In questi giorni, in Bangladesh, si stanno susseguendo violente manifestazioni dei lavoratori e delle lavoratrici del settore dell’abbigliamento, soprattutto nelle città industriali di Gazipur, Ashulia e Hemayetpur, poco lontano dalla capitale Dacca, in Bangladesh. L’agitazione popolare e le azioni di protesta si sono imposte in maniera inedita, decisa e partecipata: secondo i sindacati decine di migliaia di persone sono scese in strada per chiedere maggiori diritti e salari più adeguati, mentre diverse fabbriche sono state assaltate e vandalizzate e negli scontri con la polizia almeno una persona ha perso la vita.
Dopo 10 anni da una delle più grandi tragedie nella storia dell’industria tessile, ovvero il crollo del complesso Rana Plaza di Dacca, dove persero la vita circa 1134 lavoratori e lavoratrici della moda, la situazione degli impiegati di questo settore, nonostante qualche nuovo accordo, non è poi così migliorata: salari bassissimi che non permettono minimamente la possibilità di condurre una vita dignitosa, condizioni di lavoro massacranti e disumane, sfruttamento minorile e luoghi di lavoro pericolosi e fatiscenti. Inoltre, a causa dell’inflazione e del deprezzamento della valuta locale, come ha spiegato Taslima Akter, presidente del sindacato Garment Sramik Samhati, “i lavoratori sono stati duramente colpiti dalla crisi del costo della vita“.
Per comprendere meglio le motivazioni delle proteste, bisogna considerare il fatto che in Bangladesh ci sono circa 3500 industrie tessili in cui lavorano milioni di persone in condizioni disumane, soprattutto giovani donne, il cui stipendio base si aggira intorno ai 75 dollari al mese. Come ricorda l’Asia Floor Wage Alliance, il salario minimo necessario affinché i lavoratori, inclusi i membri delle loro famiglie, riescano a soddisfare le esigenze base in termini di nutrizione, salute ed educazione, dovrebbe essere di circa 1181 dollari al mese. E’ evidente, quindi, che la cifra attuale non si avvicina minimamente ad una paga adeguata a garantire una vita dignitosa e, per questo motivo, spesso anche i bambini sono costretti a lavorare per poter aiutare la famiglia.
Come infatti stima l’ILO (International Labour Organization), in Bangladesh circa 1,5 milioni di persone vivono in condizioni di schiavitù, mentre secondo il Bangladesh Child Right Forum ci sarebbero circa 3,5 milioni di bambini bangladesi costretti a lavorare fin da piccoli per contribuire al mantenimento delle proprie famiglie, divenendo, per di più, vittime di abusi e torture nel 17 % dei casi. Il tutto, per garantire il tenore di vita dei Paesi più avanzati e per far arricchire le multinazionali.
Questo sistema di sfruttamento e di violenza viene infatti alimentato dalle grandi aziende della moda e del fast fashion occidentali che, attraverso i processi di liberalizzazione, deregolamentazione e delocalizzazione inaugurati con il neoliberismo, si sono espanse per poter utilizzare la manodopera a basso costo nei paesi più poveri, e quindi più ricattabili, del mondo.
Le multinazionali della moda, inoltre, non stanno facendo molto per aumentare gli stipendi dei propri lavoratori. Un’indagine di Fashion Revolution condotta su 91 marchi di abiti, infatti, sostiene che solo il 12% di questi hanno intrapreso azioni dirette a garantire un salario minimo legale per i propri lavoratori.
Marchi economici come Bershka, H&M, Pull&Bear, Zara, ma anche brand più importanti come Patagonia, Gap, Levi’s, Hermes, Burberry e molti altri, sono quindi complici di una logica perversa che vede arricchire sempre di più le grandi multinazionali a scapito dei diritti fondamentali dell’uomo.
Inoltre, durante la pandemia di Covid-19, le condizioni ed i salari per i lavoratori e le lavoratrici del settore tessile sono peggiorati. Come emerge dallo studio pubblicato dall’Università di Aberdeen, le 1000 fabbriche prese in esame dalla ricerca sono state pagate al di sotto del costo di produzione, sfruttate e coinvolte in pratiche sleali da parte di 24 dei più grandi rivenditori globali di abbigliamento.
Questa situazione drammatica di sfruttamento volutamente nascosta dall’Occidente, che si trova alla base dei profitti di uno dei mercati più importanti al mondo (circa 2,5 milioni di dollari), è comune a molti paesi dell’Asia come la Cina, il Vietnam, il Myanmar, lo Sri Lanka, il Pakistan, l’India, dove sono presenti la maggior parte delle fabbriche che producono la maggioranza dei capi d’abbigliamento destinati ai grandi marchi di moda.
Il problema è che il mercato dell’abbigliamento si fonda su un consumismo sfrenato (+60% tra 2000 e 2014) che danneggia gravemente l’ambiente e i diritti dei lavoratori.
L’AEA calcola che l’industria della moda sia responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio, più del totale di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo messi insieme. Si stima, inoltre, che la produzione tessile sia responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale dell’acqua potabile e che per fabbricare una sola maglietta di cotone occorrano 2.700 litri di acqua dolce, un volume pari a quanto una persona dovrebbe bere in 2 anni e mezzo.
Per quanto riguarda il calpestamento dei diritti dei lavoratori, Dominique Muller della ONG Labour Behind The Label, dichiara che “l’industria della moda funziona, essenzialmente, come un sistema che sfrutta una forza lavoro sottopagata e senza protezione sociale nei paesi di produzione” e che “protegge le persone ai vertici, lasciando che siano i lavoratori a subire i contraccolpi” e le conseguenze più disastrose di un meccanismo economico che si riproduce grazie alle disuguaglianze e allo sfruttamento delle stesse.
[di Gioele Falsini]