Il Consiglio dei ministri cambia il decreto Sud prima di pubblicarlo. E cerca nuove strutture per trattenere anche chi fa richiesta asilo. Meloni: «Nei centri di permanenza deve andarci chiunque sbarchi illegalmente in Italia, richiedenti asilo compresi»
Di fronte a domande diverse il governo tende a dare sempre la stessa risposta: sbarre, prigioni, detenzione. Così dopo gli sbarchi degli ultimi giorni, ieri il consiglio dei ministri ha deciso di prolungare il trattenimento massimo nei centri di permanenza per i rimpatri (Cpr). Si passa da tre mesi, a cui in casi particolari potevano essere aggiunti 45 giorni, a diciotto.
Con la moltiplicazione per sei inizia la «messa a terra» del videomessaggio con cui venerdì sera la premier Giorgia Meloni aveva annunciato la svolta militare della gestione dell’accoglienza. Militare in senso stretto: proprio il ministero della Difesa ha ricevuto il mandato di «realizzare nel più breve tempo possibile le strutture per trattenere gli immigrati illegali». Queste due misure saranno inserite nel dl Sud, che Palazzo Chigi conta di pubblicare a stretto giro.
Intanto l’esecutivo è già a lavoro su un nuovo decreto a tema immigrazione e sicurezza, che approderà in Cdm la prossima settimana. È qui che finiranno le norme per limitare il riconoscimento della minore età: cancellando il trattamento più favorevole in caso di dubbio e modificando le procedure di accertamento. Meloni ha poi annunciato canali differenziati per donne, bambini e under 14.
È da capire da cosa si dovranno differenziare questi canali. Perché la premier ha ribadito davanti ai suoi ministri quanto affermato in diretta social: nei «centri di permanenza deve andarci chiunque sbarchi illegalmente in Italia, richiedenti asilo compresi». Qui Meloni confonde, non si sa se volutamente o meno, il tema dei Cpr con quello delle procedure accelerate di frontiera. Su questo secondo punto l’esecutivo sta lavorando sin dal decreto Cutro che prevede modalità accelerate di esame della richiesta di protezione, cioè con meno garanzie e in apposite strutture di trattenimento.
In pratica mentre oggi chi sbarca continua il viaggio verso altri paesi europei oppure chiede asilo in Italia e quindi finisce in un centro di accoglienza, domani potrebbero tutti essere rinchiusi in strutture di trattenimento dove attendere l’esito della procedura (teoricamente entro un massimo di quattro settimane).
In questo caso con «frontiera» non va intesa una nozione geografica, ma giuridica. Tali luoghi, cioè, potrebbero trovarsi più o meno lontani dal punto di sbarco. Sicuramente non a Lampedusa. Per esempio all’interno del Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Crotone sta nascendo un’area destinata alla detenzione. Un altro edificio sarà adibito a questo scopo a Roccella Jonica.
Il primo centro, comunque, è a Pozzallo. In totale: 84 posti. Impossibile credere che con simili strutture possa realizzarsi anche solo una minima parte di quanto promesso da Meloni, cioè detenere tutti i 130mila sbarcati. Persino sottraendo donne, bambini e chi ha una nazionalità con alte probabilità di ottenere l’asilo i conti non tornano.
È qui che dovrebbe intervenire la Difesa. Intanto per bypassare le probabili opposizioni di Regioni, come la Toscana, e Comuni attraverso l’utilizzo di beni del demanio. Poi per dare una nuova forma a queste strutture. Quale ancora non si sa. Ieri sera era in corso un vertice al ministero di Guido Crosetto (FdI) per vagliare tutte le ipotesi in campo: dalle caserme dismesse a tendopoli isolate e chiuse.
Non è detto che una possibilità escluda l’altra. Le scelte saranno fatte in base a tre criteri: costi, tempistiche, necessità particolari. Dipende da quanto in là Meloni vuole spingere la sua risposta muscolare. Il modello potrebbe essere quello greco, paese che la premier e Piantedosi hanno visitato a inizio settembre, dove esistono campi di detenzione lontani dalle aree urbane e circondati dal filo spinato («facilmente perimetrabili e controllabili», ha detto la premier venerdì) dove i migranti dormono in tende o container.
Altro capitolo è quello dei veri e propri Cpr che, secondo il mantra introdotto da Minniti e ripreso dal dl Cutro, dovrebbero diventare «uno per regione». Qui sono destinati, per un massimo di 18 mesi, soprattutto coloro a cui la richiesta di asilo è stata respinta o gli «irregolari» di lungo periodo.
Il problema per il governo è che queste due strade della detenzione amministrativa dei migranti dovrebbero ricongiungersi nel rimpatrio di chi non ha ottenuto il documento. Ma qui non conta né la quantità di persone trattenute, né il tempo che trascorrono dietro le sbarre. «Prolungare il trattenimento è una misura principalmente simbolica. Nel 2011 l’allora ministro dell’Interno Maroni fece la stessa cosa portando il massimo a 18 mesi, ma le percentuali dei rimpatriati non cambiarono», dice il garante nazionale delle persone private della libertà personale Mauro Palma.
Ruotano sempre intorno al 50%, perché una persona o viene espulsa nelle prime settimane oppure non succede più. Guardando all’ultimo decennio, ad esempio, il picco è stato raggiunto nel 2017 con il 59% delle persone transitate dai Cpr riportate in patria e il minimo nel 2018 con il dato fermo al 43%. Nel secondo caso la detenzione massima era 180 giorni, nel primo 90.
La premier ha detto che convocherà gli ambasciatori dei principali paesi di partenza dei migranti affinché collaborino e se li riprendano. Basterà?