Capovolgiamo un po’ i termini della questione: non si tratta di indagare oggi, soprattutto dopo l’arrivo di Elly Schlein alla segreteria nazionale del PD, se questo sia più o meno di sinistra rispetto a prima. Si tratta, semmai, di interrogarsi se un partito come quello democratico, nato nel 2007 dalla fantasia americaneggiante di Walter Veltroni, dall’unione di due grandi culture politiche come quella socialdemocratica (ex comunista) e quella popolare (ex democristiana), possa essere utile alla sinistra in Italia, qui ed ora, oggi e ed anche domani.
La domanda, dunque, è non cosa può fare la sinistra per recuperare il PD ad un ruolo che, in tutta probabilità, non era mai stato nelle intenzioni dei suoi fondatori, cioè essere il nuovo partito del progressismo, della giustizia sociale nell’Italia della grande crisi economica, di quella finanziaria che di lì a poco si sarebbe affacciata sullo scenario americano e globale di un capitalismo iperliberista.
La domanda è cosa può realmente fare il Partito democratico oggi per la sinistra. A questo proposito, è lecito porsi un altro interrogativo che, per la pesantezza storica che si porta dietro, non è niente affatto specioso ma assolutamente pertinente alla questione.
Visti i trascorsi delle politiche fatte dal PD dalla sua nascita ad oggi, quindi all’interclassismo, al compromesso costante tra capitale e lavoro, al privatismo come elemento trainante della nuova fase economica, alla compressione dei diritti fondamentali per operai, pensionati, studenti, è lecito non sperare, bensì ritenere che una nuova cultura della politica possa innervare le azioni dei democratici e, quindi, cambiare alla radice quello che era il progetto originario veltroniano, le contaminazioni strutturali del renzismo e la fisionomia nettamente compatibilista con le esigenze del mercato?
In sostanza: Elly Schlein può essere in grado, con un partito che non le ha dato la maggioranza dei voti dei suoi iscritti, di cambiare il Partito democratico nella sua interezza e di fargli imparare nuovamente l’ABC di una socialità e di una disposizione alla coniugazione univoca tra diritti sociali e diritti civili, tra ambiente e lavoro, tra pace e sviluppo, contro il liberismo che costringe alla separazione tra questi fattori ed a scelte di campo che vanno contro i bisogni più elementari della povera gente?
Le buone intenzioni della nuova segretaria democratica vanno apprezzate e il suo cammino politico-riorganizzativo va seguito con grande attenzione. Non fosse altro perché in Italia c’è davvero un gran bisogno della fine dell’anomalia tutta nostra che ha visto proprio nella simbiosi tra DS e Popolari la fine di una sinistra moderata e di un altrettanto centro politico che ha dato vita ad un anomalo bicefalo. Una caratteristica esclusivamente italiana, irriscontrabile in qualunque altro Stato dell’Unione Europea.
Una anomalia che ha bipolarizzato estremamente le culture politiche ancora presenti nella società, pensando, forse, di potersi avvantaggiare della presuntuosa teoria bislacca della “morte delle ideologie“, per diventare una sorta di “partito pigliatutto” che, differentemente dal populismo pentastellato dei primordi, ha avuto come missione quella di tenere in equilibrio una pace sociale in una sorta di compromesso tra mondo del lavoro e mondo delle imprese, partendo dal punti di vista di queste ultime per gestire il primo.
Tutte le riforme antisociali che sono state messe sul tappeto della politica italiana, divenuta così invisa a tanta parte della popolazione, soprattutto appunto a sinistra, con la relativa discesa del consenso e della partecipazione al voto, fanno una storia del PD che poggia su un piano nettamente antisociale, sbilanciato nei confronti della tutela degli interessi di un ceto medio che hanno finito col combaciare con il protezionismo dei privilegi padronali e l’assolutizzazione del dogma delle privatizzazioni.
Il PD ha, dalla scuola al lavoro, dalla sanità alle grandi opere, teorizzato una nuova fase dell’economia nazionale basata, similmente al naturale filo-imprenditorialismo delle destre, sulla necessità di far entrare il privato nei gangli fondamentali dello Stato, nella desertificazione del pubblico dalla gestione dei beni primari (come l’acqua, il suolo, i servizi sociali, le infrastrutture, ecc.) al carezzamento di una visione pseudofederalista dello Stato in cui le autonomie locali fossero i principali sponsor del privato medesimo.
La differenza evidente, ma praticamente solo l’unica, col progetto calderoliano di “autonomia differenziata” sta nella considerazione del regionalismo come esclusivismo economico, come forma mentis di un istituzionalismo piegato completamente alla logica dell’interesse particolare, scollato completamente dal contesto collettivo nazionale.
Il PD non ha mai pensato di creare venti piccoli Stati regionali dentro un contesto presidenzialista: sarebbe stato troppo anche per una forza di centrosinistra moderata e condiscendente nei confronti del mercato.
Le destre, invece, vanno in questa direzione del tutto schizofrenica. Il fatto che i democratici vogliano ostacolare il progetto di Calderoli insieme a gran parte delle opposizioni, è un valore aggiunto in questa lotta non certo semplice ma, per ora, abbastanza ferma. I problemi del Paese si chiamano: salari, pensioni, inflazione, povertà, precarietà, disoccupazione. I sogni post-secessionisti dei leghisti di nuovo modello possono aspettare. Ma l’iter comunque non si ferma…
Tornando alla questione iniziale: fatte tutte queste considerazioni sulla fisionomia passata del PD, è o non è legittimo interrogarsi sulla sua affidabilità?
