I sistemi di protezione sociale si sono dimostrati inadeguati. La precarietà del lavoro, le politiche e la cultura liberiste e gli errori dei sindacati confederali hanno determinato tutto ciò. È necessario un nuovo sistema di protezione sociale finanziato dai datori di lavoro e dallo Stato, non dai contratti.
di Federico Giusti 24/08/2023 Economia e Lavoro
Gli ammortizzatori sociali, e più in generale i sistemi di protezione sociale, si sono dimostrati insufficienti non solo con la pandemia, avendo già palesato innumerevoli limiti negli anni neoliberisti, quando la stabilità del lavoro è divenuta insostenibile nella nuova fase di accumulazione che ha visto prevalere, nettamente, la quota di ricchezza indirizzata ai profitti a mero discapito di quella ai salari e al welfare.
Detto in altri termini possiamo anche asserire che, entrando in crisi il contratto full time e a tempo indeterminato, si sono susseguiti innumerevoli contratti precari e tra vuoti della contribuzione, insufficienti contributi versati, la coperta si è dimostrata troppo corta.
Non è tanto la nuova organizzazione del lavoro la causa scatenante. Il periodo fordista della piena occupazione è ormai un lontano ricordo; l’avvento della precarietà diffusa è l’altra faccia della medaglia che vede la ricchezza prodotta destinata a speculazioni finanziarie e a lauti dividendi tra gli azionisti in borsa. Ecco spiegato perché parliamo di ricchezza destinata ai profitti e non al lavoro e al welfare.
Questa premessa si rende necessaria dacché negli ultimi tempi in varie sedi, accademiche, sindacali e governative, si è sviluppato un dibattito acceso sugli ammortizzatori sociali e sull’inadeguatezza del welfare.
Un primo ragionamento scaturisce dall’evidenza della speculazione finanziaria imperante, dalla crisi determinata dalla guerra e dai prezzi dei generi di prima necessità fuori controllo, ma anche dalle dinamiche inflazionistiche affrontate impropriamente, come nel caso dall’aumento del costo del denaro che ha provocato fallimenti a catena di aziende negli Usa e nei paesi dell’Unione Europea. Aggiungiamo che in prospettiva futura, diminuendo i versamenti dei contributi, anche il sistema di protezione sociale potrebbe entrare in crisi per carenza di liquidità, spingendo lo Stato verso nuovi e massicci interventi.
Si pensa, con fin troppa superficialità, che lo stato di disoccupazione derivi oggi da una scelta volontaria rispetto all’epoca fordista e si dimentica che il potere d’acquisto degli anni successivi alla seconda guerra mondiale sia andato crescendo progressivamente, mentre da 40 anni a questa parte risulta in continua erosione. Se un tempo, lavorando con contratto a tempo indeterminato, eri certo di non piombare nella povertà, oggi questa certezza non esiste più.
I riferimenti al fordismo non tengono conto delle famiglie monoreddito. Le donne stavano a casa accudendo figli ed anziani; oggi una famiglia media con due redditi da lavoro arriva allo stesso potere d’acquisto del nucleo di un tempo con il solo stipendio dell’uomo.
Se le donne hanno un impiego e devono sobbarcarsi, senza retribuzione alcuna e senza gli aiuti previdenziali di un tempo, anche parte del lavoro di cura, senza dubbio i servizi sociali offerti (dal doposcuola agli asili nido o ai servizi per la terza età) risulteranno insufficienti per i reali bisogni familiari e sociali.
Precarietà lavorativa da una parte e insufficienza del welfare stanno palesando criticità innumerevoli con le quali fare i conti. Da qui deriva la necessità di un nuovo sistema di protezione sociale che proprio i datori dovrebbero finanziare, insieme allo Stato, datori destinatari invece di trattamenti agevolati a livello fiscale e contributivo.
