Ing. Riccardo Morandi spiega il Ponte Morandi
Mercoledì 15 Novembre 2023. “L’ingegnere Morandi, se avesse voluto, lo faceva chiudere il ponte. Ma lui non ha detto nulla. I cavi sono nati già corrosi e lui lo sapeva”. Lo ha detto in aula Michele Donferri Mitelli, ex numero tre di Autostrade e uno dei 58 imputati nel processo per il crollo del viadotto del 14 agosto 2018, che causò la morte di 43 persone.
Il manager ha spiegato che “i cavi secondari non servono a tenere in piedi la struttura. E i cavi primari, se il progetto fosse stato eseguito correttamente, sarebbero stati ben protetti. Ma i lavori vennero eseguiti male. E i problemi non sarebbero stati visibili a occhio nudo”, ha continuato. Donferri si è avvalso della facoltà di non rispondere sull’intercettazione tra lui e l’allora numero due Paolo Berti dopo la condanna di quest’ultimo per la tragedia di Avellino, in cui morirono 40 persone.
Crollo ponte, Donferri: “Il viadotto doveva farlo chiudere Morandi”
L’ex numero tre di Aspi ha dichiarato che “i cavi sono nati già corrosi e lui lo sapeva”
Secondo gli inquirenti in quella conversazione si comprende che in quel procedimento Berti non avrebbe detto la verità per difendere la linea aziendale contribuendo all’assoluzione dell’allora ad Giovanni Castellucci. Il manager ha letto soltanto il verbale della sua testimonianza. “Non posso sapere se ci fossero ragioni economiche da discutere né so se fosse in atto qualche forma di proposta illecita”.
L’imputato ha poi spiegato che i tecnici di Spea “facevano bene i controlli” e che il “problema era il management” in particolare “Galatà (uno degli imputati) non aveva più una consistenza manageriale”. Donferri ha però ammesso di non avere mai guardato i report, le relazioni trimestrali “perché c’era un ufficio preposto con Di Taddeo”.
Ponte crollato, il progettista Morandi avvertiva nel 1979: «Si sta corrodendo»
Ponte crollato, il progettista Morandi avvertiva nel 1979: «Si sta corrodendo»
«Penso che prima o poi, e forse già tra pochi anni, sarà necessario ricorrere a un trattamento per la rimozione di ogni traccia di ruggine sui rinforzi esposti, con iniezioni di resine epossidiche dove necessario, per poi coprire tutto con elastomeri ad altissima resistenza chimica».
A scriverlo a proposito del viadotto collassato a Genova era stato, in uno studio datato 1979, lo stesso progettista della struttura, l’ingegner Riccardo Morandi che rilevava già – come riporta La Verità – i primi effetti sul ponte della salsedine e dell’inquinamento.
Nella relazione dal titolo «Il comportamento a lungo termine dei viadotti sottoposti a traffico pesante situati in ambiente aggressivo: il viadotto sul Polcevera, a Genova», scrive il quotidiano, Morandi lancia un concreto «allarme corrosione».
«La struttura – scrive Morandi – viene aggredita dai venti marini (il mare dista un chilometro) che sono canalizzati nella valle attraversata dal viadotto. Si crea così un’atmosfera, ad alta salinità che per di più, sulla sua strada prima di raggiungere la struttura, si mescola con i fumi dei camini dell’acciaieria (il vecchio stabilimento Ilva, ndr) e si satura di vapori altamente nocivi». «Le superfici esterne delle strutture – segnala – ma soprattutto quelle esposte verso il mare e quindi più direttamente attaccate dai fumi acidi dei camini, iniziano a mostrare fenomeni di aggressione di origine chimica». Insomma, è già in atto una «perdita di resistenza superficiale del calcestruzzo». Morandi, scrive il quotidiano, accenna anche a non meglio definite «piastre» che «sono state letteralmente corrose in poco più di cinque anni», quindi nel 1972, e «hanno dovuto essere sostituite, con processi piuttosto complicati, con elementi in acciaio inox». L’ingegnere conclude insistendo sulla necessità di proteggere «la superficie in calcestruzzo, per accrescerne la resistenza chimica e meccanica all’abrasione». E suggerisce l’impiego di resine e di elastomeri sintetici.
Dopo le dichiazioni dell’ing. Morandi non si fece nulla e ci fu la tragedia, il crollo.