E’ la somma che fa il totale, sentenziava Totò. E come dargli torto, soprattutto da un punto di vista matematico, ma pure da un altro punto di vista: quello politico (e di riflesso abbondantemente sociale).
In questi giorni, dal raduno di Pontida al nuovo decreto sulle migrazioni, dalla presenza di Marine Le Pen sui prati lombardi fino alle trasmissioni tv in prima serata, dalle passerelle melonian-layeniane a Lampedusa al filo spinato che ricompare (o forse non se ne è mai completamente andato) sulla scena di moderni campi di concentramento per migranti “irregolari“, la somma fa un totale abbastanza inquietante.
L’Europa finge solo ora di interessarsi ad una politica comune per la condivisione del problema epocale di migrazioni che persino Giorgia Meloni è costretta ad attribuire, non tanto al capriccio di chi lascerebbe il proprio paese per venire nell’Occidente progredito e democratico (sic!), quanto alla contingenza di eventi come le crisi alimentari, le guerre intestine e genocide, un neocolonialismo economico che penetra nel continente africano da più polarizzazioni del liberismo internazionale, da fame, miseria e tutto quello che ne consegue.
Ma la soluzione che si individua, se di soluzione si può davvero osare parlare, è un decalogo che, per la maggior parte dei punti, è una riproposizione di stantie e già verificate esperienze fallimentari sul campo. Ad iniziare dalla collaborazione tra Bruxelles, e i governi che fanno parte della UE, con i peggiori dittatori dell’area mediterranea: dalla Turchia di Erdogan alla Libia dei due governi, per finire con la Tunisia di Saied che è divenuta una autocrazia che utilizza metodi repressivi denunciati da Amnesty International più e più volte.
In quello che fu il primo paese arabo a rivoltarsi contro i presidenti a vita che dominavano le vite e gli interessi di interi popoli reprimendo ogni dissenso e lasciandosi corrompere da interessi economici disparati, soprattutto dopo la fine della Guerra Fredda, oggi i migranti vengono spesso respinti alle soglie del deserto, dove nemmeno i romani osavano andare oltre.
Hic sunt leones, scrivevano sulle mappe di un tempo. Oggi lì c’è una morte più lenta: senza acqua, senza cibo, lasciati sotto il sole, alle intemperie. Donne, bambini, anziani.
La repressione e l’abbandono sistematico non fanno differenze. Né da una, né dall’altra sponda del mare: in Africa veri e propri lager dove la violenza è all’ordine del giorno, dove sopraffazioni, mercanteggiamento delle vite, sevizie, stupri e umiliazioni sono la terribile normalità; in Italia l’approssimarsi di una recrudescenza del muscolarismo delle destre per recuperare quel consenso elettorale che servirà in vista del voto europeo del prossimo anno.
Il governo di Giorgia Meloni è un Giano bifronte. Ma due facce sono persino poche per chi un giorno va dal premier ungherese Viktor Orbán, lo abbraccia, gli conferma il pieno sostegno del nazionalismo conservatore e retrivo di un governo ispirato all’italianità etnica, epidermicamente intesa come costrutto quasi culturale di un Paese che, almeno questa è l’impressione, sente meno la minaccia dell’”invasione” paventata dal salvinismo di un tempo, ma si preoccupa enormemente per la tenuta economica, per la sopravvivenza reale in una condizione di disagio e di povertà sociale crescente.
Ciò detto, non che una parte degli italiani sia meno razzista e xenofoba di prima. Ma la delusione nei confronti di Giorgia Meloni è sentita nel suo elettorato che, certamente, si attendeva dalla Presidente del Consiglio una maggiore prova di energia e di durezza: magari proprio quel blocco navale paventato molte volte, gettato in pasto alle folle che nei comizi plaudivano al respingimento ad ogni costo di chi arrivava con barchini e barconi, maledicendo le ONG che sopperivano alle lacune istituzionali, sia italiane sia europee.
Quell’elettorato meloniano ora, se si guardano le percentuali dei sondaggi – cum grano salis -, oscilla tra Fratelli d’Italia e la Lega che, infatti, si avvicina e a volte oltrepassa le due cifre che non vedeva più da tempo. La carta Marine Le Pen serve, così, ad aprire la campagna elettorale di un partito che, tra il mugugno dei militanti padaneggiati, eredi di un bossismo federalista e pure un po’ antifascista, va avanti nella sua crociata nazionalista, mettendo avanti tutto, anche qui, l’italianità etnicamente intesa.
La somma fa il totale? Aggiungiamoci pure la proposta del Carroccio di rendere obbligatoria l’esposizione del crocifisso nelle scuole, negli uffici pubblici e persino negli aeroporti, con salatissime multe per i contravventori.
Aggiungiamoci il rinverdimento di posizioni politiche tutte affidate ad una classificazione regionalista che, con la proposta dell’autonomia differenziata, darebbe vita ad un arlecchinamento del Paese che negherebbe sostanzialmente l’essenza comunitaria, egualitaria (seppure molto formale) della nazione, dell’Italia come Repubblica democratica fondata sul lavoro.
