L’arroganza del potere è quella idiosincrasia che prende forma e si sostanzia nel momento in cui l’ingestibilità delle contraddizioni che vengono a galla è tanto più evidente per un governo quanto per la popolazione stessa che le subisce. L’avvisaglia primordiale è l’impossibilità di una reductio ad unum, di una estrema sintesi dei tanti interessi che le classi dirigenti intendono sostenere come fonte e garanzia di “ricchezza della nazione” pur rappresentando nemmeno l’1% della stessa in termini di composizione sociale. Il governo Meloni è in questa situazione. Non nuova, ovvio.
Diciamo che potrebbe essere una costante dell’attività di un esecutivo, se non fosse che alcuni presidenti del Consiglio sono riusciti ad evitare di scadere nella cecità dell’arroganza preventiva con artifizi che, suggeriti da pregresse esperienze di amministrazione ora amministrativa, ora bancaria, sono apparsi agli occhi della gente come un’emergenza da superare con leggi e regolamenti del tutto speciali, con un richiamo all’”unità nazionale” intesa come collaborazionismo alla soddisfazione delle esigenze del mercato e del capitale.
Il governo Meloni, per quanto si possa esercitare in questa pratica, essendo dal punto di vista tecnico un esecutivo di vero basso, bassissimo livello, e non compensando nemmeno questa lacuna con una altezza politica degna di sorta, sta mettendo a punto una manovra di bilancio che è la quinta essenza della contrapposizione di classe: il lavoro viene trattato come una subordinata della flessibilità, della precarietà e del riversamento della crisi economica esclusivamente sui ceti più fragili e deboli.
La sanità viene abbandonata a sé stessa, senza la previsione di alcun implemento per il sostegno tanto delle strutture ospedaliere, delle cure più semplici quanto di quelle più complesse, della medicina di base e di prossimità, quanto senza un dovuto apporto di recupero e di rilancio nella ricerca medica, nell’applicazione scientifica.
E’ davvero inutile rifarsi oggi alle grandi promesse di maggiori investimenti sul piano della salute pubblica fatte al tempo della grande paura della Covid-19. Passata la pandemia, gabbati giovani universitari, ricercatori, medici e scienziati.
Invece che sostenere le pietre angolari di uno stato-sociale su cui un tempo si era iniziata a costruire una democrazia veramente reale e concreta, i governi precedenti e quello attuale nella sua peggiore dimostrazione di conservatorismo reazionario e di piena dedizione ai disvalori del liberismo, si sono prodigati nell’indirizzare le risorse del PNRR verso le imprese e nulla hanno messo a disposizione del recupero del territorio, della riqualificazione dei quartieri, delle periferie degradate, della rimessa in ordine delle infrastrutture fondamentali.
L’Italia, se osservata giorno per giorno, si trova ormai circondata da un degrado strutturale che è, anzitutto, sociale ma che riverbera anche nei risvolti meno evidenti di una comunità nazionale formata da tanti disagi locali che, seppure diversi fra loro per entità e per ragioni prettamente economiche, sono oggi il manifesto più avvilente di una povertà diffusa, crescente che avrebbe meritato ben altri interventi rispetto alla carta “Dedicata a te“.
L’abolizione del Reddito di cittadinanza è il prezzo pagato all’Europa, alla logica dell’alzamento dei tassi di interesse da parte della BCE. Persino Confindustria si era espressa a favore di una rivalutazione – seppure minimissima – dei salari. Per il governo è escluso. Nessuna ipotesi di riforma del mercato del lavoro passa dall’aumento concreto della busta paga e nemmeno del potere di acquisto dei salari stessi attraverso misure di riduzione inflazionistica che siano sostenute, ad esempio, da una tassazione fortemente progressiva sui profitti e sugli extraprofitti.
Tertulliano, riferendosi ben ad altro, asseriva: «Credo quia absurdum», ci credo proprio perché è assurdo. Ed anche a noi tocca credere alle assurdità, perché sono irragionevolmente ma molto liberisticamente reali.
La tendenza non solo più esclusivamente tedesca, ma ormai di cortissimo respiro delle politiche economiche continentali, è quella di una contrazione delle produzioni, di un rallentamento della crescita nella cosiddetta “Eurozona“.
In meno di un mese, quindi nel rapporto tra luglio ed agosto del presente anno, l’indice della produzione composita, calcolato da eminenti istituti di controllo delle fasi oscillanti delle borse nazionali e di quelle degli altri poli del capitalismo mondiale, è sceso di oltre due punti.
Le relazioni che, a questo proposito, redigono questi stessi istituti (S&P Global tra gli altri), segnalano che, se si esclude il biennio pandemico, l’attività delle aziende è crollata ai minimi già dal marzo scorso. Un declino inesorabile, che dura da tre anni, e che investe i settori della manifattura e dei servizi. Si tratta di una serie di dati che rivelano la fragilità di un liberismo prossimo ad una nuova crisi globale: una crisi in cui la guerra in Ucraina la fa da protagonista e che si ripercuote sulle singole, altrettanto derelittamente fragili, economie nazionali.
Il governo Meloni non sa dove reperire i soldi per affrontare questa crisi che, tuttavia, non è nuova e che avrebbe dovuto essere gestita dal punto di vista sociale e non da quello imprenditoriale, privatistico ed esclusivista. Non lo si può, però, certo chiedere ad un esecutivo come quello composto dalle forze peggiori della destra italiana e di un centro che a parole si dice liberale e che, invece, è ossessionato dalla compatibilità tra impresa e lavoro solo nel quadro di un contenimento delle proteste sociali e, magari, della proclamazione di uno sciopero generale.
