitano gli Usa non poteva mancare il settore della meccanica. Il sindacato Uaw ha rifiutato l’offerta di un nuovo accordo da parte di Stellantis usando parole di fuoco contro la proposta della multinazionale Franco Italiana. Il 24 agosto si terrà un referendum tra gli iscritti al sindacato per decidere un pacchetto di scioperi che potrebbe bloccare la produzione industriale di Detroit investendo anche gli stabilimenti Ford e General Motors. Le richieste sindacali meritano attenzione perché al loro cospetto le rivendicazioni dei sindacati italiani sono a dir poco ridicole. Si parla di aumenti del 46% nei prossimi 4 anni, di cui il 20 per cento subito, e di riduzione della settimana lavorativa. Accanto a queste rivendicazioni ci sono anche la richiesta di estendere gli aumenti salariali a tutto l’indotto e di finanziare una spesa sanitaria maggiore, al passo con l’inflazione. Le multinazionali hanno già respinto queste rivendicazioni giudicandole improponibili e tali, qualora venissero accolte, da vanificare gli investimenti per l’auto elettrica che rappresenta un obiettivo strategico per i prossimi anni. L’esito della protesta potrebbe avere effetti benevoli per la classe operaia Usa soprattutto in aziende come Tesla, dove l’ingresso dei sindacati è stato storicamente avversato. Da qui possiamo ipotizzare qualche decisione della presidenza Biden mirante a contenere la crisi sociale e l’impennata di scioperi e proteste. Allo stesso tempo il fallimento di tante aziende non sarà un elemento secondario, con i dati economici statunitensi in continua evoluzione. Forse non sarà sufficiente il ricorso alla guerra e la costante minaccia alla Cina e all’alleato europeo a far dormire sonni tranquilli a una nazione che oggi vive enormi contraddizioni derivanti dai processi di ristrutturazione capitalistica. Quella nazione che per anni ha accresciuto il proprio Pil con irrisori tassi di interesse atti a favorire l’indebitamento delle imprese ma al contempo indispensabili alla tenuta temporanea della sua economia. Una nazione alle prese con un diffuso malessere sociale derivante dalle ripetute crisi sanitarie , economiche e sociali susseguitesi negli ultimi lustri. Forse è proprio la finanza speculativa ad avere giocato un ruolo invisibile ma dirimente nel far esplodere le prime grandi contraddizioni. Successivamente la ripresa dell’inflazione e l’aumento dei tassi di interesse sono stati una novità assoluta, e in termini negativi, nella nazione imperialista per eccellenza, abituata a imporre regole finanziarie ad altri paesi e a esentarsi per prima dal rispetto delle stesse. Questi elementi appena evidenziati hanno prodotto il rallentamento della macchina statunitense e rappresentano un fattore di indubbia crisi per l’economia. Tutto da dimostrare che si tratti di crisi passeggera, per quanto resti meno aggressiva al cospetto di alcune nazioni europee. Il numero delle aziende fallite, l’aumento dell’inflazione e del tasso di interesse non potranno essere più ignorati o men che mai giudicati come una sorta di raffreddore passeggero, soprattutto a ridosso dell’inizio di una campagna elettorale per le Presidenziali che si annuncia assai problematica.
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