Mario Lombardo
I regimi arabi alleati dell’Occidente sono sottoposti da oltre due settimane a enormi pressioni da parte delle rispettive popolazioni, unanimemente solidali con la causa palestinese e sempre più infuriate contro il regime sionista per il massacro quotidiano di civili innocenti nella striscia di Gaza. Tra i paesi in maggiore difficoltà alla luce dell’escalation del conflitto non c’è solo l’Arabia Saudita, che fino a tempi recentissimi sembrava vicina alla normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele, ma anche e soprattutto la Giordania. Il regno hashemita del sovrano Abdullah II si trova infatti a dover gestire una vera e propria polveriera in seguito all’operazione “Alluvione Al-Aqsa” lanciata da Hamas il 7 ottobre scorso, con ripetute manifestazioni di protesta contro Washington e Tel Aviv e richieste dilaganti di revocare l’accordo di pace del 1994 con lo stato ebraico.
In un’intervista al sito Middle East Eye, l’ex analista della CIA Bruce Riedel ha riassunto in maniera incisiva la situazione ad Amman. “Re Abdullah deve sostenere pressioni eccezionali senza avere soluzioni praticabili”, ha spiegato Riedel. Gli effetti della campagna israeliana a Gaza e la reazione del popolo giordano rappresentano “probabilmente la sfida più complicata dall’inizio del suo regno”. Infatti, la forze coinvolte nel conflitto e in grado di influenzarne l’andamento – Hamas, Israele, Hezbollah, Iran e Stati Uniti – “sono tutte fuori dal controllo” della Giordania.
Sintomo delle pressioni e dell’imbarazzo in cui si trova il regime sono le dichiarazioni pubbliche insolitamente sferzanti nei confronti di Israele dei diplomatici e dello stesso sovrano giordano. La definizione “crimine di guerra” è stata usata ripetutamente ad Amman in relazione alla campagna militare israeliana, mentre in più di un’occasione si sono registrati avvertimenti a non adottare iniziative che rappresenterebbero un “atto di guerra” per la Giordania, come l’espulsione verso l’Egitto o lo stesso regno hashemita dei palestinesi di Gaza. Anche la regina Rania, essa stessa di origine palestinese, ha parlato pubblicamente della guerra in un’intervista alla CNN, denunciando il “doppio standard” che caratterizza l’Occidente nell’approccio alle vicende israelo-palestinesi.
Il timore di gran lunga maggiore è appunto che il precipitare della situazione faccia esplodere definitivamente le tensioni interne. Recenti manifestazioni di protesta hanno già rischiato di degenerare, con i dimostranti giordani intenzionati ad assaltare le ambasciate di USA e Israele. Le forze di sicurezza sono finora riuscite a mantenere il controllo, bilanciando repressione e necessità di garantire una valvola di sfogo alla rabbia popolare.
L’aggravarsi della situazione a Gaza minaccia però di accendere ancora di più gli animi. Già il bombardamento dell’ospedale battista della settimana scorsa, in cui sono stati uccisi circa 500 palestinesi, ha messo a dura prova la tenuta del paese. Il re Abdullah ha accusato esplicitamente Israele del massacro, per poi cancellare un vertice in programma ad Amman con i presidenti di Egitto, Autorità Palestinese e Stati Uniti. A livello ufficiale, la decisione straordinaria è stata presa unilateralmente dal sovrano, ma in realtà Giordania e USA avrebbero stabilito di comune accordo di annullare l’evento, poiché l’arrivo nel paese di Biden in un frangente simile avrebbe potuto scatenare proteste difficili da contenere.
Il già citato articolo di Middle East Eye ha poi riportato il commento di un anonimo funzionario governativo giordano che avverte come l’invasione forse imminente delle forze di terra israeliane a Gaza sarebbe “uno scenario da incubo” per Abdullah, definito “più filo-occidentale della metà dei leader europei”. È evidente che le popolazioni arabe dirigono la propria rabbia verso i rispettivi leader che identificano correttamente come partner, se non fantocci, di Washington, dal momento che gli Stati Uniti stanno avallando i crimini di guerra israeliani contro i palestinesi.
La sola posizione geografica – tra Arabia Saudita, Cisgiordania, Iraq, Israele e Siria – rende l’idea della delicatezza della posizione della Giordania. Questo stesso fattore e la relativa stabilità garantita dagli equilibri di potere tra la monarchia hashemita e gli influenti clan arabi hanno fatto del paese un “asset” cruciale per la proiezione degli interessi occidentali in Medio Oriente. Il regno riceve così circa 1,6 miliardi di dollari in aiuti dagli Stati Uniti ogni anno e almeno tremila soldati americani sono ospitati in varie basi diffuse nel paese.
