Nei camion che ancora poche settimane fa trasportavano gelati, ora si ammassano i corpi dei palestinesi che continuano ad essere uccisi dai bombardamenti israeliani su Gaza. Non si trova praticamente più nulla nella Striscia: l’acqua è stata riaperta soltanto nel sud del fazzoletto di terra a ridosso del Mediterraneo e c’è chi afferma che ormai la gente, per bere si rivolga direttamente alla salinità indigeribile del mare.
Netanyahu appare sempre di più in difficoltà, isolato persino dai suoi alleati storici, dalla potente Repubblica stellata che gira con Blinken tutte le cancellerie mediorientali ma che sortisce soltanto il risultato di poter far uscire dalla prigione a cielo aperto i palestinesi con passaporto anche americano. Il valico di Rafah è praticamente chiuso. Qualche bomba è stata sganciata proprio lì nei dintorni, tanto per far capire a tutti chi comanda.
I bambini assassinati, come quelli israeliani, da una guerra di cui non fanno parte, sono quasi un migliaio. La strage degli innocenti si ripete.
Ma questa volta a farla sono, per pura vendetta, quelli che tanto, tanto tempo fa l’avevano subita per timore che il trono del faraone fosse minacciato dal “liberatore” che sarebbe dovuto arrivare per il popolo di Israele. Adesso Israele porta la morte a Gaza, porta la distruzione di tutto e di tutti: i quartieri della città iniziano a somigliare a delle colline di macerie.
Le strade sono irriconoscibili. Girano dei video in rete in cui si mettono a confronto il prima e il dopo i bombardamenti. Quasi seimila incursioni e palazzi, intere zone che non esistono più. Alla richiesta internazionale di mandare almeno le medicine agli ospedali, il governo di unità nazionale, il gabinetto di guerra di Netanyahu e Gantz, ha risposto con un perentoriamente stentorio, maiuscolamente secco NO.
Non c’è pietà per niente e per nessuno. La strage perpetrata da Hamas diventa il punto di partenza di una ritorsione che si allarga oltre la ricerca dei terroristi e la loro eliminazione.
Una terminologia di guerra che tocca adottare, pur nella spregevolezza che non nasconde nemmeno molto dietro gli intenti di rappresentare quella caccia al criminale che una democrazia dovrebbe mettere in pratica ricordandosi tanto del proprio diritto interno quanto di quello internazionale.
Mentre Gaza muore, e nemmeno poi così lentamente, anche se i palestinesi muoiono senza terra e libertà da oltre settantacinque anni, la diplomazia dell’ONU è sbeffeggiata, inascoltata come, del resto, le risoluzioni più e più volte violate da Tel Aviv nel corso degli ultimi cinquant’anni.
Il massacro di Hamas, di oltre mille e duecento israeliani, di bambini decapitati, bruciati, annientati nella peggiore tradizione del jihadismo radicale, fanatico e che ha in spregio le vite di chiunque considera indegno di esistere perché apostata e quindi apertamente infedele, nonostante sia ormai numericamente oltrepassato dalla rappresaglia israeliana, funziona da deterrente ormai per ogni azione che lo Stato ebraico intende e intenderà mettere in essere.
Dall’altro lato della barricata i movimenti jihadisti, esacerbati dai loro leader e da una situazione contingente in cui è abbastanza facile sobillare gli istinti primordiali di chi patisce un regime di apartheid da decenni e decenni, di occupazione di territori (ergo, di esistente in tutto e per tutto) e di deprivazione di qualunque diritto fondamentale, umano, civile e morale, agitano lo spettro di una nuova guerra all’Occidente.
Gli effetti si vedono in queste ore in una Europa che precipita ancora una volta nell’incubo dell’attacco dei cosiddetti “lupi solitari“, degli elementi apparentemente sganciati dalle cellule del terrore di Al Qaeda prima e dell’ISIS poi, per agire singolarmente e provocare il panico nelle nazioni del Vecchio continente.
Dall’insegnante accoltellato e assassinato ad Arras ai falsi allarmi bomba per il Louvre e per la reggia di Versailles, fino alla morte dei tue tifosi svedesi uccisi da Abdesalem Lassoued, un tunisino (pare) già noto ai servizi segreti anche belgi per la sua radicalizzazione entro il perimetro criminale dello jihadismo di matrice siriano-irachena.
