|Patrizio Digeva 

Al netto di tutto il più sincero sgomento che in questo preciso istante si può provare di fronte alla morte di innocenti civili da ambo le parti, per provare a capire davvero cosa stia accadendo a Gaza ed in Israele sarebbe necessario andare a ritroso e contestualizzare l’aspetto storico di questa annosa violenza. Un dato oggettivo colpisce subito: il doppio standard mediatico occidentale in azione. Cerchiamo di spiegarne le radici e le cause.

Sionismo e nascita di Israele

La formazione storica dello Stato di Israele non si può comprendere senza previamente analizzare un’ideologia sorta nella seconda metà del XIX secolo nell’Europa centro-orientale: il sionismo.

Fin dalle origini il sionismo è stato un movimento culturale ebraico di stampo nazionalista (poi gradualmente sviluppatosi secondo varie sfumature politiche, passando da un approccio socialista fino ad arrivare ad uno sciovinismo molto accentuato ed in parte ispirato perfino da ideali fascisteggianti) con l’obiettivo di creare un focolare nazionale giudaico in Palestina. Il nome deriva dalla denominazione di uno dei monti di Gerusalemme tradizionalmente più importanti : il Monte Sion.

Una svolta prettamente più politica al sionismo fu data da Theodor Herzl (1860 – 1904), un giornalista austro-ungarico di lingua tedesca che – persuaso dai frequenti casi di antisemitismo dell’epoca- ormai riteneva l’assimilazione ebraica in Europa un’utopia da realizzare. Autore de Lo Stato ebraico (Der Judenstaat, 1896), viene considerato il padre del sionismo moderno perché teorizzò le basi politiche per la creazione di uno Stato ebraico attraverso una programmata emigrazione di massa degli ebrei nella cosiddetta Terrasanta. Le soluzioni prospettate da Herzl erano idealmente indirizzate verso la Palestina, anche se – nel suo caso ad esempio- egli arrivò a non disdegnare posti alternativi quali l’Argentina o perfino l’Uganda.

Anteriormente alla prima guerra mondiale, il sionismo rappresentava solo una minoranza attiva di ebrei e nel 1914 in Palestina si contavano circa 90.000 persone. Allo scoppio delle ostilità, però, le azioni di due noti sionisti – Chaim Weizmann (futuro primo Presidente d’Israele) e Nahum Sokolow (futuro Presidente del Congresso Sionista Mondiale durante gli anni ‘30)- furono determinanti per ottenere dalla Gran Bretagna, attraverso la Dichiarazione Balfour (1917), la promessa per il sostegno inglese alla creazione di un focolare nazionale ebraico (national home for the Jewish people) in Medio-Oriente.

In quanto l’Impero Ottomano fu una delle potenze sconfitte, al termine del conflitto la Società delle Nazioni (antesignana dell’ONU) attraverso il Trattato di Sèvres del 1920 trasferì, in funzione antiottomana, la Palestina all’Impero di Re Giorgio V, creando il Mandato Britannico della Palestina. Questo perché -in precedenza- già nel 1916 era stato segretamente abbozzato tra Parigi e Londra un accordo, il Trattato Sykes-Picot, mirante a suddividere le rispettive sfere d’influenza medio-orientali una volta che Istanbul (allora capitale ottomana) sarebbe stata sconfitta.Fu così che i britannici, nel primo dopoguerra, iniziarono a farsi attivi promotori della causa migratoria ebraica andando in tal modo a ledere tangibilmente gli interessi delle popolazioni arabe locali; nonostante -in precedenza- la Gran Bretagna avesse sollecitato e strumentalizzato le loro aspirazioni indipendentiste in chiave antiottomana a fini militari e strategici per tutta la durata del conflitto. Tutto ciò ebbe come conseguenza la formazione di un forte risentimento all’interno della società palestinese.

Sotto il governo britannico, dunque, l’immigrazione ebraica aumentò esponenzialmente e nel marzo 1925 la popolazione giudaica in Palestina era ufficialmente stimata a 108.000, fino a salire a circa 238.000 (il 20% della popolazione) nel 1933 ( https://www.britannica.com/topic/Zionism ).