Per inciso: nessuno ha il diritto di dare patenti a nessun altro, ma, visti i trascorsi, soprattutto chi si trova da sempre a sinistra e, se vogliamo, nell’area della sinistra radicale, anticapitalista, antiliberista e libertaria, ponendosi il problema di come mandare a casa questo governo che sovverte i fondamentali dei diritti civili e sociali, della convivenza e dei rapporti tra maggioranze e minoranze, tra presunta “normalità” e le tante differenze che esistono sotto vari, varissimi aspetti, ha il dovere di aprire in merito una riflessione.
E questa non può che partire, anzitutto, dalla messa da parte di ogni pregiudizio, di ogni prevenzione che riguardi il passato senza dimenticare – come qui è stato ampiamente sottolineato – tutto quello che proprio nei decenni trascorsi è stato fatto nel nome del progressismo e che proprio ha finito per essere un cumulo di alterità rispetto alla fortificazione dei diritti sociali: tanto è vero che oggi ci troviamo con tutti gli indicatori economici che segnalano l’estrema povertà salariale italiana nel contesto europeo.
L’Italia ha bisogno tanto di una sinistra moderata, che faccia il suo mestiere di socialdemocrazia liberaleggiante (e non liberista), che divenga il punto di riferimento di un ceto medio sganciato dagli interessi finanziari e profittuali dei grandi gruppi industriali, delle multinazionali e di una lettura dei piani di resilienza europei solamente rivolta a tamponare i tracolli dovuti alle cattive gestioni amministrative in un regime di concorrenza enormemente viziato dal conflitto in Europa, dal sopravanzare del gigantismo asiatico, dalla ristrutturazione globale del capitalismo.
L’Italia ha, però, bisogno di una sinistra di alternativa, comunista, in controtendenza al linguaggio moderno, che lo considera un termine solamente abbarbicato ad un passato crollato con i regimi dell’Est e dell’URSS.
Laddove per “comunismo” si intende oggi più che mai per davvero il “movimento reale“, la tensione dal basso, anche una autorganizzazione sociale e civile che diviene esperimento morale e, quindi, culturale nell’intero Paese.
Se il compito di Elly Schlein è quello di ripristinare la parte del dualismo che riguarda la sinistra moderata, in competizione certamente col nuovo corso contiano del Movimento 5 Stelle che si è traghettato dal populismo di destra ad uno abbastanza nettamente progressista, il compito nostro, come comunisti, donne e uomini di una nuova sinistra anticapitalista, è quello di rappresentare le istanze più fragili e depresse, logorate e consunte da controriforme antisociali che hanno ridotto il potere di acquisto di salari e pensioni all’osso.
Se Elly Schlein riuscirà nella vera e propria impresa di trasformare internamente il PD, prima ancora che nella sua proiezione esterna, e convincere il notabilato del partito a considerare ormai irreversibile una evoluzione riformista (nell’antico senso politico del termine), sarebbe possibile persino reinventare una intera stagione della politica italiana.
A cascata tutti i rapporti tra i partiti cambierebbero ancora di più se si immagina una interazione tra una ritrovata opposizione di sinistra moderata e radicale insieme con una riapertura del dialogo tra ciò che più non c’era e ciò che è rimasto.
Il punto della questione è anche la fiducia che si chiede di avere durante la probabile trasformazione del PD in altro da sé stesso, visto che l’anomalia tutta italiana inventata (si fa per dire) da Veltroni non aveva come scopo quello di dare alla sinistra una nuova linfa vitale, ma di creare le condizioni per l’alternanza tra centrodestra e centrosinistra.
Il centro è, pertanto, al centro del problema: il moderatismo liberale è divenuto nel corso dei tanti avvicendamenti di segreteria del PD, un accesa difesa delle prerogative liberiste. Questo ha allontanato dal voto, dalla partecipazione sia politica sia sociale, milioni e milioni di persone. Per recuperarli, tanto alla sinistra moderata quanto a quella di alternativa, non basta agitare slogan da un lato e promesse di unità dall’altro.
Occorre ripensare profondamente ai rapporti tra istituzioni e popolazione, tra interessi di classe e interessi nazionali, tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, tra impresa e maestranze. Tra ricchezza e povertà come elementi deformabili da una nuova stagione del progressimo in Italia.
Nulla è immutabile, tutto si trasforma e continuamente. La necessità di mandare a casa Meloni e le sue destre estreme non deve essere però un pretesto per inventarsi una sinistra lì per lì, ma una ponderata riflessione sul perché oggi abbiamo a Palazzo Chigi questi distruttori del pubblico, della solidarietà sociale, della verità dei fatti storici tanto quanto dei problemi emergenti del nostro tempo. Se si trovano lì una ragione c’è.
E non è difficile trovare alcuni dei motivi di questa ragione nella anomalia del PD che ha attraversato i primi vent’anni del nuovo secolo spacciandosi per forza di sinistra, lasciandosi utilitaristicamente presentare come tale e, alla fine, facendo politiche che le destre e i governi tecnici (sostenuti con grande vigore dai democratici) avrebbero pari pari ripreso e continuato.
Ecco, il problema è questo. E non è mica poco…
MARCO SFERINI