Il confronto è classista, ma è pure etnico e ostinatamente razzista, anche se si tende a far passare il messaggio come ad una riorganizzazione dei piani di distribuzione dei migranti in una Europa che è stata, fino ad oggi, snobbata dalla NATO e dagli USA sulla guerra in Ucraina così come lo è sulle questioni che ineriscono i rapporti economici globali, subordinata ad un dirigismo a stelle e strisce che impedisce al Vecchio Continente di essere altro da sé stesso, ridotto alla funzione di caveau bancario, di forziere da cui attingere per sostenere le spese di guerra, per allargare gli orizzonti dell’imperialismo occidentale.
La somma fa il totale, ed è una cifra sempre più difficile da immaginare: perché si tratta di quasi tremila miliardi di debito pubblico italiano a cui i governi non fanno fronte prelevando dai più ricchi, imponendo tasse progressivissime, prelievi patrimoniali, combattendo l’evasione fiscale senza quartiere, aumentando il potere di acquisto dei salari e creando così un circuito virtuoso nella distribuzione delle risorse, nel respiro più ampio della domanda, nel confronto con le altre economie concorrenti.
Mentre si appresta a varare l’ennesimo decreto securitario e repressivo, il governo Meloni deve fare i conti con la propaganda elettorale degli altri governi europei. Ad iniziare dalla Francia. Darmanin solennizza davanti al popolo, ovviamente liberale, liberista e più di destra, che la Republique non aiuterà l’Italia prendendosi altri migranti, ma concertando soluzioni nelle riunioni previste a breve in sede europea. La competizione sulla pelle di chi muore in mare o viene detenuto incostituzionalmente nei CARA e nei CPR per mesi, mesi e mesi che diventano anni, è appena incominciata.
Somma e risomma, ne esce un quadro davvero devastante per i diritti umani, la cui violazione è denunciata senza soluzione di continuità tanto nei lager libici quanto nei comportamenti dei governi turchi, tunisini e di altri paesi dell’aera mediterranea; per i diritti civili, per impianti istituzionali che dovrebbero garantire il rispetto delle loro leggi e del diritto internazionale, mentre non fanno che violarlo ad ogni norma nuova che inventano per gestire l’emergenzialità della problematica delle migrazioni.
E ultimi, ma non ultimi, per i diritti sociali: perché quei migranti che riescono a diventare “legali”, quindi escono dallo status della clandestinità e dell’irregolarità, finiscono con l’essere vittime di un razzismo economico che lo relega alla fine della catena di una manovalanza ipersfruttata nei campi agricoli.
Il problema delle migrazioni possiamo anche farlo risalire alla storicità degli eventi che si ripetono nel corso del cammino (dis)umano, ma oggi, appurato che fa parte dell’inviluppo di una specie che domina su tutto e su tutti e che si è specializzata nell’annientamento reciproco proprio mediante l’odio per le culture differenti, per le pigmentazioni della pelle, per le credenze religiose a cui si dà un valore di primazia essenziale per poterle sentire come vere ed uniche, ciascuna e nessuna al tempo stesso, è un tema globale che riguarda l’iperpopolamento, la crisi climatica e la sostenbilità della specie tutta quanta sul pianeta.
E’ qualcosa di veramente molto più articolato della semplice visione delle frontiere contrapposte, delle civiltà che si scontrano, dei nazionalismi che si confrontano nella sfida nuova di una politica veramente anacronistica, vecchia, decrepita eppure così immatura, infantile e legata solo al bisogno dell’autoriconoscimento, dell’identità quale base ricostituente un revanchismo autarchicheggiante sul terreno della trasformazione sociale ma, allo stesso tempo, pronta a prostrarsi senza remore al cospetto dell’imperialismo e della dominazione militare occidentale.
E’ qui che la finzione europeista dei popoli che sarebbero uniti dalle politiche solidaristiche e mutualistiche dei rispettivi governi si compenetra, si simbiotizza con il retaggio ideologico di una destra che si modernizza soltanto quando tratta di rapporti economici e di poteri che ne derivano.
Altrimenti è la combustione di un miscuglio di disvalori e di ineguaglianze che ritornano ciclicamente al riemergere proprio delle crisi globali e locali di un capitalismo che se ne serve per dividere, comandare e da tutto questo far trarre i maggiori profitti a speculatori di ogni tipo.
La saldatura tra liberismo e statalismo compiacente è l’invenzione moderna di un capitalismo che viene assistito nei momenti di crisi e che sostiene tutte quelle forze, in particolare quelle che forzano sul concetto e sulla pratica della democrazia vera, parlamentare anzitutto, per la realizzazione di nuovi modelli istituzionali in cui la discussione, il confronto e la partecipazione siano ridotte all’essenziale. Ossia alla formalità.
Le destre meloniane puntano esattamente a questo: una parvenza di regionalismo autonomista che esaspera solo le differenze sociali ed economiche, un premierato forte che riunisca presidenza della Repubblica e del Consiglio dei Ministri in una unica persona. Un progetto di sostituzione non etnica, ma antidemocratica, di alterazione dei rapporti tra i poteri dello Stato e, conseguentemente, di uniformità antisociale a cui saranno chiamati i cittadini nell’essere diretti e non più (anche) consultati come prima fonte della sovranità.
Se è la somma che fa il totale, ed è ovviamente così, proviamo a fare il conto prima che sia troppo tardi… Ci sono tante correzioni da fare.