La soluzione del problema potrebbe essere quella di far pagare maggiori tasse ai redditi elevati, accentuando la progressività del sistema fiscale e istituendo un numero maggiore di aliquote, soluzione avversata invece da quella sorta di santa alleanza contro le tasse che accomuna datori e parti sociali.
Chi pensa alla società dei servizi, subentrata a quella industriale, come causa del problema, forse non tiene conto del fatturato di tante aziende e multinazionali, dei dividendi tra gli azionisti, dei processi speculativi che portano fondi di investimento pensionistici del Nord America ad acquistare e liquidare in pochi anni o mesi imprese e siti produttivi.
La transizione ecologica, come ogni processo di grande cambiamento produttivo, avrà ulteriori ripercussioni occupazionali tanto che una fabbrica meccanica elettrica, a pieno regime, potrebbe rinunciare a oltre la metà della forza lavoro attualmente impiegata negli stabilimenti meccanici produttori di vetture a gas e a benzina.
Allo stesso tempo potremmo chiederci se ai lavori scomparsi ne subentreranno di nuovi, con quale inquadramento contrattuale e salario, ma dovremmo avere la sfera di cristallo e il ragionamento non sarebbe supportato da dati oggettivi cadendo invece nel mero chiacchericcio.
Possiamo invece individuare le tendenze di medio e lungo periodo, pensando a una nuova filiera produttiva derivante dai processi di riconversione ecologica, con l’inesorabile perdita di tanti posti di lavoro e magari il crollo di alcuni paesi a discapito di altri. Il lettore ricorderà quanto veniva insegnato a scuola sulla scoperta dell’America di Colombo: i traffici si spostarono dal Mediterraneo agli Oceani, alcune nazioni allora forti imboccarono la strada della decadenza, altri Stati invece attrezzati alla nuova sfida ebbero il vento in poppa. Qualcosa del genere potrebbe avvenire anche con la trasformazione energetica
Intravediamo ancora oggi, dopo i fallimenti degli ultimi anni, una tendenza specificamente neo liberista che si immagina una sorta di equilibrio spontaneo nei livelli occupazionali e salariali determinato dal mercato, teorie rivelatesi fallimentari soprattutto in tempi di crisi (ad esempio con la pandemia) quando l’intervento statale ha salvato dalla bancarotta aziende e dalla miseria nera molte famiglie.
E poi la disoccupazione non diventa un episodio occasionale nella vita di uomini e donne. Si diventa poveri se restiamo senza lavoro ma anche vivendo con contratti stabili e mal pagati.
Se oggi esiste la morosità incolpevole per quanti non riescono a pagare mutui e affitti onerosi, ancora più diffusa è la condizione del lavoratore indebitato e impoverito suo malgrado. Se gran parte degli occupabili privati del reddito non riescono a trovare collocazione nel mondo lavorativo, non resta alla classe dominante che attaccare a testa bassa i “perditempo” e “vagabondi” di turno con una sorta di gogna mediatica dimostratasi l’ultima arma vincente per occultare i danni del libero mercato e dei principi autoregolatori dello stesso.
Anche la società del merito, la meritocrazia in generale, i peana alla flessibilità, sono armi ideologiche atte a salvaguardare o a giustificare le crescenti disuguaglianze economiche e sociali lasciando indisturbati il grande capitale e i processi di accumulazione.
L’attacco allo Statuto dei lavoratori, avvenuto a partire da una quindicina di anni fa, arrivava da governi a guida Pd, appiattiti sull’idea, diffusa in ogni paese, che la rigidità salariale fosse causa della contrazione della domanda occupazionale, cosa peraltro smentita da seri studi in materia e dall’evidenza dei fatti.
Abbiamo infatti scoperto a nostre spese quanto sia stata fallimentare questa interpretazione della realtà. I capitali in concreto rivendicavano allora, e ancora oggi, la massima flessibilità salariale e contrattuale pensando al contempo di stravolgere il vecchio welfare (ricorderete la massima di dare ai giovani risorse e opportunità egoisticamente destinate ai vecchi attraverso le pensioni). I risultati sono a tutti noti: precarietà e flessibilità lavorativa, disoccupazione, salari ridotti e un welfare inadeguato.
