Se il Presidente della Repubblica è costretto a fare il controcanto nei confronti dell’azione di governo, richiamando più e più volte la distanza che c’è tra quello che avviene agli alti livelli istituzionali e i valori fondamentali della Carta costituzionale, non è Quirinale ad avere un problema ma Palazzo Chigi.
Il fallimento completo di questo governo delle destre estreme è nel progressivo e costante scostamento proprio dai princìpi che la Costituzione esige siano la bussola per tracciare la rotta di una politica che si uniformi ad una soldiarietà sociale su cui trovi pieno sviluppo e sostanziazione l’integrazione etica, civile e culturale per chiunque viva in Italia.
La modernità delle clausole della Carta del 1948 è evidente nella contraddittorietà che suscita nelle forze più reazionarie e conservatrici. Proprio quelle che oggi siedono al tavolo del governo della Repubblica. Non è soltanto una dicotomia che prende piede nella dialettica degli opposti, il che potrebbe persino avere un senso se si parla di confronto fra impostazioni programmatiche di partiti molto differenti fra loro o, se proprio vogliamo, nella tanto celebrata alternanza delle alleanze.
E’ prima di tutto una separazione netta ed evidente tra un’etica-politica e sociale che è nata da una condivisione larga su temi davvero grandi che, su quel finire degli anni ’40 del Novecento, appena terminata la Seconda guerra mondiale e caduto il nazifascismo, hanno rappresentato il nuovo patto che nasceva sulle macerie di uno Stato solcato prima dal colonialismo sabaudo del Sud, poi dal liberalismo, dal colonialismo estero dai primi tratti imperialisti e, infine, dal ventennio mussoliniano.
La Repubblica Italiana, quindi, è il fenomeno evidente, plastico e incensurabile di una nuova nazione, di una Italia che, non soltanto la cultura comunitaria, sociale e socialista della sinistra progressista, è rinata con una democrazia dove non c’era più spazio per la sopraffazione, per la completa alienazione dell’individuo nel nome dell’egocentricità di un potere totalitario e pervasivo di ogni ambito della vita quotidiana.
Oggi, con l’era del governo Meloni, giorno dopo giorno pare di assistere ad uno smantellamento di una serie di valori condivisi, per lo meno dalla stragrande maggioranza della popolazione, pur nell’avvicendarsi delle generazioni, rimasti nel solco non di una mera e semplicistica tradizione, bensì divenuti parte rilevante della cultura sociale, collettiva ed individuale di quello che chiamiamo “il Paese” con la pi maiuscola.
Facciamo un sommario elenco di tutto quello che le destre tentano di capovolgere sul piano della morale, del sentimento, dell’empatia, della condivisione sociale, della lettura propriamente culturale tramite le lenti di un soggettivismo ispirato da una contronarrazione che viene spacciata come libertà di pensiero e che, invece, sempre di più somiglia ad un revisionismo dalle molteplici sfaccettature.
Primo: vanno considerati anzitutto i mutamenti antropologici che riguardano proprio le reazioni degli italiani davanti ai nuovi problemi di carattere tanto nazionale quanto europeo e globale che si fanno avanti con una certa prepotenza nella veloce mutevolezza delle relazioni tra gli Stati, tra i popoli, sotto il peso dell’altrettanto repentino mutamento delle condizioni economiche su vaste aree del pianeta.
La questione migrante rientra in questo settore, in questa tranche di rivoluzioni moderne di cui si avverte tutta la portata quando i numeri si fanno enormi, quando ci si rende conto che non si può fermare le ondate di disperati della Terra che emigrano con grandi paroloni che inneggiano ai blocchi marittimi, ai cannoneggiamenti delle navi, ai muri, ai fili spinati, ai recinti, alle fortezze europee, alla preservazione dei confini nell’intento di preservare la purezza di quella razza italica che le destre non nomino (a parte qualche voce fuggita dal sen di qualche sprovvedutissimo ministro) ma che è la mefitica ombra che aleggia intorno a Palazzo Chigi.
Secondo: la sicurezza o, per meglio dire, il securitarismo. E’ una declinazione modernamente barbarica di un istinto repressivo che risiede nel culturale della destra di tutti i tempi. Il ricorso alla repressione come nuovo valore esprimibile nella doppia valenza di tutela dei cittadini e di ripristino della legalità su tutto e su tutti.
Se si trattasse veramente di garantire l’intangibilità delle libertà di ciascuno e di tutti, la prima cosa da fare, guardando alla Costituzione, dovrebbe essere eradicare quelle che sono le cause primarie che generano il disagio sociale da cui, è abbastanza “storicizzato” questo rapporto di causa-effetto, prendono spunto le organizzazioni criminali maggiori per arruolare intere generazioni di ragazze e di ragazzi nell’arcipelago stagnante di una malavita che conduce a cascata ad una diffusione dell’incertezza come stato rigenerante di una precarietà vasta, incontrollabile.
