Per quanto possa essere difficile far combaciare tutti gli aspetti particolari della vita democratica dentro un contesto di forma repubblicana dello Stato, si dovrebbe riconoscere che l’alternarsi di pesi e contrappesi costituzionali è la migliore garanzia per la preservazione delle libertà civili, dei diritti sociali e umani, nonché dei rispettivi doveri che ognuno di noi è indotto ad esprimere fattivamente nella sua comunità.

La Repubblica Italiana, dalla sua nascita nell’ormai lontano 2 giugno 1946, e poi dall’approvazione e dall’entrata in vigore della sua Legge fondamentale nel gennaio del 1948, è stata protetta nella sua essenza egualitaria dalla centralità del Parlamento, dal suo ruolo di legislatore e, allo stesso tempo, di giudice delle azioni del governo, quanto del comportamento del Presidente della Repubblica che elegge in seduta comune.

Sono la Camera dei Deputati e il Senato della Repubblica il cuore dello Stato, l’anima della nazione, il punto più alto di rappresentanza popolare mediante la delega elettorale. C’è soltanto un potere che resta intangibile persino dalla volontà del Parlamento: la magistratura. La rigidità della nostra Carta costituzionale è stata sino ad oggi la diga contro i tentativi di sovvertire questa equipollenza dei poteri.

Ci hanno provato molti governi, non solo di centrodestra, a cambiare l’architettura dello Stato: con commissioni bicamerali, con prove tecniche di archiviazione del bicameralismo perfetto; ed oggi, con la riforma scritta in cinque articoli dall’esecutivo di Giorgia Meloni, con un unicum al mondo: un premierato che non è semi o totale presidenzialismo, che non è accomunabile a nessun’altra figura di leader o capo del governo in ogni continente.

Il premierato somiglia un po’ ad un governo consolare ma al singolare. Ad un cesarismo senza Cesare, ad un bonapartismo senza Bonaparte. La posticcia formulazione degli articoli della legge costituzionale che andrebbe a modificare la Carta del 1948, è così bislacca che sembra davvero molto improbabile possa arrivare alla doppia approvazione delle Camere senza alcuna modifica di sorta.

Ma se anche venisse modificata in meglio (quindi riavvicinandola all’attuale testo della Costituzione), rimarrebbe comunque il proposito meloniano di fondo: dare al Presidente del Consiglio dei Ministri i pieni poteri per la gestione tanto dell’esecutivo quanto della volontà del Parlamento che, a quel punto, sarebbe letteralmente vincolata alla tenuta della maggioranza.

Il comunicato stampa fatto da Palazzo Chigi, del resto, lascia spazio a pochissimi dubbi in merito: al primo punto mette la “legittimazione democratica diretta” del Presidente del Consiglio mediante l’elezione a suffragio universale su una sola scheda. La differenza con l’oggi starebbe proprio in questa indicazione del candidato della coalizione alla carica di un primus inter pares, non più soltanto indicato dal Capo dello Stato sulla base del risultato del voto, ma dal popolo.

Quella che Giorgia Meloni declama come “la madre di tutte le riforme” è anzitutto uno sbilanciamento dei poteri a favore del governo, un relegare il Parlamento a dependance dell’esecutivo e un Quirinale praticamente svuotato delle sue prerogative di garante massimo, di parte terza e incensurabile (se non dalle Camere), ridotto ad una funzione meramente notarile.

Sempre al punto primo del comunicato stampa citato, si precisa meglio il fatto che il capo del governo dovrà essere un parlamentare, eletto nella Camera per cui si è candidato: si escludono quindi ricorsi a tecnici, ad esperti chiamati alla bisogna per sostituire vecchie maggioranze cadute in disgrazia. Assicura Meloni che questo vorrà per forza dire non avere più uno scollamento tra volontà popolare e maggioranze costruire e ricostruite, che cambiano perimetro politico e programmatico.

Potrebbe essere un argomento interessante, ma la leader di Fratelli d’Italia dimentica volutamente che sta proprio nella dialettica tra le forze politiche presenti in Parlamento costruire le condizioni per un buon funzionamento dello stesso e per una ottimizzazione di tutto l’apparato dello Stato nella produzione delle leggi, nell’amministrazione del Paese.

Se in questi decenni trascorsi, invece di fare del sistema maggioritario il filtro malevolo della volontà popolare, scardinando di proposito il principio dell’equipollenza del voto con soglie di sbarramento e premi di maggioranza, si fosse proceduto alla ridefinizione di una normativa proporzionale, che consentisse l’esatta attribuzione dei seggi sulla base dei voti assoluti presi nei singoli collegi, oggi non saremmo arrivati al punto di constatare che l’arroganza prevale sul diritto, la voglia dell’uomo (o della donna) sola al comando sul parlamentarismo.

Quello che spesso viene scambiato come un mal funzionamento delle istituzioni repubblicane, un aggravio per la democrazia, è invece il delicatissimo equilibrio tra i poteri che non può essere dismesso in favore di una sollecitudine che gratifichi nelle tempistiche mentre va logorando la funzione del legislatore, con le decretazioni d’urgenza, con il ricorso alla fiducia sempre più inflazionato, con un fare del Parlamento una doppia assemblea di ratifica di quanto deciso in Consiglio dei Ministri.

