Una raccolta firme lanciata da un gruppo di accademici e le mobilitazioni degli studenti nelle università hanno acceso il dibattito sul boicottaggio degli atenei israeliani. Personaggi del mondo della cultura, come Tomaso Montanari, hanno criticato la rivendicazione in nome dell’ “autonomia e dell’indipendenza dell’università”. Si tratta invece di una parola d’ordine efficace contro la macchina di morte israeliana e per fare pressione sullo Stato sionista, colpendone l’economia. La rivendicazione dà inoltre il pretesto per smascherare l’idea che le università possano essere considerate contesti neutrali e al di sopra delle parti.


Nelle ultime settimane le azioni militari genocide del governo Netanyahu ai danni della popolazione palestinese hanno suscitato un moto di indignazione nelle università in Italia, coinvolgendo sia settori di studenti, che di docenti e ricercatori. In particolare, un gruppo di accademici dell’Università di Bologna ha redatto e fatto circolare una raccolta firme rivendicando un cessate il fuoco e la rottura dei rapporti di collaborazione tra atenei italiani e israeliani, spesso implicati nelle pratiche di colonizzazione promosse dal governo di Tel Aviv. Una rivendicazione del genere risuona con i principi della campagna di boicottaggio collegata al movimento internazionale BDS (Boycott Disinvestment Sanctions), per la fine delle politiche di apartheid israeliane. L’iniziativa ha interagito con le occupazioni e le proteste che vari collettivi universitari hanno messo in campo in alcune città, accogliendo tra le rivendicazioni la richiesta degli studiosi di Bologna.

Naturalmente, il comunicato ha suscitato le ire della componente maggioritaria dell’accademia, coinvolgendo non solo fasce apertamente sioniste, ma anche studiosi vicini alla sinistra, che hanno attaccato duramente l’idea del boicottaggio accademico. Spicca tra queste voci quella di Tomaso Montanari, professore di storia dell’arte e rettore dell’università per stranieri di Siena, nonché noto personaggio televisivo, il quale in un pezzo comparso sul Fatto Quotidiano (16/11/2023) ha criticato la richiesta di un’interruzione delle relazioni tra università italiane e israeliane come un attentato alla loro “autonomia e indipendenza”. Le università non dovrebbero mai essere giudicate a partire da valutazioni politiche, pena minarne alle fondamenta l’intrinseca missione democratica. Così, scrive lo storico dell’arte: “rompere le relazioni tra comunità di ricercatori e studenti di paesi diversi significherebbe uccidere proprio l’ultima speranza di costruire argomenti comuni per ribellarci alla follia omicida di governi che conducono il mondo al disastro”.

Siamo in un contesto in cui le proteste pro-palestina sono sottoposte a un gigantesco attacco mediatico, mentre è necessario definire bene gli obiettivi e la strategia del movimento, di modo tale da allargarlo ed evitarne il riflusso. Ecco che criticare le posizioni di Montanari può essere interessante  per chiarire un aspetto importante della mobilitazione in corso nelle università: in base a quali principi è necessario promuovere il boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane?

Contro il mito dell’indipendenza dell’università

Nel suo articolo, Montanari non può negare come spesso le università violino i principi fondamentali di “autonomia e indipendenza” che le caratterizzano, nel nostro paese e altrove. Tuttavia, lo studioso sottolinea come anche nei contesti più autoritari, esse rimangano “comunità aperte e plurali per definizione”, in cui sacche di resistenza contro i regimi e i governi possono sempre trovare spazio. In questo modo, però, l’eminente professore fa finta di non vedere i rapporti di potere verticali che attraversano queste istituzioni, rafforzati dall’intera struttura sociale gerarchica e diseguale di cui sono espressione e dai processi neoliberisti di privatizzazione.

La crescente ingerenza di banchieri e capitalisti negli organi dirigenti, in stretta collaborazione con i vertici accademici, a sua volta prodotto dei tagli ai finanziamenti pubblici che rendono sempre più dipendenti le università da quelli privati; l’aumento del potere dei ‘baroni’, sempre più agenti per la raccolta di fondi, spesso privati, con cui assumere ricercatori iper-precari e sotto-pagati. Nel frattempo, le rette aumentano, la qualità della didattica e delle infrastrutture peggiora, così come si approfondisce il ruolo dell’università nella selezione di classe. Si tratta di fenomeni che coinvolgono l’istruzione superiore, non solo in Italia, ma a livello mondiale e se è vero che le università continuano a ospitare sacche di dissenso, ciò avviene malgrado e contro le università, non grazie ai commi negli statuti che ne garantiscono l’indipendenza e l’autonomia.

