Il turismo snatura i servizi culturali e lo stesso tessuto delle città d’arte. Vi inoltre è un ampio ricorso al super sfruttamento del lavoro e alla precarietà.

 di Alessandra Bernardeschi e Federico Giusti  

Il sistema culturale italiano si basa da tempo sul ricorso al volontariato e sugli appalti aventi molteplici figure professionali inquadrate in contratti sfavorevoli, precari e part time.

Per anni, ogni qual volta si è parlato di cultura, è scattata l’ipotesi di ricorrere ad associazioni di volontariato e del terzo settore, apparse come soluzione praticabile per ridurre i costi di personale. 

Ironia della sorte i servizi culturali rientrano tra quelli costretti, dalla normativa vigente in materia di sciopero, a garantire servizi minimi essenziali che sovente si trasformano nella precettazione di elevati numeri di lavoratori e lavoratrici.

Come già scritto su questo giornale, la presenza di militari nelle vesti di addetti ai musei non solo prefigura la militarizzazione della cultura ma rappresenta un segnale preoccupante dentro il modello di società della sorveglianza nella quale la precarietà diffusa acquista spazi sempre maggiori. L’associazione “Mi Riconosci?” da tempo lavora nella denuncia del volontariato diffuso all’interno delle attività culturali che mortifica professionalità acquisite e non riconosce quella dignità lavorativa derivante invece da un’occupazione stabile e contrattualizzata.

L’occupazione culturale in buona parte è di genere, in tutti i paesi dell’Unione Europea le lavoratrici donne costituiscono la maggioranza della forza lavoro di poco cresciuta dal 2018 al 2022.

L’affidamento ad appalti e subappalti per la gestione di siti museali e attività, per l’apertura delle biblioteche comunali ed universitarie è in continua crescita.

In realtà le esternalizzazioni sono l’occasione per risparmiare, ma solo sulla pelle dei lavoratori, perché non è credibile che di per sé portino al miglioramento delle gestioni e che sia possibile un risparmio a parità di trattamento dei lavoratori. Però contribuiscono alla frammentazione del mondo del lavoro, con l’assurdo che spesso coesistono nel medesimo posto e nella medesima funzione operatori con diversi contratti e diverse tutele, rendendo più difficile la solidarietà fra lavoratori.

Il contratto diffuso e dominante in questi appalti è quello part time mentre i Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro applicati sono sovente quelli delle cooperative sociali o del multiservizi.

Il part time in sé è sarebbe una conquista in favore della qualità della vita se derivasse da una scelta volontaria del lavoratore per far corrispondere i tempi di lavoro alle sue esigenze familiari, sociali, culturali ecc., ma diviene un elemento negativo se risponde all’esigenza del datore di lavoro ed è imposto al lavoratore che magari, per le esigenze sue e della sua famiglia avrebbe bisogno di una maggiore retribuzione, specie quando il contratto applicato è il multiservizi, assurdamente basso ma utilizzato anche per l’attività richiedenti un buon livello di professionalità.

I contratti di tipo stagionale, che predominano nel comparto turistico, non sono certo rispondenti alle esigenze dei lavoratori. Fra di essi si distinguono due categoria: 1) i part time verticali ciclici, che sono a tempo indeterminato, prevedono un lavoro intenso in pochi mesi dell’anno e non danno diritto al sussidio di disoccupazione nei restanti mesi; 2) e quelli stagionali che prevedono il licenziamento a fine stagione e la riassunzione (eventuale) all’inizio della successiva, i quali danno diritto al sussidio nei mesi di inattività ma hanno il carattere di maggiore precarietà.

Quando è consentito al lavoratore di optare per una delle due forme egli si trova fra l’incudine di rimanere senza reddito nei periodi di “bassa stagione”, nel caso dei contratti verticali, al fine di avere una maggiore stabilità, e il martello degli incarichi stagionali a tempo determinato che consentono di avere una miseria di reddito nei mesi di inoccupazione, ma implicano una maggiore precarietà. Naturalmente anche nel primo caso la stabilità è abbastanza illusoria, sia per le ridotte tutele esistenti oggi contro i licenziamenti, sia perché a ogni nuova gara di appalto può cambiare l’impresa affidataria mentre le clausole sociali non garantiscono pienamente il mantenimento degli addetti. A maggior ragione quando è la stessa amministrazione appaltante che nel bando si riserva di esprimere o meno il gradimento del personale addetto, con possibilità di gravi discriminazioni, o riduce le ore di copertura dei servizi e con ciò l’occupazione.  Un caso specifico – ma se ne potrebbero indicare moltissimi – lo abbiano trattato poche settimane fa.

Il turismo stagionale, politicamente pensato e progettato così da anni, comprime i diritti e il tenore di vita dei lavoratori e devasta le città d’arte piccole e grandi per lo snaturamento che subisce la loro rete commerciale, l’affollamento fuori misura che le rende invivibili, la perdita di identità e di cultura nella ricerca affannosa degli avventori attraverso offerte di eventi indifferenziati e dozzinali idonei a catturare i turisti meno evoluti. I servizi per i residenti vengono anch’essi sconvolti e distorti in funzione del turismo, acquisendo anch’essi un forte carattere di stagionalità. 

Dopo gli anni della pandemia la ripresa degli eventi dal vivo ha dato un certo impulso al settore, ma se analizziamo i numeri si evince come l’aumento, lieve, degli occupati non riguardi l’intero mondo della cultura ma solo alcuni settori come l’audiovisivo, l’arte e l’intrattenimento,

La precarietà domina anche in settori come l’editoria, che vive invece una crisi quasi irreversibile, o il mondo del giornalismo con tantissimi\e giovani a rimborso spese o in stage.

Se da una parte si abbassa il costo del lavoro con i contratti part time delle tipologie già viste e il ricorso agli appalti, dall’altra il patrimonio culturale pubblico viene posto in toto a pagamento: ogni attività o visita è legata a un biglietto. L’idea diffusa da anni è quella secondo la quale investire in cultura non comporta il ricorso a contratti dignitosi e altrettanto potremmo dire della cronica disattenzione verso le attività culturali affidate ad associazioni senza una idea di indirizzo, programmazione che dovrebbe spettare al Pubblico, come, secondo noi, dovrebbe essere anche per la gestione diretta della forza lavoro impiegata.

Il turismo di massa diventa poi occasione per promuovere le grandi opere infrastrutturali, anche quando sono insensate, come dimostra un vecchio progetto del centrosinistra di portare a Pompei l’alta velocità,

La svalorizzazione della cultura non si realizza solo attraverso la precarietà sopra descritta ma con narrazioni banalizzanti che trasformano magari la Venere di Botticelli nell’ennesima bellezza stereotipata femminile per mere operazioni di marketing. Siamo in presenza dell’utilizzo improprio delle opere d’arte e del diritto d’autore mentre innumerevoli musei hanno presenze risicate di visitatori, esclusi dalle gite e dal circuito commerciale che privilegia lo shopping e alcuni siti a discapito di tanti, troppi, altri dimenticati.

La cultura, che potrebbe rappresentare strumento occupazionale e di potenziamento della formazione, da anni è invece un cantiere aperto, un laboratorio della precarietà e l’occasione per trasformare quanto dovrebbe essere gratuito o a basso costo in business.

https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/quando-il-turismo-ammazza-la-cultura-e-il-lavoro

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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