L’allarme è più che comprensibile e giustificato, non fosse altro per metterci in guardia tutti da atti sconsiderati che possono arrivare all’improvviso e da cui occorre difendersi nel miglior modo possibile.
Ma l’isteria diffusa da certi organi di stampa è veramente preda di una convulsione mai vista prima: dal chiamare i criminali di Hamas “comunisti islamici” al fare appello agli ebrei d’Europa affinché inizino a nascondersi come ai tempi del Terzo Reich.
Chiaramente, il tutto contornato da una descrizione della sinistra e del progressismo come fiancheggiatori di un indipendentismo palestinese che esula dalle vere ragioni della causa delle genti di Cisgiordania e Gaza e fa, invece, riferimento pelosamente cinico e baro ad una nuova guerra tra civiltà.
Il giochetto è noto: dividere in soli due campi le posizioni che possono invece essere più articolate, grazie a ragionamenti che facciano riferimento ad analisi circostanziate delle cause storiche e più attuali che hanno condotto alla situazione di crisi internazionale in cui il mondo intero sta precipitando. Non ci deve essere spazio per le terze posizioni. Soltanto due devono essere: o si sta con Putin o si sta con Zelensky, o si sta con Hamas o si sta con Israele.
Per la pace, il disarmo, la via diplomatica, quella di una ritorsione da Stato democratico nei confronti di un nucleo ben organizzato di terroristi militarizzati e anche altamente istituzionalizzati (grazie anche al sostegno di Israele in funzione anti-ANP), non può esservi alcuna possibilità, se non di protagonismo, almeno di un minimo diritto di tribuna. Per le posizioni che intercapedizzano, che si frappongono tra gli attori di stragi e di repressioni cruente e indiscriminate, non c’è spazio, non c’è considerazione alcuna.
Questo non è, purtroppo, un alibi che l’Europa può darsi in questo frangente di ribollenti fenomeni internazionali di devastazione di interi popoli.
Se sul fronte ucraino la scelta è stata di non scegliere l’autonomia rispetto all’impulso imperialistico della NATO e degli Stati Uniti d’America, su quello mediorientale il silenzio più assoluto è il protagonista di un disimpegno delle istituzioni di un aggregato di ventisette Stati che disfunziona solamente quando si tratta di reciproci rapporti economici e finanziari.
Una seconda portaerei americana, la Eisenhower, sta raggiungendo la Ford al largo delle coste israelo-palestinesi. La deterrenze che Biden vorrebbe mettere in pratica sembrerebbe essere duplice: nei confronti di un alzo di tiro da parte di Tel Aviv nei confronti del dramma di Gaza (e della Cisgiordania), anzitutto; e rispetto ad una diffusione del conflitto oltre i confini che al momento si è dato.
Quelli, per intenderci, di una guerra giocata tra lo Stato ebraico e, al massimo, i confinanti libanesi e siriani indirettamente tirati dentro ad un raffronto più strategico che tattico.
Incursioni aeree sulle basi di Hezbollah da un lato, puntate sugli aeroporti e i siti strategici sempre filo-iraniani presenti nella città di Aleppo. Un messaggio diretto agli interessati affratellati con Hamas ed anche ai governi di Beirut e Damasco,
Un messaggio che, però, rischia di essere interpretato – come parrebbe del resto essere… – alla stregua di una prepotenza dai contorni imperialisti: una minaccia dichiaratamente tale verso quel mondo arabo di cui Israele non fa parte, da cui è circondato e di cui ha sottovalutato molte delle rivendicazioni in questi ultimi anni, provocando reazioni incontrollabili con la violazione dei luoghi sacri all’Islam e, quindi, sacri anche come immagina laica per un popolo palestinese che è anche di religione coranica.
Non dimentichiamoci che, tra tutte le contraddizioni che la Storia della Palestina e della diaspora ebraica ci consegnano da millanta anni, c’è soprattutto quella dell’incontro delle tre grandi religioni monoteiste mondiali: ebraismo, cristianesimo, islamismo.
E che molti palestinesi sono cristiani, altrettanti sono laici e che, nella Striscia di Gaza, il proselitismo coranico è stato possibile proprio grazie alla reazione uguale e contraria stimolata dalla repressione israeliana, dalla creazione della prigione a cielo aperto da vent’anni a questa parte.
Noi, oggi, torniamo ad avere il timore di nuovi attentati nelle nostre città, nelle nostre capitali e rafforziamo le misure di sicurezza, mescolando la questione migratoria a quella delle guerre storiche di determinate porzioni di zone in cui i conflitti si sono intersecati, sovrapposti, sommati e nuovamente separati fra loro.