Si può già ben delineare ed intravedere quale portata ebbe una scelta politica del genere -forzatamente dettata dall’esterno da potenze aliene- sulle popolazioni autoctone. Le conseguenze, infatti, non si fecero attendere.

La componente araba della popolazione -intimorita dal progressivo afflusso in massa di nuove persone- iniziò ad opporsi in maniera più energica al sionismo e alla politica britannica che lo avallava. Le forze militari di Londra -sempre più alle strette- faticavano a mantenere l’ordine ed infine esplose una serie di rivolte, con atti di estrema ferocia da entrambe le parti. I moti del 1929 (durante i quali vide la luce il massacro di Hebron, con l’assassinio di quasi una settantina di ebrei), ma soprattutto La grande rivolta araba del 1936 palesarono una situazione drammatica e di latente violenza che il Regno Unito non poteva più ignorare.

Lo sforzo di reprimere la rivolta araba del 1936-1939, che fu molto più estesa e virulenta rispetto alle crisi precedenti, portò infine la Gran Bretagna a rivalutare le proprie decisioni politiche. Nella speranza di mantenere una pace duratura tra gli ebrei ed i palestinesi e di riottenere il sostegno degli arabi -così come durante il primo conflitto mondiale- per contrastare i nuovi nemici (cioè la Germania e l’Italia), alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale (1939) Londra pose restrizioni all’immigrazione degli ebrei, che portò alla pubblicazione del cosiddetto Terzo Libro Bianco sulla politica mandataria da seguire in Palestina.

Tuttavia, le nuove limitazioni furono brutalmente contrastate dalla nascita di gruppi sionisti clandestini, come la Banda Stern e l’Irgun Zvai Leumi, che commisero atti di terrorismo ed omicidi contro gli inglesi e contro i palestinesi e pianificarono illegalmente l’immigrazione ebraica. Entrambe le organizzazioni furono realtà paramilitari estremiste, di matrice ipernazionalista (per non dire propriamente fascista) e considerate terroriste, in un modo o nell’altro riconducibili al pensiero del sionismo revisionista di Vladimir Žabotinskij. 

La Banda Stern (o Lehi, formalmente Lohamei Herut Yisraʾel, cioè “Combattenti per la libertà di Israele”), fu fondata nel 1940 da Avraham Stern (1907–42) dopo una scissione dal movimento Irgun Zvai Leumi. Visceralmente antibritannico, Stern fondò la Lehi per staccarsi dall’Irgun, quando questo gruppo aveva deciso di unirsi all’Haganah (un’altra organizzazione sionista paramilitare, più per autodifesa che per offesa e successivamente inglobata nelle forze armate israeliane) con l’intento di affiancare gli Alleati nella lotta contro i nazisti. Il gruppo attaccò ripetutamente il personale britannico di stanza in Palestina e chiese persino aiuto alle potenze dell’Asse (https://www.britannica.com/topic/Zionism). Stern venne infine eliminato dalle forze dell’ordine inglesi.

Anche l’Irgun Zvai Leumi (“Organizzazione Militare Nazionale” fondata nel 1931) fu un movimento paramilitare clandestino di estrema destra e razzista e rappresentò una delle ali militari più radicali e sciovinistiche della corrente revisionista. Inizialmente sostenuto da molti partiti sionisti non socialisti -in opposizione all’Haganah- divenne nel 1936 uno strumento del sionismo revisionista. L’Irgun commise atti di terrorismo contro gli inglesi, che considerava occupanti illegali, e contro i palestinesi ed era ferocemente antiarabo. Tra le più brutali azioni che i membri di queste organizzazioni paramilitari portarono avanti contro la comunità araba dell’epoca certamente va ricordato il massacro perpetrato dalla Banda Stern e dall’Irgun a Deir Yassin (1948), durante il quale più di 100 civili arabi vennero uccisi.

