La notizia della morte di Matteo Messina Denaro è rimbalzata sui network televisivi e giornalistici di tutto il mondo. Il boss, reduce da trent’anni di latitanza e da un arresto facilitato dalle sue precarie condizioni di salute, è stato uno dei simboli indiscussi dello stragismo mafioso degli anni Novanta, che ha trovato nella fazione capeggiata da Totò Riina il suo fulcro. Ma c’è una grande bugia che continua ad essere proposta a caratteri cubitali sulle prime pagine dei giornali e nei servizi tv, forse per rendere ancora più altisonanti i continui aggiornamenti sulla dipartita di “Diabolik”: il fatto che il padrino di Castelvetrano fosse il capo indiscusso di Cosa Nostra. Un dato smentito dalla cronaca e dalle risultanze investigative degli ultimi anni, che delineano una mafia ben diversa da come viene mediaticamente rappresentata.
Quel che è certo è che Matteo Messina Denaro, anche in latitanza, ha regnato sulla provincia di Trapani grazie alla sua autorevolezza e intelligenza criminale, ma anche alla sua innata capacità di tessere relazioni strategiche con gli ambienti della politica, dell’alta imprenditoria e della massoneria coperta. È vero, “U Siccu” è stato il pupillo del capo di Cosa Nostra Totò Riina e un fiero sostenitore della campagna stragista del 1992-1993, curando peraltro in prima persona l’organizzazione delle stragi “continentali”, ed è stato fino alla fine dei suoi giorni uno dei principali custodi dei segreti su quella stagione, attraversata dalle ombre sulla complicità tra la mafia e apparati deviati dello Stato.
Eppure, dopo gli arresti dei capi corleonesi, Matteo Messina Denaro ha deciso di occuparsi precipuamente della sua area territoriale di competenza, gestendo la sua fiorente attività criminale nell’ottica della “sommersione” di marca provenzaniana. «Questo che fa il latitante che fa questi pali eolici, i pali della luce, se la potrebbe mettere nel culo la luce, ci farebbe più figura – lo attaccava Riina dal carcere milanese di Opera nel 2013, riferendosi agli enormi interessi di “MMD” nel business dell’eolico, in occasione di una chiacchiera con il suo compagno di ora d’aria – questo si sente di comandare, si sente di fare luce dovunque, fa luce, fa pali per prendere soldi ma non si interessa…». Proprio la parabola discendente di Riina e quella del suo successore Provenzano hanno di fatto sancito la fine del dominio dello schieramento corleonese, di cui Messina Denaro rappresentava uno dei principali elementi, sulla Commissione mafiosa.
La figura di “U Siccu”, infatti, è stata oltremodo mitizzata dai media, che continuano a dipingerlo come il numero uno di Cosa Nostra. Una vera e propria fake news. In seguito alla morte di Salvatore Riina, spirato nel carcere di Parma nel novembre 2017, la Cupola mafiosa si è infatti riorganizzata in ottica “palermocentrica”. Prova ne è il massiccio ritorno in Sicilia degli “scappati”, ovvero dei superstiti dei clan palermitani legati al duo Bontate-Inzerillo – distrutto dalla forza militare dei corleonesi nella Seconda guerra di mafia – avvenuto nell’ultimo decennio. Dopo la “mattanza” dei primi anni Ottanta, essi furono infatti messi al bando dalla Commissione provinciale di Cosa Nostra e cercarono protezione negli Stati Uniti, sotto l’ala della famiglia Gambino. Ma il diktat di Riina è ufficialmente scaduto da tempo.
Vi è però un indicatore ancora più pregnante della mancata salita al potere di “Diabolik” su tutta Cosa Nostra. Nel maggio 2018, dopo la dipartita di Totò Riina, i capimandamento avevano infatti ricostituito la Cupola ed eletto il nuovo capo dell’organizzazione: il gioielliere palermitano Settimo Mineo. Grazie alle intercettazioni ambientali, tra il dicembre 2018 e il gennaio 2019 le forze dell’ordine hanno provveduto ad arrestare i protagonisti di questo storico passaggio, assicurando alla giustizia una cinquantina di “uomini d’onore” tra vecchi boss e rampolli e decimando la Commissione. «I clan palermitani non accetterebbero mai di farsi guidare da un non palermitano, a cominciare da un trapanese», ha recentemente ribadito il Procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia.
E proprio qui sta l’essenza della mutazione della fisionomia di Cosa Nostra. Palermo e i palermitani ritornano, come da tradizione, al centro dello spaccato criminale della mafia, mentre la nuova frattura si concretizza tra il potere dei vecchi boss (anche e soprattutto quelli scarcerati dopo anni di galera, che spesso fanno le veci degli “stragisti” al 41-bis) e le nuove leve, che in tasca, oltre al revolver, tengono magari l’ultimo iPhone. “In Cosa Nostra palermitana, come in quelle attive nelle province occidentali e orientali della Sicilia, la prolungata assenza al vertice di una autorevole e riconosciuta leadership starebbe favorendo l’affermazione a capo di mandamenti e famiglie di nuovi esponenti che vantano un’origine familiare mafiosa – ha scritto la Dia all’interno della sua ultima relazione –. Non mancherebbero, tuttavia, i tentativi da parte di anziani uomini d’onore, recentemente ritornati in libertà, di riaccreditarsi all’interno dei sodalizi di appartenenza”.
Coesistendo sul territorio insieme ad “altre organizzazioni mafiose sia autoctone, sia straniere”, in ragione “di un’ampia varietà di rapporti e di mutevoli equilibri”, secondo gli inquirenti Cosa Nostra continua tener fede alla “strategia della sommersione” al fine di “evitare allarme sociale”, continuando a giocare un ruolo importante nel traffico di stupefacenti, nelle estorsioni, nell’infiltrazione della Pa e nell’economia legale, nonché nel gioco e nelle scommesse online. Insomma, Cosa Nostra “orizzontalizza” sempre di più i suoi rapporti, divenendo sempre più fluida e cercando nuove opportunità di crescita senza ricorrere allo scontro frontale con le autorità.
«Proprio la cattura di Matteo Messina Denaro dimostra che Cosa Nostra esiste ancora e, superata la frattura fra corleonesi e perdenti, prosegue nei suoi traffici attraverso la strategia della sommersione che ha consentito al latitante più ricercato dell’organizzazione di farsi curare in una clinica di Palermo per un lungo periodo, come negli anni Ottanta, allorché le reti di protezione e l’omertà, ben miscelate, consentivano ad altri mafiosi latitanti di girare indisturbati per le vie della città – ha spiegato il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Palermo, Lia Sava -. È stata clonata l’espressione: “camaleonte resiliente”, una mafia che sa mimetizzarsi. Preferisco un’altra espressione: mafia liquida, capace di passare attraverso i differenti stati della fisica. A volte è allo stato gassoso e la respiriamo in certi contesti ambigui, dove è difficile toccarla ma se ne avverte l’olezzo della compiacenza e dell’ammiccamento».
Nessun trionfalismo o respiro di sollievo, dunque, dopo la morte di Matteo Messina Denaro. La mafia siciliana, pur tra mille difficoltà, dopo due secoli di storia è ancora lì, pronta a rigenerarsi per l’ennesima volta.
[di Stefano Baudino]