Tutto ciò è piuttosto facile da capire per gli studenti che si mobilitano incontrando quasi sempre l’ostilità dell’amministrazione, se non i manganelli della celere chiamati dai rettori. Più difficile per docenti e ricercatori, tra i quali – come ci elucida lo stesso Montanari – sono poche le “persone libere”. Questo non però a causa di un generico “sistema”, o in contrasto con la “missione” delle università, ma in virtù dei meccanismi di selezione e pressione che ne fanno luoghi privilegiati per la riproduzione della struttura di classe e dell’ideologia dominante. Certo, l’accademia è sempre più un contesto popolato da studiosi con contratti ‘flessibili’ e relativamente poveri. Tuttavia, non è come parte di una “comunità aperta e plurale” che essi esprimono le forme più incisive di ‘dissenso’, bensì quando si concepiscono come soggetto rivendicativo, come lavoratori accanto a tecnici e impiegati, addetti alle pulizie ecc., in opposizione o per lo meno autonomia rispetto ai vertici delle università e agli interessi che rappresentano (ce lo insegnano le lotte dei dottorandi e degli assegnisti nel mondo anglosassone).

Il boicottaggio accademico è un’arma efficacie sia dal punto di vista materiale che ideologico

Se Montanari non distingue tra le istituzioni e chi le vive subendone le gerarchie, la campagna di boicottaggio internazionale delle accademie israeliane sottolinea invece molto chiaramente come il bersaglio siano le partnership tra università, e non le relazioni tra singoli o gruppi di ricercatori, a meno che questi ultimi non siano direttamente coinvolti in programmi legati con l’occupazione. È chiaro che istituzioni e individui non si possano separare in maniera assoluta. Ad esempio, nelle materie scientifiche la mediazione delle università è fondamentale per la collaborazione tra accademici (per via di ingenti fondi per macchinari, laboratori ecc.). Tuttavia, a meno di non partire da presupposti idealistici, i danni di una mobilitazione vanno commisurati rispetto all’efficacia.

L’economia e l’occupazione di Israele sono estremamente dipendenti dalle partnership con le università estere nei settori scientifici, per via dell’enorme peso sul pil (attorno al 18%) dei settori legati in un modo o nell’altro all’alta tecnologia (digitale, semiconduttori e farmaceutico). Il sistema di innovazione israeliano è inoltre funzionale alla riproduzione della macchina poliziesca che sta alla base dell’apartheid. Il boicottaggio delle università israeliane, da un lato può allora rappresentare un fortissimo mezzo di pressione economica sull’entità sionista, dall’altro, permette in vari casi di ostacolare direttamente l’oppressione nei confronti dei palestinesi. Certo, un boicottaggio totale andrebbe a colpire anche gli studiosi delle facoltà umanistiche e delle scienze sociali, che hanno un peso economico minore e una partecipazione meno diretta all’apartheid. Non va però sottovalutata l’importanza che questi saperi svolgono nella legittimazione ideologica dello status quo (lo stesso Montanari cita l’archeologia coloniale, volta a giustificare la priorità storica della presenza ebraica in Palestina).

D’altro canto, senza l’esigenza di complesse e costose strumentazioni, sarebbe ridicolo sostenere che la rottura delle partnership ufficiali in queste discipline equivalga a quella delle collaborazioni dirette tra accademici. Detto questo, è chiaro che esistono alcune situazioni più sfumate rispetto a quelle elencate. Così, gli stessi promotori internazionali della campagna di boicottaggio accademico sottolineano come: “quali che siano gli argomenti pro o contro un boicottaggio accademico, e quale che sia il tipo e la forma di boicottaggio, le azioni degli istituti accademici e le loro connessioni con la situazione politica in Israele-Palestina devono essere presi in considerazione” [1].

In ogni caso, che appoggino più o meno direttamente le politiche di apartheid, le università israeliane beneficiano oggettivamente del ruolo coloniale dello Stato di cui sono espressione [2]. La loro “autonomia e indipendenza” è allora inseparabile dal sistema di privilegi di cui gode la società israeliana ai danni dei palestinesi; così, non si capisce perché tale “autonomia e indipendenza” dovrebbe essere tutelata come principio assoluto se non viene utilizzata contro questo stesso sistema di privilegi e oppressione, cosa che non di rado accade da parte di singoli studiosi, ma non certo da parte delle università come istituzioni.


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In effetti, Montanari cita 9 rettori universitari israeliani (comunque una minoranza) che hanno rifiutato di denunciare gli studiosi che manifestano complicità intellettuale con Hamas. Ringraziamo i rettori per non aver aderito alle posizioni della peggiore estrema destra sionista, ma ricordiamo che le politiche di Apartheid israeliane hanno avuto luogo indipendentemente dal colore del governo di Tel Aviv. Storicamente, come ci hanno spiegato accademici israeliani realmente coraggiosi, e per questo marginalizzati dalle “comunità aperte e plurali per definizione” di cui ci parla Montanari, è stata la sinistra laburista la principale sostenitrice dell’espulsione dei palestinesi dalle terre e dal mercato del lavoro, sin dagli anni 30 [3].  

