Da ormai diversi mesi si parla insistentemente di inflazione. Esperti e presunti tali ci spiegano quale sarebbe la loro soluzione ideale, mentre i governi che si susseguono, prima quello di Draghi e ora quello di Giorgia Meloni, elargiscono miserrime mancette, perseguendo al contempo un unico obiettivo: la difesa dei profitti. Al di là di questo rumore di fondo, però, l’inflazione è un fenomeno dannatamente concreto e materiale, con ripercussioni evidenti sulle condizioni materiali di lavoratrici e lavoratori.
Infatti, se da un lato essa può essere il sintomo di un elevato livello del conflitto di classe, nel quale la classe lavoratrice dimostra di avere la forza per proteggere il suo salario dall’aumento dei prezzi o addirittura di essere capace di ottenere aumenti dei salari reali, dall’altro può avere ripercussioni drammatiche sulla distribuzione del reddito, erodendo in maniera significativa il salario reale, se l’aumento dei prezzi riguarda le merci o le materie prime importate e avviene in un contesto in cui il potere contrattuale dei lavoratori e la loro combattività risultano già erosi.
Il primo caso, quello in cui l’inflazione è la forma con cui il conflitto distributivo si palesa, può essere rintracciato in ciò che avvenne a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70 in Italia. Una classe lavoratrice agguerrita e fortemente sindacalizzata, protetta dal meccanismo della scala mobile, e, in un’economia che cresceva creando posti di lavoro, stava riuscendo non solo a mantenere inalterato il proprio salario reale, ma anche a farlo crescere, erodendo i profitti. In altre parole, l’aumento dei prezzi che i padroni riuscivano ad imporre non era tale da recuperare l’aumento dei salari monetari che i lavoratori erano riusciti a strappare nelle varie tornate di contrattazione: il risultato era una sostenuta dinamica dell’inflazione accompagnata da una crescita dei salari reali.
Questa dinamica riuscì a resistere alla prima crisi petrolifera e al conseguente aumento del costo dell’energia del 1973 ma dopo la seconda crisi energetica del 1979, iniziò una violenta fase di restaurazione del potere padronale, fatta di alta disoccupazione, riorganizzazione aziendale e progressivo smantellamento del meccanismo della scala mobile. Tra il 1960 e il 1979 infatti, con una crescita media dei salari nominali del 12% e dei prezzi pari all’8%, i salari reali erano cresciuti in media del 4,7% all’anno. Da allora, si ridusse l’inflazione, ma si ridusse drammaticamente anche il tasso di crescita dei salari nominali che non riuscirà più a tenere il passo dei prezzi. Infatti, i salari reali crebbero solo dello 0,5% tra 1980 e 2000, addirittura riducendosi dello 0,4% tra 2000 e 2020. Non a caso, l’Italia risulta l’unico paese OCSE in cui i salari reali si sono addirittura ridotti nei 30 anni tra il 1990 e il 2020.
L’attuale ondata inflazionistica giunge in un contesto drammaticamente diverso. Dagli anni ’80 si è assistito a una rapida e progressiva erosione della posizione contrattuale dei lavoratori. Complice il processo di integrazione europeo, liberalizzazioni e austerità sono state le pietre miliari attorno a cui si sono sviluppate le politiche nazionali, che hanno prodotto alta disoccupazione e basse tutele per i pochi fortunati che trovavano un lavoro. Così, alla vigilia della scintilla inflazionistica, l’Italia si trovava a fronteggiare l’11% di disoccupazione, una legislazione del lavoro martoriata da un ventennio di riforme che avevano imposto precarietà e povertà lavorativa.
In questo contesto, si assiste al repentino aumento del prezzo dei beni energetici, che triplicano tra il giugno del 2021 e il dicembre del 2022. In particolare, ad aumentare sono i prezzi dei beni energetici importati, la cui salita inizia già nel maggio del 2020 (con l’indice dei prezzi dei beni energetici importati pari a 103) e termina nel dicembre del 2022 (con lo stesso indice a un livello di 364). La conseguenza è un deciso aumento dei prezzi dei beni consumati dai lavoratori e dalle lavoratrici. L’indice dei prezzi dei beni al consumo (il cd. IPCA) inizia a crescere a un ritmo sempre più sostenuto, fino a raggiungere il picco nel dicembre del 2022, con un tasso di crescita di circa il 12%, per poi iniziare una progressiva discesa sino al 6,7% del giugno del 2023.