E proprio il Partito Likud, di cui fa parte l’attuale premier israeliano Netanyahu, affonda le sue radici storiche (attraverso la figura di Menachem Begin, sesto premier israeliano) nel movimento sionista revisionista di Žabotinskij e nell’Irgun. Dopo la nascita di Israele, una serie di convergenze portò alla fondazione del Likud nel 1973 da parte di Begin, un ex-soldato con cittadinanza polacca ed appartenente al Secondo Corpo d’Armata Polacco al comando del generale Władysław Anders. Attraverso il corridoio persiano, il Corpo d’Armata Polacco arrivò in Palestina nel maggio 1942 sotto il comando alleato per essere equipaggiato e successivamente impiegato nel teatro bellico italiano.

Una volta giunto in Palestina, Begin -come molti altri suoi commilitoni ebrei polacchi- ottenne dal comando militare polacco un “congedo sine die” e decise di rimanere in Medio-Oriente per contribuire con la lotta armata all’instaurazione di un governo ebraico in Terrasanta, piuttosto che continuare a combattere i nazisti in Europa. Pertanto, si unì infine all’Irgun. L’esperienza bellica di questi soldati ebrei (compresa la nota Brigata ebraica/ Jewish Infantry Brigade Group in seno all’esercito britannico e reclutata tra gli ebrei già lì immigrati all’inizio del sec. XX) fu fondamentale per l’ulteriore sviluppo dell’incipiente expertise militare e strategica delle forze di combattimento ebraiche degli anni’40, che acquisirono sempre più sicurezza ed audacia di sé.

Nonostante la situazione in Palestina fosse ormai diventata endemicamente esplosiva, dall’altra parte -però- lo sterminio su larga scala degli ebrei europei da parte dei nazisti riportò la questione giudaica al centro dell’attenzione pubblica mondiale e molti dei sopravvissuti all’Olocausto si rassegnarono all’idea di cercare rifugio in Terrasanta, a detrimento del già fragile tessuto sociale palestinese e a vantaggio di un rinnovato interesse ebraico per l’ideologia sionista.

Il secondo conflitto mondiale rappresentò, pertanto, uno sciagurato spartiacque in seno alla comunità semitica (e non), e ciò è particolarmente evidente se si analizza l’area del Medio-Oriente. I pogrom prebellici, lo nascita e lo sviluppo del sionismo, la Shoah, le successive ondate migratorie ebraiche sempre più massicce nel Mandato Britannico della Palestina a grave scapito delle popolazioni arabe locali e la conseguente nascita dello Stato di Israele (1948) sono tutti dei fattori inestricabili alla base di questa polveriera.

Fino al 1948, gli scontri avevano preso la forma di una progressiva guerriglia civile in seno alla comunità semitica -più o meno forzatamente- lì coesistente;  ma la palese incapacità e la mancanza di volontà di una vera forma di mediazione tra le parti in causa da parte del governo britannico ed il il caotico ritiro delle sue unità militari fecero bruscamente precipitare gli eventi; tutto ciò nonostante si fosse già allora cercato di trovare una via d’uscita attraverso un previo Piano di partizione della Palestina (Risoluzione 181) elaborato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Uniteil quale -infine- non venne però accettato soprattutto (ma non esclusivamente) da parte araba.