Il parlamentarismo non fu scelto a caso dall’Assemblea Costituente.

Dopo vent’anni di dittatura fascista e dopo una seconda guerra mondiale, la nuova Repubblica avrebbe dovuto essere stata caratterizzata da un marcatissimo tratto assembleare: la collegialità delle decisioni importanti, quindi della discussione, della formazione e della messa in essere delle leggi, sarebbe toccata non ad un ristretto gruppo di donne e di uomini in un organo esecutivo, ma ad un Parlamento in cui le due Camere non avrebbero avuto l’una maggiore rilievo dell’altra.

Il bicameralismo perfetto, tante e tante volte descritto come un farraginoso processo arcaico, da ammodernare alla maniera renziana, facendo del Senato della Repubblica un testimone ininfluente in tutto questo, è un punto dirimente nella comprensione della particolarità democratica, della sua meticolosa complicatezza, fastidiosa solo per chi ha nel DNA un retaggio storico-politico di autoritarismi e di liquidazione dei processi decisionali collettivi tipici di forze che non hanno mai fatto parte dell’Arco costituzionale.

La riforma approvata dal governo di Giorgia Meloni, inoltre, prevede che, qualora il Presidente del Consiglio dovesse non avere più la fiducia delle Camere, non si aprirebbero nuove consultazioni tra tutte le forze politiche per la eventuale formazione di un nuovo esecutivo. Un inerte Presidente della Repubblica dovrebbe dare il mandato ad un esponente della stessa maggioranza appena venuta meno per fare in modo che il programma preferito a maggioranza dagli elettori possa essere attuato.

In caso contrario, se anche questo tentativo di salvare la legislatura dovesse andare male, si farà ricorso alle urne. Se questa norma fosse applicata oggi, il governo di Meloni dovrebbe essere sostituito subito da un altro, perché da un anno e mezzo quasi a questa parte, non ha ottemperato ad una che fosse una delle sue promesse elettorali e, tanto meno, del suo programma scritto nero su bianco.

Ma, facendo appello alla realpolitik, si sa, si può giustificare tutto e il suo contrario.

Il governo, poi, affida alla legge la disposizione di una nuova normativa che permetta alla futura maggioranza parlamentare di avere il 55% dei seggi, così da assicurare la governabilità. Ma perché, forse oggi le destre che sono a Palazzo Chigi non godono di numeri tali da poter governare senza che sia fissato un premio di maggioranza così ampio e, ugualmente, così riducente la rappresentanza delle opposizioni e delle minoranze?

E per finire, al quinto punto dell’ormai celeberrimo comunicato stampa, si dà un colpo di spugna anche ai senatori a vita, permettendo a quelli già in carica di rimanere tra gli scranni dell’alta Camera dello Stato.

Tutto qui? Non proprio. Perché di pari passo con questo tentativo di sovvertimento dell’assetto democratico, parlamentare ed egualitario dei poteri dello Stato, dell’architettura della Repubblica, viaggi il progetto di autonomia differenziata di Roberto Calderoli: così, insieme ad un indebolimento del nerbo su cui si edifica la politica e la socialità nazionale, abbiamo anche uno spezzettamento del Paese tra regioni ricche privilegiate e regioni povere penalizzate.

Nei decenni passati, per lo meno, ad uno squilibrio economico equivaleva un riconoscimento sia formale sia sostanziale dei diritti universali di tutti i cittadini: da nord a sud dell’Italia, nella sua interezza.

Oggi, ad un rovesciamento dell’impianto egualitario creato nel 1948, dopo un ricchissimo dibattito nella Costituente, potrebbe corrispondere un ribaltamento del piano sociale, consentendo alle regioni più benestanti di trattenere per sé risorse che andrebbero ad ingrossare le tasche dei privati, mentre a quelle meno virtuose toccherebbe un destino di indigenza permanente.

Le destre, nel non realizzare alcuno dei punti della loro sintesi programmatica di governo fatta in campagna elettorale nel settembre del 2022, stanno portando avanti una loro atavica idea di Stato forte con i deboli e accondiscendente con i forti. Stanno provando a realizzare quelle condizioni politico-istituzionali per favorire un sempre minore coinvolgimento sociale nelle decisioni collettive e, per questo, devono fare del Parlamento un convitato di pietra, una presenza davvero legata ad un formalismo impietoso.

Questa controriforma costituzionale, se davvero rappresenta la madre di tutte le battaglie per il cambiamento della Carta, allora deve vedere una reazione altrettanto tale che la sconfigga senza appello e che, anche se Giorgia Meloni mette le mani avanti su un eventuale esito negativo del referendum affermando che, nel caso, non si dimetterà come fece Matteo Renzi, renda impossibile la riproposizione di un monstrum unicum come il premierato.

La difesa del carattere parlamentare della Repubblica è, allo stesso tempo, difesa del ruolo del Quirinale: come vertice dello Stato che permette una equidistanza tra i poteri, che mette al riparo la magistratura dalle incursioni che la politica tenta, che – è bene sempre sottolinearlo – è anche a capo delle Forze armate.

Non abbiamo tempo e non aspettiamone. La lotta contro questo abominio antirepubblicano, anticivile e antidemocratico è appena cominciata.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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