In Medio Oriente si scatena una nuova guerra tra Hamas ed Israele, con la destra di Tel Aviv che ha soffiato sul fuoco del conflitto permanente nel regime di…
In Medio Oriente si scatena una nuova guerra tra Hamas ed Israele, con la destra di Tel Aviv che ha soffiato sul fuoco del conflitto permanente nel regime di apartheid nei confronti del popolo palestinese senza soluzione di continuità, aumentando progressivamente le provocazioni e rilanciando la questione dell’affermazione della sola cultura politica, sociale e civile sionista.
In Italia le manifestazioni sindacali che oggi aprono l’autunno di lotta contro i provvedimenti del governo Meloni non sono così lontane dal rivendicare, per l’appunto, una alternativa democratica allo sciovinismo di nuova generazione che ispira il clima antisociale odierno.
Quelle che si definiscono democrazie consolidate, che aspirano ad esserlo quasi storicamente parlando, hanno, poco o tanto, nel bene o nel male, con un pizzico di presunzione e con una generosa quantità di pressapochismo, incespicato nelle contraddizioni che proprio un regime universalistico, popolare, dove il parlamentarismo è al centro delle istituzioni, finisce con l’acquisire nel corso del suo stesso sviluppo.
Israele e l’Italia, da questa angolazione analitica e critica, non sono poi così diversi. Certo, si tratta di due avvicendamenti nella cronologia delle indipendenze nazionali che più differenti non potrebbero essere.
Ma il progressivo affermarsi di una destra nazionalista, che punta tutto sull’inimicizia con quelli che considera gli avversari primi (le sinistre in Italia, i palestinesi nei Territori occupati e a Gaza) e che su questa contrapposizione netta edifica un populismo privo di scrupoli, fatto tutto di retrività, di pregiudizi e di odio, delinea un quadro sostanzialmente simile a quello di altrettanti progetti conservatori e repressivi in molte parti del mondo.
Basti pensare in Europa ai governi polacco e ungherese. Oppure al trumpismo come fenomeno di sincretizzazione tra un conservatorismo parafascista, un culto dell’imprenditoria come elemento centrale della rinascita americana (“Make America Great Again“, il famoso acronimo MAGA) e quel complottismo qanonista, quelle fantasie che sono preda di un substrato iper-sottoproletario, largamente diffuse nelle fasce di popolazione più facilmente seducibili dalla credibilità del superficiale e dell’evidenza senza verifica alcuna dei fatti.
La destra da sempre fa leva sui timori più facilmente manovrabili da una eterogenesi di fini che confonde le acque, ingarbuglia i pensieri, sovrappone piani non intersecabili, altera la realtà e riempie di false notizie le tante testoline sempre più pneumaticamente vuote di generazioni di ogni età che sono mal disposte alla conoscenza approfondita e che vogliono la rassicurazione veloce, istantanea alle tante ansie che sono costrette a subire nel corso di una esistenza precaria e priva di certezze.
Israele tiene in scacco i palestinesi costruendo muri, appropriandosi delle terre cisgiordane, facendo di Gaza una prigione a cielo aperto, recludendo un intero popolo entro confini sempre più ristretti, privando intere zone del fondamentale diritto all’acqua, nonché all’assistenza medica, ai bisogni veramente, umanamente più elementari e, quindi, fondamentali per la vita di ciascuno (e di tutti).
Nell’Europa che pretenderemmo più civile le destre simili a quella di Netanyahu non perdono terreno nei sondaggi, nonostante un anno di governo in cui le promesse elettorali sono state praticamente tutte disattese.
Potrebbe anche essere un bene, se non fosse che quello che non si è realizzato, a paragone con quello che il governo Meloni ha fatto e tentato di fare, è certamente peggio perché non interviene minimamente nella natura concreta dei problemi sociali che stanno esacerbando gli animi, immiserendo il potere di acquisto di salari e pensioni, costringendo alla retrocessione in uno stato di vera e propria povertà endemica altri milioni di italiani.
Non che laddove la sinistra o il centrosinistra o i tentativi di coalizioni tra socialdemocratici, liberal-liberisti ed ecologisti hanno provato a gestire i governi abbiano capovolto una condizione di preesistente disagio sociale diffuso.
Ma, senza ombra di dubbio, le forze riformiste e riformatrici, non fosse altro per la loro naturale vicinanza allo stabilire un compromesso tra pretese del mercato e bisogni collettivi, avrebbero quanto meno evitato una saldatura tra il peggiore istinto regressivo in materia di diritti sociali e civili e le spinte iperliberiste tanto nazionali quanto continentali.
Il vento di destra, che è tornato a soffiare un po’ ovunque, ha avuto la capacità resiliente di adattarsi allo spirito dei tempi.
La guerra in Ucraina ne è un eclatantissimo esempio: nessuno (o quasi) si sarebbe potuto immaginare Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni e i suoi sodali aderire senza strepiti parolai sul diritto delle nazioni alla loro autodeterminazione, senza un po’ di bassa propaganda filo-oligarchica, rimarcante il caro vecchio stampo della democrazia autoritaria (come l’ebbe a definire Fausto Bertinotti, la “democratura“), alla dottrina imperialista della NATO e degli Stati Uniti d’America.
Ed invece è accaduto. Come è accaduto che la destra israeliana abbia ritrovato una energia politica nonostante le manifestazioni di massa contro una riforma della giustizia che assoggetta il potere magistratuale a quello dell’esecutivo.
