Secondo i magistrati di Milano, le principali associazioni mafiose dello Stivale avrebbero trovato nella Lombardia il teatro per una grande alleanza. La DDA del capoluogo, coadiuvata dalle indagini del Nucleo investigativo dei carabinieri, si dice infatti certa del fatto che importanti clan di Cosa Nostra, della ‘Ndrangheta e della Camorra si siano riuniti in una vera e propria confederazione, detta “Consorzio”, per gestire in maniera organica affari e società, maneggiando milioni di euro. Al centro di tutto, la gestione del narcotraffico – business incredibilmente remunerativo –, l’infiltrazione del tessuto economico e imprenditoriale lombardo, il riciclaggio, le estorsioni. Le meticolose indagini dei pm hanno portato a 153 richieste d’arresto, inserite in un documento di ben 5mila pagine. Il gip, che ha disposto centinaia di perquisizioni e il sequestro di oltre 200 milioni di euro, ha però rigettato gran parte delle accuse, dando l’ok all’arresto solo di 11 persone (8 le aggravanti mafiose). Poiché un soggetto è nel frattempo deceduto, gli indagati a piede libero sono dunque 142, ma il pm ha già proposto appello al Tribunale del Riesame contro la decisione del giudice.
All’interno dell’indagine figurano personaggi e cosche di grande spessore criminale. Per quanto riguarda la ‘Ndrangheta, a essere colpiti dall’inchiesta sono, in particolare, il locale di Legnano – Lonate Pozzolo e le famiglie Iamonte e Romeo. Per la Camorra, a operare in Lombardia ci sarebbe il clan napolatano Senese, già radicatissimo a Roma. Cosa Nostra è invece rappresentata dal clan dei Fidanzati – in cui spiccano i nomi di Giuseppe e Stefano, rispettivamente figlio e fratello del capomafia Gaetano Fidanzati (che fu condannato al Maxiprocesso di Palermo dopo essere stato accusato dai pentiti Buscetta e Contorno) -, le famiglie gelesi Nicastro e Rinzivillo, la cosca catanese dei Mazzei. Ma un aggregato criminale è riconducibile ad elementi direttamente collegati al clan di Castelvetrano, che fu il feudo del superboss Matteo Messina Denaro: il suo parente Errante Parrino; i Pace, organici ai trapanesi; gli imprenditori Rosario e Giovanni Abilone, che hanno messo a disposizione del network criminale circa 200 società per il riciclaggio di denaro; Antonio Messina, detto “l’avvocato”. Proprio quest’ultimo partecipò a diversi incontri con i membri del “Consorzio” al bar San Vito di Campobello di Mazara, a circa un centinaio di metri dal covo in cui Messina Denaro conduceva la sua latitanza. Tali meeting, secondo la Procura (ma non secondo il gip) “documentano i collegamenti, nonché la cointeressenza negli ingenti affari economici, tra il sistema mafioso lombardo e l’ex latitante Matteo Messina Denaro”. Bernardo Pace, intercettato mentre parlava a bassa voce con un altro indagato, Domenico Tripodi, ritenuto contiguo alla locale di ‘Ndrangheta di Desio, riferendosi agli affari milanesi dice: «E non solo.. lo ha saputo pure lui», alludendo a un personaggio di cui, sussurrando, fa poi espressamente il nome: «Matteo Messina Denaro». In un’altra intercettazione si sente dire a Massimo Rosi, simbolo della locale di ’Ndrangheta di Lonate Pozzolo: «Io vengo a scoprire che lui (Amico, ndr) insomma è appoggiato bene. C’è Gambino, Messina Dera… Matteo Messina Denaro. Che cazzo vuoi meglio di iddi».
Il “sistema mafioso lombardo”, secondo le ipotesi avanzate dalla Procura, avrebbe riunito Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra con l’obiettivo di gestire “risorse finanziare, relazionali ed operative, attraverso un vincolo stabile tra loro caratterizzato dalla gestione ed ottimizzazione dei rilevanti profitti derivanti da sofisticate operazioni finanziarie realizzate mettendo in comune società, capitali e liquidità”. Il “Consorzio” – attivo in particolare a Milano, Varese e nelle rispettive Province – avrebbe operato su tantissimi fronti, tra cui il traffico e lo smercio di droga, la creazione di società per lucrare sull’Ecobonus e sul Covid, la gestione dei rapporti con sindaci, esponenti della politica regionale e parlamentari, l’estorsione e la rilevazione di aziende in crisi, il controllo degli appalti (anche nelle carceri), gli investimenti nel settore petrolifero. Eppure, secondo il gip, mancherebbe la forza intimidatrice tipica dell’associazione mafiosa, il che farebbe cadere moltissime accuse. Secondo i pm, invece, uno degli elementi che rappresenta il simbolo fattuale della “grande alleanza” tra le compagini mafiose è la presenza della “bacinella”, ovvero di una cassa comune a tutte le organizzazioni, in cui veniva versato il denaro, frutto del riciclaggio, che doveva essere impiegato per il sostentamento dei membri che finivano in galera. L’unitarietà della struttura sarebbe stata funzionale a massimizzare i profitti e a risolvere le controversie interne in maniera più celere ed efficace. Possibilmente in una logica di “sommersione”, senza fare rumore. «Asse non asse… costruiremo tutto… sempre dove con i proventi di Milano, Milano… con i proventi di Roma, Roma… con i proventi di Calabria, Calabria… con i proventi di Sicilia, Sicilia… abbiamo costruito un impero e ci siamo fatti autorizzati tutto da Milano… passando dalla Calabria, da Napoli, ovunque…», dice Amico in un’intercettazione. Parole che sembrano delineare un vero e proprio manifesto.
[di Stefano Baudino]