Sicuramente una parte del popolo israeliano se lo domanda il perché, pur sapendone la ragione, di tanta ferocia. Sia da parte di Hamas, sia da parte del governo di Tel Aviv. Una crudeltà omicida che va dall’azione terroristica alla vera e propria guerra di aggressione e, quindi, anche di vendetta nei confronti dell’intera popolazione che è reclusa nella Striscia di Gaza.
Ed altrettanto certamente una parte maggioritaria del popolo israeliano si interroga, dandosi più di una risposta, su cosa accadrà dopo che l’esercito sarà penetrato nella prigione a cielo aperto, preceduto da altri bombardamenti che gli spianeranno letteralmente ogni strada, e dopo che avrà preso il controllo del territorio ridotto ad un deserto di macerie, di migliaia di palestinesi morti, di altre migliaia di bambini sterminati.
Poi c’è un’altra parte del popolo israeliano e delle comunità ebraiche sparse per il mondo che, invece, reclama solamente la legge del taglione, laddove però, proprio nei meandri dell’antica civiltà babilonese e persino nelle remote righe del diritto romano si può trovare questo principio:«Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto [Se (una persona) mutila un’altra e non raggiunge un accordo con essa, sia applicata la legge del taglione]».
Persino i nostri lontanissimi padri prevedevano una alternativa all’ultima ratio, all’occhio per occhio che rende il mondo cieco, e stabilivano che solo dopo non essere arrivati ad un abboccamento benevolo e liquidatorio della questione, si rendesse al mutilatore la mutilazione che aveva provocato.
Oggi nemmeno più questo principio primitivamente e un po’ sadicamente feroce viene rispettato. Perché nella guerra mossa da Israele dopo i fatti del 7 ottobre si è ampiamente andati oltre la “compensazione” della legge del taglione. Hamas ha fatto strage di civili nei kibbutz, nel rave-party che si teneva nel deserto, ma molto vicino ai confini della Striscia di Gaza. Hamas terrorizzato centinaia e centinaia di persone innocenti, inermi, prive di qualunque collegamento con la politica di Netanyahu.
Hamas ha ucciso donne, anziani, bambini. Li ha bruciati, ha tagliato loro la gola. Ha dato seguito, colpo dopo colpo, ad un orrore quasi indicibile, molto simile a quello nazista. Anche se ogni orrore fa storia a sé e finisce con l’essere particolare per il contesto in cui prende forma e diventa una clava gettata contro interi popoli. Ma, resta il fatto, che il 7 ottobre il popolo israeliano ha vissuto la giornata più nera della sua storia in Palestina dal 1948 ad oggi.
Resta il fatto che quella strage di oltre millequattrocento persone è, e non può non essere, il punto di svolta di una storia che, in quanto ad efferetazze, non è mai finita dal secondo dopoguerra, dalla creazione dello Stato ebraico, dalla Nakba fino alla seconda Intifada, fino ai giorni nostri.
E rimane il fatto che, di contro, i palestinesi si sono visti restringere il loro spazio vitale in tutte e tre le dimensioni: in lunghezza, perché i coloni si sono appropriati – col benestare dei governi della destra sharoniana e poi di Netanyahu – di case, terreni, campi, acqua, diritti di proprietà, ricordi e sogni; in altezza, perché l’Autorità Nazionale di Abu Mazen è diventata una guardiana dell’ordine pubblico, ben lungi dall’essere anche lontana parente di una parvenza di Stato palestinese; in larghezza, perché dal deperimento dei diritti fondamentali per ogni essere vivente sono derivate una miseria incontrollabile, una sproporzione tra l’occidentale benessere israeliano e l’araba povertà dei Territori occupati.
Pochi giorni fa il Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres ha dichiarato:
«Ho condannato in modo inequivocabile gli orribili e inauditi atti di terrore compiuti da Hamas il 7 ottobre in Israele. Nulla può giustificare l’uccisione, il ferimento e il rapimento deliberato di civili – o il lancio di razzi contro obiettivi civili. […]
È importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione.
Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e tormentata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e le loro case demolite.
Le speranze di una soluzione politica alla loro situazione sono svanite. Ma le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas. E questi terribili attacchi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese».
Decontestualizzano le frasi prese a pretesto dal governo e dai rappresentanti israeliani all’ONU, si è costruita una narrazione che ha fatto di Guterres una sorta di nemico primo di Israele. Si dice da sempre che la prima vittima della guerra è la verità, o forse lo sono le vittime innocenti che vengono falciate dai colpi di arma da fuoco, dai coltelli dei criminali che si avventano su piccoli corpi del tutto indifesi; o forse, ancora, lo sono tutti quei civili deboli, fragili, che rimangono sepolti sotto piani e piani di palazzi che lasciano un tremendo vuoto tutto intorno
Ma la prima vittima della guerra, dopo le migliaia e migliaia di morti assassinati da Hamas e dagli ordini dati dal governo israeliano al suo esercito, alla sua aviazione, è l’onestà del rispetto di una oggettività dei fatti, delle parole stesse che vengono trasformate – come nel caso del discorso di Guterres alla sessione del Consiglio di Sicurezza convocato per i fatti mediorientali – in armi di disattenzione di massa, di propaganda becera.