L’instabilità climatica è divenuta l’altra faccia della medaglia di una insostenibile economia che tutto sfrutta e che non ha riguardo per niente e nessuno, se non per coloro che ne traggono le stragrandi ricchezze che accumulano sulla pelle di miliardi di salariati e sfruttati.
I conti col pianeta si faranno prima o poi sempre più ricorrenti, duri, feroci nella loro mutazione degli ecosistemi, nel cambiamento radicale di un equilibrio che già da tempo mal sopportava l’invasività tutta umana nei confronti della Natura e degli altri esseri viventi.
La coperta, da qualunque angolo la si guardi, è cortissima. La manovra di bilancio che il governo si appresta a mettere insieme è una nebulosa di dicerie e di affermazioni buttate lì per cercare di tenere calmo un elettorato che inizia a non fidarsi più del governo e del carisma della stessa Meloni. Va detto: intaccato anche dalle tante, troppe sparate su razza, etnie, sicurezza, pelle chiara, pelle scura, natalità, sbarchi, migranti, origine, autctonia, esterofobia, forestierismi ecc…
Il governo nel suo insieme non ha aiutato Giorgia Meloni a dissimulare gli eventi più disastrosi, sia accidentali sia occorsi da una congiuntura sfavorevole di criticità piuttosto manifeste. In mezzo a tutto questo disastro sociale, tra abolizione di garanzie sociali minime, introduzione di bonus una tantum, carte dedicate a te, me, lui e gli altri, le tutele diminuiscono progressivamente mentre aumenta la spesa militare.
Non è il solito refrain pacifista (anche se è sacrosantamente vero ciò che si rileva stigmatizzandolo) ma il dettame di politica estera della NATO. Dobbiamo obbedienza all’asse nord-atlantico e pertanto il 2% del nostro Prodotto Interno Lordo deve finire in armamenti da consegnare all’Ucraina per fare la parte di chi sta in prima linea in una guerra imperialista. E mentre noi mandiamo munizioni, fucili, bombe e chissà cos’altro a Kiev, il divario tra Nord e Sud del Paese aumenta.
Nel Mezzogiorno ci sono, in certe zone, il 35 – 50% di badanti che si possono reperire in tutto il territorio nazionale. Vuol dire che non esiste un briciolo di assistenza pubblica e che le famiglie sono costrette a fare ricorso, molto spesso pagando in nero chi assiste i famigliari, ad aiuti che non si possono altrimenti trovare.
Sta per ricominciare la scuola e il primo fenomeno negativo in cui si incespica è l’assegnazione delle cattedre, i posti del personale ATA (amministrativo, tecnico, ausiliario); per non parlare della mancanza di strumenti essenziali per l’insegnamento, per l’apprendimento, per la vita quotidiana nelle aule e nei plessi.
La regionalizzazione della sanità e la provincializzazione degli istituti scolastici ha diversificato i trattamenti in senso negativo. Ha accentuato le differenze, ha fatto delle scuole povere degli istituti ancora più tali e di quelle meno povere (perché di scuole “ricche” proprio non si può parlare) dei modelli di sopravvivenza grazie all’intervento di interi nuclei famigliari.
Sul fronte pensionistico non va affatto meglio… Il problema è sempre la coperta corta. Mancano le risorse per le rivalutazioni degli assegni mensili e ciò che si prospetta nella Nota di aggiornamento al DEF non lascia intendere che si potranno riscontrare novità di rilievo.
I soldi sono insufficienti e le decisioni che Giorgia Meloni prenderà in merito saranno conformi alla politica inversa delle tutele e allo smentire platealmente tutto quello che aveva propagandisticamente dichiarato in campagna elettorale: la cancellazione della “Legge Fornero“, l’abolizione populistica del canone RAI, l’innalzamento delle pensioni minime a 1.000 euro al mese, l’aliquota unica per gli autonomi al 15%, la riduzione o cancellazione delle accise sui carburanti e così via…
La crisi economica, la guerra e gli strascichi pandemici, nonché la devastazione ambientale che si fa sentire sempre più prepotentemente contro i suoi responsabili, c’entrano fino ad un certo punto nella formulazione delle difficoltà in cui versa il governo delle destre. Tutte le scelte fatte dall’esecutivo vanno nella direzione della conservazione economica, della completa condivisione dei conti di Bruxelles, nella assoluta e acritica approvazione delle linee zigzaganti di politica estera di una Unione Europea subordinata alla Repubblica a stelle e strisce.
La precarietà lavorativa aumenta, i tagli alla sanità (circa quattro miliardi) pure. Nulla lascia presagire che vi possa essere un minimo recupero delle risorse in una logica redistributiva dall’alto verso il basso.
Solo la mobilitazione sociale, sindacale e politica può costringere questo governo a desistere dai suoi propositi. Ma non basta comunque. Le destre vanno cacciate da Palazzo Chigi e va ricostruito un asse democratico e progressista che rimetta in circolo la costituzionalità delle azioni di governo, che le ricongiunga con un sentire comune che, prima di tutto, esige giustizia sociale, equità, dignità e sicurezza nel mondo del lavoro.
Senza questa determinazione, senza questa presa di consapevolezza comune, qualunque protesta finisce per essere marginalizzata e ridicolizzata dall’arroganza delle destre, dalla protervia di un potere che si concepisce come tale e non in quanto al servizio del pubblico. Bensì del privato.
MARCO SFERINI