Gaza post-1948

Né il Regno Unito né l’ONU riuscirono -quindi- a risolvere alle radici la controversia e questo ulteriore fiasco politico a livello interstatale portò infine (nel 1948) all’unilaterale dichiarazione di indipendenza israeliana a Tel Aviv per opera di David Ben Gurion, un ardente sionista ed ex-soldato della Legione ebraica -da non confondere con la Brigata ebraica degli anni ‘40- che aveva combattuto contro l’Impero Ottomano ed aveva prestato servizio al fianco dei britannici durante la prima guerra mondiale. Il riconoscimento diplomatico quasi istantaneo -e probabilmente anche emotivo per via della guerra mondiale da poco conclusasi- sia degli Stati Uniti sia dell’Unione Sovietica non tardò ad arrivare. Come risposta a quell’evento, gli Stati arabi circostanti –Egitto, (Trans)giordania, Siria, Libano e Iraq, compartecipi alla causa della componente araba della Palestina- dichiararono guerra affinché la neonata amministrazione governativa venisse schiacciata sul nascere. Tuttavia, a causa della mancanza di un reale coordinamento sul terreno e della susseguente disastrosa conduzione delle operazioni militari nel fronte arabo, la guerra venne inaspettatamente vinta da Tel Aviv. Le due denominazioni di questo primo aperto conflitto israelo-palestinese (1948) rispecchiano appieno i punti di vista opposti sulla questione: Guerra d’indipendenza per gli israeliani, Al-Nakba/ La catastrofe per i palestinesi. Di conseguenza, in Siria, in Libano, in Giordania e su Gaza – la quale era andata sotto il controllo militare egiziano dopo la partenza delle forze britanniche- si riversarono a centinaia di migliaia i primi profughi palestinesi scappati dalla guerra e cacciati dalle loro terre: si calcola all’incirca 700.000 rifugiati, che si videro per sempre negare il diritto al ritorno e ad ogni forma di riparazione per i torti subiti.

Nondimeno, nel 1967 ci fu un’altra guerra di impatto cruciale per gli equilibri nella regione: la Guerra dei sei giorni, durante la quale Israele riuscì a conquistare 1) la Striscia di Gaza e la Penisola del Sinai all’Egitto, 2) la Cisgiordania (inclusa la parte araba di Gerusalemme, cioè quella orientale) alla Giordania e 3) le Alture del Golan alla Siria.

Nel 1973 si ebbe una nuova crisi, sfociata nella cosiddetta Guerra del Kippur(dal nome della festività religiosa ebraica celebrata nel giorno in cui ebbero inizio le ostilità). Nel tentativo di riprendersi i territori precedentemente persi, l’Egitto e la Siria decisero di attaccare a sorpresa Israele, che sostanzialmente perse il controllo del Canale di Suez a favore del Cairo. Tuttavia, nonostante il Sinai fosse ritornato all’Egitto, le Alture del Golan rimasero (rimangono tuttora) in mano israeliana, ma soprattutto il nodo Gaza continuò a rimanere irrisolto, con tutte le problematiche relative ai profughi e alle loro miserevoli condizioni di vita.

Da lì in avanti, l’impegno degli Stati arabi circostanti nella loro lotta contro Israele venne arginato da una loro graduale volontà di normalizzazione nei rapporti con Tel Aviv (Egitto e Giordania in primis) ed un peso sempre più determinante nella lotta per la propria liberazione nazionale iniziò ad averlo l‘Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

In base ai successivi accordi di Oslo del 1993 tra l’OLP di Yasser Arafat ed il governo di Yitzhak Rabin (con la mediazione degli Stati Uniti di Clinton), Israele venne ufficialmente accettata come entità politica dallo stesso Arafat, mentre il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte israeliana (e non solo) non arrivò mai. In base a quegli accordi, Gaza sarebbe dovuta essere governata dall’Autorità nazionale palestinese (ANP, una filiale dell’OLP ed istituita grazie ai negoziati in Norvegia per l’appunto), con la quale Tel Aviv aveva stretto un accordo.

La presenza militare israeliana nella Striscia di Gaza si è però protratta fino al 2005 quando – finalmente- sotto la crescente pressione della comunità internazionale il premier israeliano Ariel Sharon ha deciso di ritirare le forze armate d’occupazione dopo quasi quarant’anni.

Con il passare degli anni, dunque, a Gaza si è sviluppato un sentimento di disillusione e di tradimento sempre più consistente nei confronti dell’ANP, dato che il tanto agognato riconoscimento internazionale non hai mai visto la luce; in seguito, la progressiva estremizzazione degli animi dei gazesi di fronte ai sistematici crimini israeliani portati avanti nella più ipocrita e silenziosa connivenza dei Paesi occidentali ha condotto (non sorprendentemente) alla vittoria il Partito islamista Hamas durante le elezioni del 2006 a Gaza.  