Quando la verità diventa così virtuale, aleatoria, priva di qualunque aderenza con la realtà che non è occultabile nemmeno in assenza di larga parte dei giornalisti indipendenti di mezzo mondo a Gaza, il primo fallimento è per chi pretende di dirsi democratico, di far parte dell’unica democrazia del Medio Oriente, mentre invece svela a tutti il vero volto di un regime che fa della forza e della repressione l’unico metodo per mantenersi come potere che rappresenta sempre meno israeliani.
Il tentativo di cambiare la struttura della giustizia dello Stato ebraico, dando così un impulso esponenziale alla sempre meno riconoscibile pluralità delle istituzioni israeliane dalle oligarchie e dai regimi del circostante limitrofo mondo arabo, si colloca in questa mutazione genetica della missione democratica di un sionismo che si è spostato sempre più a destra e che si è rivelato per quello che era: la precisa volontà politica di alterare gli equilibri precari della democrazia traballante verso un sistema istituzionale con al centro l’azione dell’esecutivo.
Qualcuno la definirebbe una “democratura“, oppure una democrazia autoritaria. Ma per Israele questi concetti sono forse poco propri, vista la sua collocazione geopolitica. E, tuttavia, il suo carattere filo-occidentale, dai McDonald’s kosher all’amicizia indissolubile con lo Zio Sam, dalla sua nazionale di calcio, che aderisce all’UEFA piuttosto che all’Asia Football Confederation, fino al modello liberista che uniforma l’intera società israeliana, fanno dello Stato ebraico una anomalia nel quadro mediorientale.
Se, dunque, dobbiamo giudicare Israele con il metro dei valori occidentali, quindi attribuendo una imprescindibile importanza alla divisione dei poteri, alla pluralità delle idee, alla dialettica e all’alternativa tra maggioranze ed opposizioni, al suffragio universale e diretto, all’indipendenza della magistratura rispetto al governo e al legislatore stesso, per arrivare ovviamente al rispetto ed alla esaltazione dei più elementari e fondamentali diritti umani, civili, sociali, allora ne dobbiamo conseguire che Tel Aviv non è una democrazia.
Può somigliarvi internamente ma, di sicuro, per come conduce la sua politica estera (difficile anche considerarla tale quando si parla di Palestina…) nei confronti delle popolazioni dei Territori occupati di Cisgiordania e della Striscia di Gaza, a molti regimi può essere paragonato ma non di certo alle democrazie liberali tanto care all’Europa dei banchieri e all’America che oggi si rimprovera gli errori del dopo Undici Settembre.
Certe volte i nostri giornali nazionali e molte televisioni sono più sionisti dei Netanyahu che portano una nazione dentro una guerra feroce in un mondo dove i conflitti sono tanti e tali da essere dimenticati, obliati da una cinica devozione ad una abitudinarietà indecente.
Sicuramente una vasta parte del popolo israeliano è ben consapevole della spirale di violenza che si innescherà durante e dopo l’operazione di terra contro Gaza. Agli occhi del mondo arabo (e islamico) si tratterà di una dichiarazione di guerra manifesta, evidente, incontrovertibile. Gli allarmi terrorismo che si registrano in mezza Europa ne sono la prova.
Alla brutalità di Hamas si fanno speculari le atrocità israeliane, con tutti i morti causati da migliaia e migliaia di bombardamenti in un territorio divenuto minuscolo per due milioni e mezzo di abitanti. Rispondere al crimine con altri crimini, anche se ci si reputa democratici e rispettosi dei diritti delle minoranze (in patria, ma non nel resto della Palestina), è essere criminale senza alcuna ombra di dubbio.
Ha ragione Guterres nel dirsi costernato e stupito al tempo stesso per come le sue dichiarazioni sono state manipolate, estrapolate e rese l’esatto contrario di ciò che sono. Un lamento per due popoli, un duplice grido di dolore. Non ce lo si può permettere. Il primo commentatore storico e politico dirà sulle televisioni italiane che, in quelle parole del Segretario generale dell’ONU, c’è un sottofondo velato di equidistanza che, però, strizza l’occhio alla causa palestinese.
Non ce lo si può permettere, perché, da molti decenni, questa società liberista ha abituato a scegliere da che parte stare senza alcuna sfumatura possibile, senza interpretare, senza circostanziare, ma solamente schierandosi: o con loro o contro loro, o con noi o contro noi. Valeva per le guerre del Golfo, è valso per quelle balcaniche, poi per quella in Ucraina e ora per quella tra Israele e il popolo palestinese. Non contro Hamas soltanto, ma contro ogni palestinese.
Almeno questo è quello che si ricava dal numero dei morti, dei feriti e delle distruzioni che continuano. Se non sono le evidenze ad ispirarci un po’ di sano realismo, a cos’altro dovremmo aggrapparci? Oggi il giovane David ben Yishay è la gente di Gaza e il filisteo Goliyāṯ, è Israele. Dal mito all’attualità del presente, dal racconto biblico alla spietata legge dei numeri di una guerra modernissima e, per questo, fatale su larghissima, vasta scala.
David e Golia. Chi si ricorda come andò a finire può almeno trarne una piccola lezione: di non sola forza è fatta la storia dell’umanità. E qualche volta il debole vince, anche se a duro prezzo.
MARCO SFERINI