Va insomma sottolineato come il problema non sia solo Netanyahu, o l’occupazione post-1967, bensì le intere fondamenta del progetto sionista, fondato sullo spossessamento, la repressione e segregazione razziale dei palestinesi, non solo a Gaza e in Cis-giordania, ma nello stesso territorio sotto la giurisdizione civile di Israele, dove essi sono trattati come cittadini di serie B. Di questo fatto, proprio le “plurali” università israeliane ci danno uno spaccato molto chiaro: mentre i cosiddetti “arabo-israeliani” sono il 20% della popolazione, essi rappresentano solo il 9% degli studenti e il 3% dei dottorandi. Interessante sottolineare come dati del genere non riflettano solo una ‘normale’ dinamica classista tipica delle università capitaliste (i palestinesi che vivono nei confini dello stato sionista occupano i settori sociali più poveri), ma il fatto che le università, per prassi istituzionalizzata, facilitino l’accesso a chi ha fatto il servizio militare, da cui gli arabo-israeliani sono esclusi [4].

Per finire, non va certo dimenticato come il boicottaggio delle università israeliane potrebbe anche segnare l’interruzione dei programmi Erasmus. È noto però come tali programmi coinvolgano soprattutto una minoranza privilegiata. Così, a meno di non ragionare in maniera ideologica, è ridicolo pensare che la costruzione di reti di opposizione alle politiche colonialiste e genocide passi per gli scambi ufficiali, tendenzialmente elitari, tra studenti. La solidarietà internazionalista va costruita tramite reti politiche e associative indipendenti dalle istituzioni, come mostra l’intensità dei rapporti che passano per questi canali connettendo migliaia di attivisti e volontari tra occidente e in Palestina.

Conclusioni: lottare contro il sionismo per rilanciare la lotta contro la privatizzazione dell’università

Con buona pace dei principi di “autonomia e indipendenza” delle università, il boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane rappresenterebbe un colpo molto importante a progetti implicati con l’occupazione e il massacro subiti dai palestinesi. Non solo: la rottura dei rapporti accademici sarebbe molto efficace per esercitare un mezzo di pressione, minando le basi dell’economia dell’entità sionista, ove è enorme il peso dei settori ad alta tecnologia. Perché allora non boicottare solo le partnership tecnico-scientifiche con Israele, ma tutte le collaborazioni accademiche? Perché questo non significa affatto danneggiare primariamente chi anima la produzione di cultura e il dissenso (il cui principale nemico sono proprio quelle istituzioni che si chiede di boicottare). Non solo, il boicottaggio è importante per affermare come in una realtà classista e oppressiva non esistano istituzioni al di sopra delle parti, e neutrali. Questo in Israele, ma anche qui in Italia, dove non a caso la critica all’interruzione dei rapporti con le università di Tel aviv, Haifa ecc. si basa su principi astratti, quanto falsi, come l’idea dell’università quale “comunità indipendenti e plurali per definizione”.

Il sostegno alla mobilitazione per l’interruzione dei rapporti con le università israeliane, ove nella maggior parte dei casi sono protagoniste grandi aziende private, è allora importante, non solo per fornire al movimento pro-palestina una rivendicazione efficace, ma anche per far avanzare un dibattito che porti al riconoscimento dei reali rapporti di potere interni all’università e la loro relazione con la riproduzione di una società gerarchica e ineguale. Solo in questo modo è possibile rendersi conto fino in fondo come gli alleati dei ricercatori critici, e dei lavoratori dell’università, non siano nei rettorati, ma nei collettivi degli studenti che si mobilitano, negli operai che lottano, e a livello internazionale nei colleghi che non si riconoscono in quanto “sale della terra” (come diceva Gramsci rispetto all’autopercezione degli intellettuali [5]), ma come classe lavoratrice. Questo, tanto nella battaglia contro le politiche di Israele quanto in quella – ancora tutta da rilanciare almeno nel nostro paese – contro la privatizzazione dell’università, il precariato e per un’istruzione realmente democratica di massa, gratuità e di qualità.

Lorenzo Lodi

[1] U. Y. Keller (2009) Academic Boycott of Israel. https://bdsmovement.net/files/2011/02/EOO23-24-Web.pdf

[2] si veda S. Awad (2021) Palestine a Socialist Introduction.

[3] si veda S. Bichler & J. Nitzan (2003) Global Political Economy of Israel.

[4] U. Y. Keller, op.cit.

[5] A. Gramsci (1977) Quaderni del Carcere, Q12§9

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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