Per tutta risposta, l’anno successivo (2007)in maniera affatto unilaterale Israele ha deciso di imporre –in spregio ad ogni principio di diritto internazionale- un embargo verso la Striscia, andando in tal modo a radicalizzare ulteriormente gli animi di persone già esasperate e ridotte allo stremo sia fisicamente sia psicologicamente.

La Croce Rossa Internazionale (https://www.aljazeera.com/news/2023/10/9/is-total-gaza-blockade-a-collective-punishment-against-palestinians) e gruppi di esperti di diritti umani in seno alle Nazioni Unite (https://www.reuters.com/article/us-un-gaza-rights-idUSTRE78C59R20110913) hanno più volte dichiarato illegale l’embargo; organi di stampa indipendenti ed organizzazioni non governative comeHuman Rights Watch (https://www.hrw.org/news/2022/06/14/gaza-israels-open-air-prison-15) ed Amnesty International hanno definito Gaza una prigione a cielo aperto e descritto lo Stato israeliano come un Paese esplicitamente fondato sull’apartheid (https://www.amnesty.org/en/latest/news/2022/02/israels-apartheid-against-palestinians-a-cruel-system-of-domination-and-a-crime-against-humanity/).

Attualmente, la Palestina è riconosciuta da 138 dei 193 Stati membri dell’ ONU, con la clamorosa eccezione dei più importanti Paesi europei (Francia, Germania, Italia, Regno Unito), degli Stati Uniti, del Canada, dell’Australia e del Giappone. I palestinesi (supportati in ciò dalla Risoluzione 43/177 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1988 – https://digitallibrary.un.org/record/53922?ln=en – e dal diritto internazionale) rivendicano la loro sovranità su un’area divisa in tre principali territori, peraltro discontinui tra di loro: 1) Gerusalemme est come capitale designata de iure, 2) la Cisgiordania (con Ramallah divenuta de facto capitale),  e 3) Gaza. Allo stato presente, tuttavia, a seguito della Guerra dei sei giorni del 1967 la Palestina continua per gran parte ad essere occupata da Israele.

• Gerusalemme est è de facto sotto il controllo israeliano;

• la Cisgiordania è divisa tra alcune zone sotto l’amminisrazione di Tel Aviv ed altre facenti capo all’ANP (l’attuale Presidente è Mahmud Abbas): l’area A è sotto effettivo controllo del governo palestinese; l’area B sotto il controllo congiunto israelo-palestinese; l’area C (la porzione più grande) è sotto il totale controllo governativo israeliano ed è un territorio sotto legge marziale, nel quale i pochi palestinesi presenti vengono giudicati dai tribunali militari, mentre gli ebrei da quelli civili.

In ebraico la Cisgiordania è vista come il settimo distretto nazionale (non riconosciuto però come giurisdizione di Tel Aviv da nessuna nazione al mondo) ed è conosciuta con il nome di Giudea e Samaria; una denominazione fortemente contestata dai palestinesi, in quanto è considerata dall’ONU e dalla Corte Internazionale di Giustizia come territorio palestinese occupato. In Cisgiordania ci sono decine di colonie illegali che Israele mantiene in vita e che sono ritenute il principale ostacolo a una pace duratura fra gli israeliani ed i palestinesi e che sono spesso al centro delle violenze e delle tensioni che coinvolgono ciclicamente questo pezzo di mondo ( https://www.ilpost.it/2023/01/30/colonie-israeliane-cisgiordania/ ).

È facile intuire come il presente governo di destra di Netanyahu (spostato su posizioni esplicitamente razziste) sia un esecutivo che finora non si è mai fatto nessun problema a promuovere in maniera attiva ed illegale questo tipo di colonie; in tal modo alimentando ulteriormente angoscia ed un crescente malcontento tra i palestinesi. A guardare i membri dell’attuale gabinetto di Netanyahu, infatti, il timore è più che fondato: di recente, il caso più eclatante è rappresentato dalle parole del ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich (leader del Partito Sionista Religioso), il quale di recente ha apertamente ammesso di essere “un fascista omofobo” ma di “non lapidare i gay“. ( https://www.haaretz.com/israel-news/2023-01-16/ty-article/.premium/israels-far-right-finance-minister-im-a-fascist-homophobe-but-i-wont-stone-gays/00000185-b921-de59-a98f-ff7f47c70000 ).