A questo si lega l’altro fenomeno inquietante: quello della scissione tra individuo e cittadino, quindi tra vita e scuola, tra esistenza e sapere; mafia, camorra, ‘ndrangheta hanno saputo, in tanti decenni di crescita economica, approfittare dei rapporti con la politica corrotta e corruttibile, riuscendo a smitizzare l’importanza dell’onestà individuale in uno Stato mostrato e dimostrato come la quinta essenza dell’ipocrisia e del mancato: dalle promesse elettorali al logoramento di intere comunità locali che sono state abbandonate ad una inazione figlia della precarietà e dell’invisibilità del futuro.
E’ stata questa, dunque, la sicurezza che le destre (e non solo loro, ma loro principalmente…) hanno inteso garantire all’Italia che, a partire dalla tragicamente risibile ascesa del berlusconismo, si è separata da sé stessa, allontanata da uno sviluppo condiviso tra Nord e Sud, lacerata e consunta, marcita sotto il sole oscuro di una ingovernabilità creata ad arte per permettere la gestione del potere mafioso e di quello camorristico?
Terzo: il lavoro. La precarietà non è solamente un tratto distintivo del falso mito della sostenibilità tra profitto e salario, di un equilibrio tra capitale e lavoro in un contesto di suprematismo liberista a tutto tondo. E’, come è facile accorgersi accostando i fenomeni migratori a quelli della sicurezza, una parte del problema dell’instabilità, dell’invivibilità della vita, della sopravvivenza che si è venuta sostituendo alla godibilità di una serie di diritti che, a partire dalla fondazione della Repubblica, si erano cumulati attraverso le lotte operaie, studentesche e femministe.
Il mondo del lavoro oggi è sulla difensiva, dentro la retrocessione globale di una inadeguatezza del capitalismo alle grandi sfide moderne del mantenimento dell’attuale popolazione mondiale su un pianeta sempre più povero di risorse, sempre più inquinato, vilipeso, violentato fin dentro gli habitat più preservati fino a poco tempo fa e, comunque, ostili alla specie umana.
Il lavoro è su una posizione difensiva per la mancanza di una vera e propria coscienza di classe; il che non vuol dire che tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori debbano aver riletto Marx ed Engels, oppure Gramsci per essere consapevoli del loro livello di ipersfruttamento attuale. Vuol dire semmai che anche il ruolo delle associazioni sindacali e di quel “paese nel paese” che Pasolini richiamava a proposito della cultura solidale, fraterna e comunitarista ispirata dal PCI e dalle sue “cinghie di trasmissione“, è stato surclassato dalla logica individualista, egoistica e rampatista del liberismo.
Migliore interprete di questo vincitore globale sulle istanze sociali che, nonostante tutto, esistono e provano a resistere alla preponderanza del capitale sul lavoro, in Italia è certamente stato il governo di Mario Draghi. Formalmente devoto all’istituzionalismo non imbolsito dalla volgarità delle propagande politico-partitiche degli opposti, aderente ad una pacata traghettatura tecnicistica dalla fase pandemica alla nuova fase della presunta “normalità“, il governo dell’ex presidente della BCE ha gettato le basi per una ricrescita tutta liberista.
Il biasimo che questo potesse avvenire aumentando i salari è scolpito nella contrarietà ad una espansione del potere di acquisto degli stessi: il punto di vista era, è e dovrà essere quello delle imprese e, pertanto, nessun diritto rinvigorito ma nemmeno nessun reddito di cittadinanza abolito. Un buon banchiere sa dove si trova il punto di caduta di un minimo comune denominatore di una pace sociale mai invocata ma nemmeno mai smentita.
Invece il governo Meloni deve fare di più, deve intervenire con più vigore nella crociata contro il lavoro dipendente, perché da un lato ha l’obbligo di mantenere degli impegni elettorali che non può completamente disattendere; dall’altro fa fronte ad una serie di compatibilità di sistema che premono (per una volta non Confindustria) per riguadagnare al bilancio dello Stato una serie di miliardi che andranno investiti nella direzione del privato, della decontribuzione aziendale e che non possono – ovvio! – essere sottratti alla duplicazione del bilancio riguardante le spese militari.
Dunque, non solo il lavoro classicamente inteso è sulla difensiva, ma lo sono anche tutte le attività sociali che vi sono collegate direttamente e indirettamente: la scuola, le pensioni, la sanità, la cura dei territori, la prossimità di tutta una serie di diritti anche civili che sono, a questo proposito, sotto il fuoco di fila delle batterie pregiudizievoli e preconcette della primitiva concezione delle destre sulle differenze di pelle, di genere, di religione, di provenienza.