Lo sviluppo della sanità e della previdenza integrative e la contrazione salariale sono figli e prodotti di queste teorie tanto care ai neoliberisti vecchi e nuovi, così come neoliberiste erano le teorie fiscali della tassa piatta oggi in auge.
Il dibattito esistente sul sistema di protezione sociale è ancorato a un’idea errata del lavoro. Pensare a una vita lavorativa fatta di alternanza fra impieghi subordinati e autonomi non ci pare una prospettiva valida e comunque elude la questione del potere d’acquisto dei salari. Si evita insomma di affrontare alcuni nodi salienti: potere di acquisto e di contrattazione, previdenza pubblica ed età pensionabile, gestione pubblica dei servizi e stabilità retributiva e occupazionale. Le protezioni sociali non vengono fatte derivare dalla tutela del potere d’acquisto, non si guarda alla sfera produttiva, ma si pensa di trovare soluzione e compromesso in quella distributiva pensando alla fine all’intervento pubblico e statale
Oggi gli interventi di protezione della forza-lavoro riguardano le politiche sociali, di redistribuzione del reddito, di contrasto alla povertà, alla disoccupazione, di job guarantee.
E a proposito di job guarantee è bene ricordare l’entusiasmo ingiustificato della Cgil. L’idea in sé non sarebbe sbagliata. Un intervento pubblico per incentivare il lavoro è sempre una buona scelta ma non vediamo all’orizzonte una leva di lavori socialmente utili o una sorta di nuovo collocamento pubblico con le politiche attive gestite direttamente dagli enti locali. Non esiste critica al sistema degli appalti e delle cooperative pensando invece sia sufficiente scongiurare i contratti pirata (quando quelli concertativi del settore prevedono paghe inferiori ai 9 euro orari). È proprio il ruolo del pubblico nella sanità e nell’istruzione a fare dei passi indietro. Quindi se l’obiettivo resta condivisibile non lo sono invece i percorsi individuati e le scelte politiche intraprese.
Se pensi all’intervento pubblico nell’economia dovresti al contempo spiegare la ragione per la quale offri, contestualmente all’iscrizione al sindacato, una assicurazione privata o sostieni il silenzio-assenso per dirottare verso la previdenza e la sanità integrative il trattamento di fine rapporto dei lavoratori e delle lavoratrici. Se ipotizzi un nuovo e vasto intervento pubblico sul lavoro difficilmente potrai sottoscrivere accordi nazionali e locali a vantaggio dell’interinale pensando di salvaguardare la previdenza pubblica con quella dei fondi legati ai comparti.
Il problema è ben altro allora. Mentre parli di intervento pubblico cedi alle lusinghe dei processi di privatizzazione e lo fai su materie rilevanti come la sanità e la previdenza.
In questo modo, alla riflessione indispensabile sui sistemi di protezione sociale subentra la chiacchiera sopra menzionata: puoi dire tutto e il contrario di tutto senza mai pagare il conto di una arrendevole politica sociale ed economica, di quell’antica incoerenza tra le asserzioni di principio e la prassi quotidiana, pensando alla fine che pagando meno tasse sul lavoro si crei nuova occupazione.
Se così fosse stato oggi avremmo decine di migliaia di posti in più e i contratti sarebbero all’insegna della stabilità; avremmo recuperato potere di acquisto e di contrattazione. Invece la realtà è ben altra.
Riferimenti: Per un approfondimento sul sistema di protezione sociale si rinvia al rapporto dell’INAPP a cura di Massimo De Minicis, Evoluzione dei regimi di protezione sociale dei lavoratori alla prova della crisi pandemica – Bollettino Adapt.