La brutta piega della guerra è, in fin dei conti, la guerra stessa che si riproduce giorno dopo giorno e di cui non si vede non solo la fine, ma nemmeno lontanamente l’attenuazione per addivenire ad un tavolo di trattative, ad una sospensione delle ostilità. Da un lato la Russia e i non filo-americani, dall’altra per l’appunto gli Stati Uniti, la NATO e l’Unione Europea.
Non c’è un mondo migliore dell’altro, non c’è un campo meno imperialista, meno cruento, meno interessato a fare i propri interessi esclusivi a scapito della restante parte del pianeta.
Gli uni e gli altri perseguono fini che esulano dall’emancipazione sociale, civile, morale e politica dei popoli. E per questo, non c’è una parte dalla quale schierarsi: tanto Putin quanto Stoltenberg e Biden mirano a consolidare un asse economico-militarista che sia il fulcro su cui sviluppare il futuro di un unipolarismo ormai impossibile da realizzare.
Per la verità, questa è la visione prevalente nell’Occidente capitalisticamente e liberisticamente proteso ad un dominio davvero globale, mentre da parte dei BRICS (che si solo allargati ad altri Stati pure vicini a Washington (come l’Arabia Saudita…) si può registrare la consapevolezza del multipolarismo come effetto di una crescita esponenziale dell’economia anche in quei paesi che sono sempre sprezzantemente stati considerati come il “sud del mondo” e trattati alla stregua di dipendenze coloniali, seppure indirettamente.
La guerra in Ucraina è la quintessenza di questa contesa mondiale in cui si giocano cinicamente i destini e le vite concrete di intere popolazioni. Sulla loro pelle passano tutte le controversie cumulate in questi decenni.
Visto da Mosca, ad esempio, il conflitto è una propagandistica “operazione speciale” che difende le repubbliche indipendentiste del Donbass e le popolazioni russofone.
Visto da Bruxelles e Washington è una guerra di aggressione che, anzitutto, va respinta con interventi militari “per procura“, con un coinvolgimento a latere, senza che la NATO sconfini materialmente sul campo di battaglia. La quantità di ipocrisia che è necessaria per reggere questa sproporzione di menzogne e di alterazioni della fattualità delle contingenze, è veramente enorme.
E alla fine questo ammasso di bugie e di ricostruzioni revisioniste dell’oggi, del rapporto tra la grande Repubblica stellata e il resto del mondo, finisce con lo scontrarsi con una insostenibilità soprattutto economica dello sforzo bellico, nonché con una serie di contraddizioni politiche che, gira che rigira, vengono a galla nel momento in cui le presunte democrazie liberali di un’Europa a sempre maggiore caratterizzazione sovranista e di destra etnocentrica, devono misurarsi col consenso popolare.
E’ il caso della Polonia di Andrzej Duda e Mateusz Jakub Morawiecki. L’uno capo dello Stato e l’altro primo ministro di un governo in cui le spinte nazionalistissime si fanno sentire sempre di più.
Se in Italia i loro corrispettivi di governo invocano l’autoctonia come elemento dirimente per la sostanziazione di politiche esclusiviste, securitarie, repressive e volte ad affermare una sorta di unità naturale tra liberismo, atlantismo e conservatorismo davvero molto retrivo, a Varsavia il clima elettorale impone una virata veloce proprio sulla questione dell’invio di armi a Kiev.
Il viaggio di Volodymyr Zelens’kyj all’ONU e presso la Casa Bianca è fatto oggetto di commenti pressoché unanimemente concordi nel ritenere questa ambasceria in favore di un ancora più sostenuto sforzo bellico da parte degli USA, della NATO e dei paesi alleati come un mezzo se non un trequartistico fallimento.
La questione della controffensiva annunciata da Kiev che, in tutta evidenza, non è mai veramente partita come attacco sull’intera linea del fronte e che si è limitata a microscopici successi di qualche centinaio di chilometri quadrati del tutto irrilevanti per un fiaccamento delle forze russe, ha, al momento, determinato una revisione dei piani generali.
Non solo in Polonia si avvicinano le elezioni e, quindi, occorre a Morawiecki recuperare il voto degli agrari e dei coltivatori che si sono visti deprezzare e rifiutare tanta parte della loro produzione per l’ingresso del grano ucraino da un anno a questa parte.
Non solo negli Stati Uniti avanza l’insofferenza nei confronti di un conflitto che appare lontanissimo dalle problematiche reali dell’America riminacciata dal trumpismo e, dove, emerge la fronda interna ai repubblicani per mettere il veto sul rifinanziamento dei pacchetti di aiuto a Kiev (si tratta di oltre 24 miliardi di dollari…).
Anche la Germania ha dichiarato di voler rivedere i protocolli di invio di armamenti all’Ucraina e la stessa Francia è parsa sempre più critica nei confronti di una guerra che non ha una soluzione a breve termine e che, mese dopo mese, mostra il volto di un conflitto veramente molto lungo e in cui l’Europa rischia di rimanere invischiata, di essere una intercapedine infelice con un aumento esponenziale di conflitti tutti interni.