Quarto. Ultimo ma non ultimo tra i punti trattati: la pace. L’elenco del sovvertimento della moralità, del civismo, della cultura e della considerazione dei tanti tasselli di socialità, che un tempo componevano il quadro della solidarietà condivisa, di un interclassismo che si fermava al limite della coscienza di classe, nella comunanza di lotte tra operai, studenti, colletti bianchi e ceto medio, ma non pensava certo di reputare possibile una equipollenza tra padronato e maestranze, è lungo.
Riguarda anche il ruolo dell’Italia nel contesto internazionale e, siccome ci troviamo immersi fino ed oltre il collo in una economia di guerra, la questione della pace diventa fondante di una nuova stagione di una politica che non può più consentirsi balbettii e tentennamenti sull’internità alla NATO in tutto e per tutto, sull’invio degli armamenti all’Ucraina, sulla prosecuzione della guerra in Europa (ed in tanti altri teatri osceni del mondo).
Se oggi le destre si possono permettere di affermare che la democrazia si difende con le armi, è possibile grazie ad una letterale globalizzazione di questo concetto: il tentativo di mantenere l’unipolarità mondiale imperniata sugli interessi esclusivi degli Stati Uniti d’America ha portato ad una corsa frenetica ad uno sviluppismo al contrario. Non riguardante il benessere di miliardi di persone, ma l’acquisto del debito estero, l’ingrossamento dei grandi capitali da parte di poli emergenti come la Cina, centro di una sovrapproduzione tale di merci da invadere commercialmente tutto il pianeta.
La contesa mondiale è, dunque, inclusivissima: non tratta nessuno col riguardo tutto etico della benevolenza verso i vinti. Più si è a terra e più il capitalismo infierisce. Le controriforme che depredano i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori anche in Italia ne sono la più facile ed evidente dimostrazione.
L’attacco è su vasta scala, interessa il numero più ampio possibile di forza-lavoro e, per questo, non si dirige verso chi detiene la maggior parte delle ricchezze e dei privilegi. La fine dell’unipolarismo è già cominciata e l’Italia si trova in una Europa che è una dependance di uno di questi poli: quello nord-atlantico, quello, per meglio definirlo, “occidentale“. La recessione dell’economia tedesca – strillano allarmati i quotidiani della borghesia moderna – è un avvisaglia della crisi che potrebbe colpire l’intera UE.
La guerra inizia ad essere vissuta dai governi e dai poteri che li sostengono come un accidente. Sul breve periodo può far guadagnare, sul medio periodo inizia a creare problemi, se si allunga ulteriormente diviene una grana, un problema serio cui fare fronte. Le profferte di Zelens’kyj sulla Crimea, su una soluzione politico-diplomatica con la Russia, ci dicono proprio questo: l’Alleanza atlantica non sa come venire fuori dal ginepraio in cui si è cacciata. E gli Stati Uniti, che tra un anno devono affrontare le elezioni presidenziali, meno che meno.
L’Italia della pace dovrebbe fare una bandiera di libertà democratica, di recupero di quella cultura della solidarietà di cui si è trattato in queste righe. Invece, data per scontata la posizione iperinterventista delle destre di governo, le forze progressiste tentennano, incerte sul da farsi: temono di perdere il sostegno di quella parte moderata di elettorato che le sostiene anche per i rapporti con un atlantismo che, da sempre, è l’altra faccia della medaglia dell’economia liberal-liberista.
E questo voler piacere un po’ a tutti è il dramma penultimo della sinistra moderata in Italia. Quella che si è confusa col centro, con una cultura del compromesso tra le classi, della subordinazione del lavoro all’impresa, di fatto reso variabile dipendente delle oscillazioni mercatiste e borsistiche. La pace viene descritta come un discrimine, in senso negativo. Invece dovrebbe esserlo in senso letteralmente e solamente positivo.
Chi cerca la pace, senza se e senza ma, cerca anche migliori condizioni di vita sociale, una ricomposizione dei diritti tutti senza distinzione, perché individua nella condivisione dei problemi moderni la chiave di volta per unire e non per dividere, per armonizzare i rapporti e non per stigmatizzare le differenze. Migranti, sicurezza, lavoro e pace si interconnettono e aprono il capitolo ad un quinto, titanico problema che ci coinvolge e ci sconvolge: il clima, l’ambiente, il modo in cui trattiamo la natura, gli altri esseri viventi che consideriamo subordinati in tutto e per tutto a noi animali umani.
A continuare, non finiremmo più. Ma questo ci dice che una vera sinistra deve considerare quanto meno queste opzioni strutturali e legate fra loro se vuole davvero riproporre una rivoluzione che sia il capovolgimento del presente e l’incontrovertibilità di un futuro del tutto nuovo. Senza questi presupposti, senza questa che potete chiamare tranquillamente “radicalità“, “estremismo” o nuovo comunismo, non ci sarà nessuna nuova società, nessun rispetto della Costituzione, dell’individuo, del cittadino, della vita di per sé e in sé.
MARCO SFERINI