All’alleanza con l’Occidente si deve aggiungere il fattore demografico. Circa la metà della popolazione della Giordania è di origine palestinese. La prima ondata di palestinesi arrivò in seguito alla “Nakba” e altri ancora dopo la guerra dei Sei Giorni del 1967. La questione palestinese è quindi caldissima in Giordania, sia per la solidarietà con i residenti di Gaza e Cisgiordania sia per le preoccupazioni diffuse di una possibile nuova ondata di rifugiati che potrebbe essere causata dalle operazioni militari israeliane.
Malgrado il trattato di pace del 1994 con Israele fosse legato al processo di pace israelo-palestinese e avrebbe dovuto favorire la creazione di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale, la monarchia giordana ha sempre paventato le intenzioni israeliane di annettere l’intera Cisgiordania e la conseguente espulsione dei palestinesi oltre il fiume Giordano. Questo scenario si è ripresentato proprio in occasione del conflitto in corso, con il regime di Netanyahu che ha sollecitato l’evacuazione di oltre un milione di palestinese dal nord della striscia di Gaza in previsione di un’offensiva di terra.
In quell’occasione, re Abdullah aveva affermato che lo spostamento forzato dei residenti di Gaza rappresenta una “linea rossa” da non oltrepassare e, addirittura, un “atto di guerra” per il ministro degli Esteri giordano, Ayman Safadi. Un anonimo ex diplomatico occidentale con svariati anni di servizio in Giordania ha spiegato sempre al sito Middle East Eye che la monarchia hashemita “è terrorizzata dalla possibilità che gli israeliani stiano usando Gaza [e l’espulsione dei palestinesi dalla striscia] come una prova generale” per quanto potrebbero poi fare in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Se, cioè, l’allontanamento forzato da Gaza graverebbe principalmente sull’Egitto, la ripetizione dello stesso scenario negli altri due territori occupati sarebbe affare in primo luogo della Giordania.
L’appoggio alla causa palestinese si intreccia quindi alla minaccia di una nuova ondata di profughi che avrebbe effetti devastanti per le già dissestate finanze giordane. In entrambi i casi, il risultato è la crescente richiesta al sovrano di cancellare il trattato di pace con Israele, che non ha evidentemente prodotto i benefici auspicati. Nonostante le pressioni, è comunque altamente improbabile che Abdullah possa prendere una decisione in questo senso, a meno di eventi catastrofici nel prossimo futuro.
L’uscita dal trattato del 1994 comporterebbe infatti conseguenze disastrose sul fronte dei rapporti con l’Occidente e, soprattutto, gli Stati Uniti, che garantiscono di fatto la stabilità se non la sopravvivenza stessa del regno e della casa reale. Resta il fatto che Abdullah ha spazi di manovra molto stretti e, con il moltiplicarsi delle immagini raccapriccianti provenienti da Gaza, l’odio verso Washington e Tel Aviv prende sempre più forza, dilagando non solo tra la popolazione ma anche tra i livelli intermedi della burocrazia e dell’apparato governativo.
I problemi veri per il sovrano potrebbero alla fine arrivare nel caso la guerra in corso dovesse contagiare la Cisgiordania. A quel punto, le pressioni di quanti in Giordania già spingono per unirsi ai palestinesi oltreconfine potrebbero diventare irresistibili, sfociando in uno scontro aperto tra cittadini giordani e forze armate israeliane. La finzione della solidarietà del regime alla causa palestinese e della soluzione dei due stati, da salvaguardare assieme all’alleanza con gli USA e al trattato di pace con Israele, rischierebbe di crollare definitivamente, travolgendo la monarchia hashemita.
Un altro motivo di allarme per Abdullah è il successo ottenuto contro Israele nelle fasi iniziali dell’operazione iniziata il 7 ottobre di Hamas e delle altre organizzazioni islamiste della “Resistenza” palestinese, viste da sempre con sospetto ad Amman. Se da un lato e a livello teorico, il regno potrebbe essere sollevato dall’eliminazione di Hamas, gli effetti negativi di un’eventuale invasione israeliana di Gaza sarebbero senza dubbio maggiori per la Giordania, visto che finirebbe per radicalizzare la resistenza a discapito dei regimi arabi “moderati” collusi con l’Occidente e, più o meno apertamente, con lo stesso regime sionista.
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