Le polemiche di questi giorni sulla sentenza catanese sui migranti ingiustamente detenuti nei Centri di permanenza e di rimpatrio, sono forse una spia di allarme diverso rispetto ad una tendenza dei governi di destra a criticare qualunque decisione dei giudici che non vada nella direzione delle loro istanze politiche?
Tutto si tiene, tutto si salda, mentre l’opposizione sindacale, sociale e politica di un Paese frastornato, con la benzina oltre i due euro, con una scuola allo sbando e una sanità priva di qualunque finanziamento nella manovra di bilancio, prova oggi a farsi sentire in una prima grande manifestazione di piazza a Roma.
C’è chi sostiene che, nonostante la frattura su provvedimenti come il salario minimo bocciato dalla dirigenza del CNEL (dove la CGIL ha votato contro la proposta della dirigenza, la UIL si è astenuta, mentre la CISL – nessuna sorpresa… – ha votato a favore), il sindacato possa trovare una quadra nel definire il perimetro di una piattaforma rivendicativa per la proclamazione di un attesissimo sciopero generale nazionale.
Sarebbe un auspicio non di poco conto, visto che la marcia del governo contro occupazione, pensioni, redditi bassi, povertà e indigenza strutturale, diritti umani, civili e di ogni altra possibile classificazione si fa sempre più impetuosa e senza che, nemmeno per idea, si metta qualche minimo argine all’apertura di nuova, numerose falle nella gestione dei conti pubblici.
Se iniziano ad essere meno lineari e coerenti con l’alta fedeltà atlantica i propositi di ridare fiato al riarmo e alla continua spedizione di pacchetti bellici a Kiev, essenzialmente per ragioni prettamente economiche, un risvolto positivo per le altre voci di bilancio non si intravede nemmeno da lontano.
La condizione sociale nei paesi governati dalle destre estreme è oggetto di un triplice attacco: antisociale, antidemocratico e, come accennato prima, altamente sciovinista. Nazionalismo e militarismo si fondono in una simbiotica disposizione alla difesa degli interessi nazionali mediante la strutturazione di una logica di legge e ordine, di comando e di obbedienza.
Le coalizioni progressiste hanno avuto sino ad oggi un tratto marcatamente filocapitalista e, per questo, nel sostenere le politiche di privatizzazione dei servizi, di monopolio di grandi centri nevralgici pubblici da parte di aziende che hanno mirato solo al profitto, hanno creato le condizioni affinché la destra prendesse il sopravvento.
L’idea di Stato che le forze conservatrici portano avanti è quella di paesi e nazioni in cui l’esecutivo sia, unitamente alla forza di un presidenzialismo come espressione massima della delega popolare (che trascende da quella esclusivamente parlamentare), il centro nevralgico di un potere che preserva il liberismo da ogni critica, da ogni attacco, da ogni rivendicazione sindacale, operaia, di massa.
A questa interpretazione statalista dell’economia di mercato ipermoderna, transnazionale e globale, va necessariamente contrapposta una idea di Stato che sia, contemporaneamente, una idea di Società, con la esse maiuscola. Uno Stato, appunto, sociale. Uno Stato in cui l’elemento ricostituente le comunità e le singolarità sia affidato alla più larga condivisione delle decisioni e ad un ritrovato rapporto con i territori. Ma una sinistra capace di attribuirsi questo compito non può che essere proporzionalista in tutto e per tutto e, ovviamente, parlamentarista.
Noi diamo per scontato, tanto in Italia quanto in Israele, e forse lo davamo per scontato anche per quanto concerneva paesi come Ungheria e Polonia, che l’assemblearismo bicamerale o monocamerale fosse sufficiente a tratteggiare i contorni fisiognomico-politici di una repubblica altamente democratica, impossibilitata di per sé stessa a retrocedere sui piani inclinati dell’autoritarismo, dell’autocrazia, della repressione poliziesca e militarista.
La rimodulazione di una globalizzazione capitalistica nella nuova frontiera di un multipolarismo riemerso dalle macerie della Guerra fredda ha scombinato tutte le carte della Storia e, in particolare, quelle del presente – assente, dell’attualità velocissima che diviene già altro prima ancora di poter essere assimilata, capita, elaborata. Così oggi abbiamo un’Europa che rischia, nel voto del prossimo anno per il rinnovo del suo parlamento, di diventare qualcosa di molto simile all’Israele che circoscrive sé stesso dentro un identitarismo esasperato.
Rischiamo, con l’incertezza del voto presidenziale americano, di vedere un rigurgito del trumpismo che conoscevano, aggiornato però alle veloci mutazioni intercorse nel giro di quattro anni di accomodante, per niente progressista, energicamente imperialista profilo bideniano di una America che si sente priva di una collocazione nel mondo.
L’asse Medio Oriente – Europa – Stati Uniti è un confine netto tra la prosecuzione di un autolesionismo delle finte democrazie liberali e il ritorno delle democrature. Una linea di demarcazione fin troppo labile per poter garantire che, scivolando da una parte piuttosto che da un’altra si possano avvertire meno scosse telluriche nei confronti delle costituzioni, del diritto, delle leggi, dei rapporti quotidiani che intercorrono nell’interità della vita di un popolo.
La tragedia israelo-palestinese ne è un esempio davvero storico. L’involuzione dell’Europa nel teatro della guerra imperialista che si gioca sulla pelle del popolo ucraino può diventarlo. Per scongiurare il tutto, come recitava l’adagio antico, non è mai troppo tardi.
MARCO SFERINI