Le forze liberaldemocratiche e liberiste sono incapaci di gestire politicamente una crisi che mette in discussione gli equilibri globali e che, sebbene giornali e televisioni occidentali lo neghino o facciano a meno di dirlo, riguarda tutto il comparto delle esportazioni e i rapporti economico-finanziari con i veri grandi colossi emergenti: Cina e India tra quei BRICS in cui una idea diversa di organizzazione planetaria c’è ma, purtroppo, è ancora molto lontana dall’essere una alternativa all’opzione capitalistica.
Date queste premesse, è evidente che il terreno è fertile per una crescita dei consensi dei nazionalismi in Europa: l’esempio polacco dovrebbe allarmare e iniziare a far ragionare sulla possibile separazione tra costruzione della condivisione di una idea di società alternativa tanto alle autocrazie dell’Est quanto alle democrazie imperialiste dell’Ovest.
Non si tratta di marcare un punto di equidistanza tra questi due settori geopolitici del mondo che attualmente si scontrano su differenti piani e in tante parti del pianeta (compresa l’Africa delle guerre intestine e fratricide, delle imponenti migrazioni verso le coste del Vecchio Continente); si tratta per di più di cercare di intravedere le increspature più marcate nella fase liberista del capitalismo, tanto nel settore occidentale di sviluppo della crisi quanto in quello orientale.
L’irriducibilità della guerra in Ucraina ad un semplice (si fa per dire…) confronto armato tra Mosca e Kiev è, non soltanto un elemento chiaramente dirimente per comprendere la complessità delle dinamiche in essere tra Ovest ed Est, ma prima di tutto una premessa per decostruire narrazioni che sono state proposte come l’unica interpretazione possibile dei fatti.
Fatti che, come si può evincere dalle ritrosie attuali di Varsavia, Berlino, Parigi e di una buona parte dell’opinione pubblica statunitense, di settori non secondari dei comandi militari, del Pentagono e persino del Congresso americano, non hanno in sé nessun principio assoluto a cui possano fare riferimento i teorizzatori di una morale superiore delle nostre democrazie rispetto a quella del resto del mondo.
La partita che si gioca tutt’oggi non è soltanto quella di una spietata guerra di aggressione che, in sostanza, risponde ad un’altra guerra mai dichiarata e portata avanti da Kiev nelle regioni del Donbass.
La partita che si gioca oggi è la fase costituente di una nuova società globale, di una vera e propria riconfigurazione generale dei rapporti di forza tanto tra le classi sociali quanto tra i grandi poteri che determinano questi stravolgimenti e queste vere e proprie rivoluzioni invisibili.
La fragilità della democrazia polacca è oggi aumentata rispetto a qualche tempo fa. La guerra ne è responsabile in misura certamente non di poco conto, perché ha esasperato i conflitti interni e si è aggiunta ad un tasso di esacerbazione di una dialettica tanto parlamentare quanto popolare in cui la necessità dello schierarsi dalla parte dell’Ucraina ha voluto dire mettere una ipoteca su un passato nemmeno tanto lontano in cui la Russia era stata una minaccia per l’esistenza stessa della Polonia.
La scenografia della tragedia bellica, messa in piedi per coprire la quinte dove si tengono le vere contese globali, è la punta estrema di una montagna di cinismo amorale, privo di qualunque scrupolo nei confronti delle sofferenze tanto degli ucraini quanto dei russi, così come di tutti coloro che si ritrovano catapultati in una guerra di cui si comprende oggi il senso solo se la si inquadra entro le coordinate di una crisi mondiale.
Allora tutti i nodi vengono al pettine e si può persino leggere parzialmente il futuro che ci attende: riarmo ovunque, militarizzazione dei confini, nuove alleanze della Russia con la Corea del Nord e con la Cina in funzione antiamericana. Nuovi movimenti di Washington con i paesi arabi e con quelli africani e sudamericani per controbilanciare questa partita.
Non c’è quasi spazio per parlare di pace a questi livelli di scontro fra poteri politici, economici, dentro un capitalismo che si nutre di nuovi imperialismi per sopravvivere alla grande crisi di materie prime, alla debolezza sempre più endemica di una domanda che sconta tutti gli effetti della crisi climatica e del sovrapopolamento della Terra.
Non c’è spazio per la trattativa. E non c’è perché significherebbe scomporre un equilibrio assurdo che si è creato proprio grazie alla destabilizzazione generale di cui le guerre sono il centro di gravità permanente.
E’ ovvio che la questione, nella sua grande articolazione fatta di tante piccole, medie e grandi mediocrità ed interessi particolari, include tutte le specificità nazionali che, a confronto con la forza dirompente di un conflitto tra blocchi intercontinentali, appaiono come conseguenze di piccolo cabotaggio.
Può sembrare così. Ed invece dovremmo prestare molta attenzione proprio a quello che accade in questi che oggi consideriamo come dei microcosmi dentro una globalità di eventi smisuratamente divenuti intangibili per Stati abituati a guardarsi nella ristretta larghezza del loro circolo. La crisi del decisissimo fronte del riarmo senza se e senza ma nei confronti di Kiev è una notizia che, se non inverte, indubbiamente cambia lo scenario della guerra.
Di questo possiamo in qualche modo essere certi, perché un effetto farfalla c’è sempre e uno a cascata altrettanto. E non è detto che sia un bene…
MARCO SFERINI