• Gaza, solo dopo il ritiro dei soldati israeliani nel 2005, è passata finalmente sotto il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Tuttavia, come precedentemente analizzato, in seguito alle elezioni legislative del 2006 Gaza è controllata da Hamas (che in ultima analisi attua in grande autonomia da Ramallah). Le Nazioni Unite, le organizzazioni internazionali per i diritti umani, e la maggioranza dei governi e dei giuristi considerano il territorio ancora occupato da Israele, che mantiene sulla Striscia un blocco. Israele controlla lo spazio aereo e marittimo della striscia, sei dei sette attraversamenti della frontiera terrestre e il movimento di merci e persone dentro e fuori dalla striscia ( https://www.ilmessaggero.it/t/gaza ).

Pertanto, riassumendo e cercando di fare uno speculare salto logico per mettersi nei panni dei palestinesi ed avere una visione più imparziale e più veritiera della situazione, si può a ragione affermare che non è un caso che proprio gli abitanti di Gaza si siano gradualmente avvicinati ad un Partito radicale e fondamentalista come Hamas, che fa della religione una sua componente culturale ed identitaria irrinunciabile ed in aperta contrapposizione a Israele e al sionismo.

Dato il contesto di partenza e sebbene l’esistenza quotidiana a Gaza sia diventata sinonimo di sopravvivenza e non di vita in una striscia di terra così artificialmente sovrappopolata (2.1 milioni di persone -inclusi 1.7 milioni di rifugiati- su un’area di 365 km² https://www.unrwa.org/where-we-work/gaza-strip), nondimeno la faziosità della sfera politica occidentale è diventata sempre più lampante; e la nostra propaganda, a suo modo, ci subissa di subdole notizie con latenti griglie interpretative già preconfezionate. A mio avviso, uno dei recentissimi capolavori propagandistici più spregiudicati ed incentrati sulla strumentalizzazione dei diritti umani in base alle convenienze geopolitiche è stato quello di vedere la sagoma della bandiera israeliana colorare alcuni degli edifici europei più emblematici. Infatti, solo così si può legittimare agli occhi dell’opinione pubblica la comoda, ma mistificatoria, narrazione – con il strategico ausilio dei media- dell’esistenza di una parte del mondo civile occidentale e “democratico” che è posta di fronte alle vitali sfide incarnate dall’altra parte del globo intrinsecamente antidemocratico e dedito alla violenza. Una visione delle cose che si materializza, così, in maniera spontanea nell’analisi ideologica e concettuale della stragrande maggioranza delle persone in Occidente.

Eppure , simmetricamente, Israele non ha nulla da invidiare al Sudafrica dell’ apartheid o agli Stati Uniti di pochi decenni fa e nei quali vigeva la segregazione razziale; solo per fare alcuni noti esempi. Ciononostante, in giro per l’Europa non si sono mai viste bandiere palestinesi sugli edifici pubblici quando a soffrire e a morire ingiustamente per mano dell’esercito israeliano erano donne, vecchi e bambini palestinesi. Come se le loro vite contassero di meno, in base al processo mediatico di disumanizzazione del nemico.

Di conseguenza -alla luce di quanto finora approfondito- la domanda da porsi dovrebbe essere: ci si poteva seriamente aspettare quiete e passività da una fetta di popolazione da tempo messa con le spalle al muro e con gli animi lacerati fino all’estremo, soprattutto per quanto riguarda i civili che vivono a Gaza? Ma i video dei palestinesi umiliati, delle loro case distrutte, dei loro diritti quotidianamente profanati, dei sistematici soprusi da parte dei coloni provenienti dagli insediamenti illegali oppure da parte delle forze di occupazione israeliana fanno meno scalpore, perché far passare l’idea che i palestinesi siano tutti terroristi è più conveniente.

Benvenuti nel mondo del doppio standard: carnefici di serie A e di serie B e, specularmente, vittime di serie A e di serie B.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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