Questa incapacità di discernere le origini degli eventi, di evitare di cadere in quei fraintendimenti che alcune forze politiche orchestrano per creare ancora più incertezza civile a scapito del disagio sociale, è un vero dramma culturale e antropologico.
Un dramma perché si unisce alle tante pregiudizialità che si sono andate costruendo nel tempo e che hanno sostituito la cultura della solidarietà, della costituzionale uguaglianza fra tutti gli italiani, fra gli europei e fra qualunque essere umano, da qualunque parte della Terra provenga, ad una fantasia del complotto internazionale per la sostituzione etnica che, se paragonata al tentativo di Israele di ridimensionare all’estremo la presenza palestinese in Palestina, appare davvero come un crudele gioco di parole per significare la pochezza del razzismo e della xenofobia di casa nostra.
I problemi che riguardano le relazioni internazionali sono molto più complessi, ed affondano le loro radici in una progressiva diminuzione della secolarizzazione di istituzioni piegate ad un teocraticismo nemmeno poi così occultato nei più recenti periodi di governo della destre estrema, iperreligiosa e sionisticamente fanatica tradotta in pratica dall’aggressività colonica degli israliani in Cisgiordania.
Quando si fa riferimento alla “democrazia” di Israele, e giustamente si richiama a valore indiscutibile la diversità tra il pluralismo politico di Tel Aviv rispetto all’autocraticismo dei paesi arabi limitrofi, si finisce oggi con lo smarrire il confronto tra democrazia formale e sostanziale.
Perché formalmente lo Stato ebraico è ancora una democrazia. Sostanzialmente corre davvero il rischio di una scissione con sé stesso, di un bipolarismo politico-istituzionale, di una separazione sempre più netta tra lo Stato e la popolazione, espressi entrambi nel concetto di “nazione“, proprio lì dove la reazione alla strage del rave e dei kibbutz diviene non intervento armato per eradicare Hamas da Gaza, ma aggressione militare all’intero popolo della Striscia.
Ogni democrazia, per quanto solida possa essere, o almeno sembrare tale, finisce col deperire in sé medesima nel momento in cui delega la propria rappresentanza ad eccezionalità come gabinetti di guerra, di unità nazionale, di tecnici e militari che assurgono al livello di nuovi politici un po’ improvvisati ma di riconosciuta competenza nei campi in cui vengono assegnati.
La guerra, oggi, è la cifra di tutte le altre cose.
Lo spazio per la pace è ridotto ad una mera rappresentanza ideologica e ideale che, tuttavia, deve trovare spazio in quei resistenti arcobaleno che stanno, necessariamente, dalla parte del più debole, dell’aggredito: che oggi può essere il popolo israeliano con i suoi mille e duecento morti fatti dalla spietatezza del jihadismo di Hamas; che domani può essere, anzi è già e sarà, il popolo di Gaza che muore sotto le tonnellate di bombe che gli piovono addosso.
Chi fa finta che le sfumature non esistano e che si possa imporre soltanto una alternativa a tutto questo: o con noi o contro di noi, fa un pessimo servizio a quel liberalismo cui intende sempre richiamarsi, a quell’elogio della democrazia che mette nero su bianco, che espone in cartelli, che avvicina agli orrori vasti del Novecento, a quella prospettiva di futuro che vorrebbe vedere tramite le lenti deformate dell’occidentalismo.
L’Europa, un tempo, ha conquistato il mondo. Adesso tante parti del mondo globalizzato si prendono la loro rivincita, per arrivare a quella sopravvivenza che le grandi potenze imperialiste dei secoli passati ritenevano impossibile senza l’accudimento dei paesi civili. C’è sempre qualcuno che si crede più civile di un altro e che, nel nome di questo principio etico, vuole esportare la democrazia, insegnare agli altri come vivere.
E c’è sempre qualche democrazia, come Israele, che partendo dal presupposto della superiorità tanto etica quanto militare, è pronta a dimostrare che lo smacco subito dalla sortita di Hamas nei kibbutz intorno alla Striscia di Gaza è stato un inciampo cui non si ricascherà più.
Ammesso che esista ancora un nemico palestinese da prendere come capro espiatorio, dopo aver fatto del fazzoletto di terra che si affaccia sul Mediterraneo un piccolo grande immenso cimitero.
MARCO SFERINI