Risulta però assolutamente indispensabile sottolineare che il rallentamento della variazione dell’indice dei prezzi (vale a dire, dell’inflazione) non significa affatto che il livello dei prezzi si stia riducendo, ma soltanto che stia aumentando più lentamente e in maniera minore rispetto a prima.
Il risultato è che, se è vero come è vero che l’aumento dei salari nominali contrattati da lavoratori è inferiore all’aumento dei prezzi, i salari reali ne risultano drammaticamente ridotti tanto che il loro livello, alla fine del 2022 è ben inferiore a quello del 2018. Salari reali più bassi significa, banalmente, un minor numero di beni e servizi che i lavoratori sono in grado di consumare. Per essere ancora più espliciti significa che i consumatori possono consumare meno cibo, utilizzare meno mezzi di trasporto, comprare meno libri o accedere a un numero minore di cure specialistiche.
E i padroni? I padroni se la passano bene e sono riusciti quantomeno a scaricare sui prezzi l’intero aumento dei costi dei beni intermedi. Il risultato ne è stato un ulteriore aumento della quota dei profitti, vale a dire della parte del reddito nazionale di cui si appropriano i proprietari dei mezzi di produzione. Aumento che è stato particolarmente pronunciato nell’industria, trainato da ciò che stava accadendo nel settore dell’energia. Infatti, in soli 4 anni, la quota profitti nel settore industriale è passata dal 40% al 45% circa.
Ma vi è di più, mentre dopo dicembre del 2022 il ritmo di crescita dei prezzi inizia a rallentare, sembra che nell’economia Italiana si assista a un, seppur modesto, aumento dei mark-up nel settore dell’industria e anche nel sotto-settore manifatturiero. Il mark-up è una misura di profittabilità fornita dall’ISTAT e, detto in parole semplici, descrive di quanto è più alto il prezzo di vendita di un prodotto rispetto ai costi che devono essere sostenuti per produrlo.
In un contesto quale quello che abbiamo osservato negli ultimi mesi, un aumento del mark-up significa che non solo le imprese stanno scaricando sulle famiglie l’intero peso dei maggiori costi di produzione (maggiori spese per l’energia e per le materie prime, per esempio), ma stanno aumentando i propri prezzi in misura ancora maggiore, approfittando della ‘scusa’ dell’aumento dei prezzi dei beni energetici e dintorni per rimpolpare i propri profitti
Ciò sta contribuendo a rallentare il ritmo della caduta dell’inflazione. Vale a dire che, se le imprese non avessero aumentato il mark-up, l’inflazione si sarebbe ridotta in maniera più marcata di quanto è effettivamente avvenuto. Ciò ci porta ad almeno due conclusioni. Da un lato, se ciò avvenisse, si avrebbe un più veloce recupero dei salari reali. Dall’altro lato, svela quanto sia ipocrita, pezzente e ingordo, l’atteggiamento dei padroni, non solo restii a concedere aumenti salariali, ma intenti addirittura a chiedere di essere rimborsati dallo Stato quando in uno dei pochi settori rimasti tutelati (quello metalmeccanico), sono stati costretti a concedere un aumento sostanzioso. Questo ci dimostra, se ce ne fosse bisogno, degli enormi margini presenti nell’economia per intaccare la distribuzione del reddito e spostarla a favore dei lavoratori.
Infine, il mancato rallentamento dell’inflazione fornisce un pretesto ulteriore alla BCE per continuare ad aumentare i tassi d’interesse e affamare lavoratrici e lavoratori anche tramite questo canale. Un tasso di inflazione ritenuto ancora troppo elevato rappresenta infatti il pretesto perfetto per continuare con politiche monetarie restrittive, che hanno lo scopo deliberato di provocare una recessione e un inevitabile aumento della disoccupazione.
Se il quadro dipinto è fosco, ha il pregio, perlomeno, di mostrare l’unica via d’uscita: per combattere l’inflazione basta combatterla, impedendo ai padroni di continuare ad aumentare i prezzi. Per farlo serve un intervento pubblico a livello centrale e locale, che sembra oggi improbabile, nonostante le sceneggiate del governo. Una mobilitazione generale sul tema del carovita e dei salari è l’unica strada da percorrere per imporre l’introduzione di tutte le misure necessarie