Foto di Non una di meno Padova
E’ del tutto evidente che il moltiplicarsi dei femminicidi in Italia è un effetto non del patriarcato in quanto tale, ma del suo indebolimento, del venir meno delle condizioni che lo rendevano “normale”. Questo in tutto l’Occidente e anche in tutte quelle regioni, come l’Iran, arbitrariamente annesse a “un’Europa fuori dall’Europa”, senza tener conto di quanto le recenti guerre promosse o scatenate dall’Occidente abbiano rimesso il velo, e anche di più, in testa alle donne che se lo erano già tolto, come in Afghanistan, in Iraq, in Siria, in Libia.
Che alla radice ci sia non il patriarcato ma un suo indebolimento è comunque un punto per lo più condiviso dai commentatori, tranne poi ricavarne l’equazione, come sembra fare Marcello Veneziani su La Verità del 22.11: meno patriarcato, più femminicidi; dunque, più patriarcato per avere meno femminicidi.
Ma che fare allora per porre argine a questa alluvione di ferocia mirata? Il governo sembra avere una risposta, anche se ci ha messo un anno per portarla avanti: introdurre l’educazione all’affettività (o al rispetto e alla dignità della donna: così Antonio Tajani, vicepremier e presidente del partito che fu di Berlusconi) dedicando in ogni scuola delle ore di lezioni sul tema, curricolari e non. La risposta del Pd non sembra differente, tranne poi dividersi tra destra e sinistra, almeno si spera, sulla scelta della figura che dovrà presiedere all’introduzione di questa novità scolastica. Il Ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara (autore del libro L’impero romano distrutto dagli immigrati) ha scelto il suo amico e collaboratore Alessandro Amadori, coautore del libro La guerra dei sessi, in cui si imputa alla cattiveria di (alcune) donne l’esito infausto di molta della violenza che le colpisce.
Ma l’introduzione di una nuova “materia” e delle relative ore da dedicarle è la stessa risposta che si dà o si è data all’emergere della crisi ambientale (prima nessuno se ne occupava) – altre ore – o alla crisi della convivenza, detta violenza di strada, con l’educazione civica – altre ore ancora. Già, ma chi le insegnerà queste nuove materie? Anche solo fermandosi all’affettività: una psicologa, una sessuologa, un medico, una biologa, una filosofa, un giornalista, una zelatrice ecclesiastica, un poeta? O tutte quante/quanti insieme? E chi sceglierà queste figure? Alessandro Amadori? Oppure a insegnarla saranno le/gli insegnanti già in forza, ciascuno/ciascuna per la parte di sua competenza? Ma se non sono riusciti/e ad affrontare questi temi, cioè l’aggancio di quello che insegnano con la vita e i costumi di oggi, giorno per giorno, utilizzando gli infiniti spunti che la “loro” materia offre – a partire dalla letteratura italiana e straniera, greca e latina (per chi la insegna), dalla storia dell’arte, dalla filosofia, dalla storia e dalla geografia (abolita), dalla biologia, dall’ecologia, dall’etologia, ecc., perché mai dovrebbero diventarne improvvisamente capaci nelle ore suppletive?
Certo sugli argomenti cosiddetti “sensibili” gioca molto la censura dell’istituzione, ma anche l’autocensura, la paura di mettersi in gioco, ma forse anche il fatto di non averci riflettuto abbastanza. Alfonso Lanzieri, su L’Avvenire del 21.11, dopo aver ricordato che “l’aggiunta di specifiche offerte formative… rischia di farci dimenticare che Omero, Dante e Shakespeare, tanto per fare alcuni nomi, hanno già molto di serio da dire su emozioni, affetti, doveri, diritti, bene e male, sessualità.” E aggiunge: “Pretendere continuamente che a questo si sommino corsi e giornate rischia di mandare un messaggio devastante, vale a dire che ciò che si studia a scuola, in realtà, non serve… Per tutto quanto concerne le relazioni, le emozioni, i sentimenti, vale a dire per la polpa dell’esistenza, le pagine di filosofi, poeti, artisti, scienziati non sono competenti”. Ciò, aggiungo, è come riconoscere che tutto quell’insegnamento curricolare e tutte quelle pagine da studiare, sono perfettamente inutili. E allora, perché studiarle ancora? Non fanno forse bene, i giovani, ad annoiarsi a scuola e a farsi introdurre a quei temi non dalle famiglie (che non lo fanno. E vedremo perché), bensì ieri dalla televisione e oggi dai social, che di violenza, a parole e per immagini, ne hanno da vendere?
Ed ecco che siamo tornati al punto di partenza, cioè: perché, qualsiasi cosa si intenda con questo termine, solo i giovani devono essere educati all’affettività? Gli adulti non ne hanno bisogno? E perché mai coloro che hanno accesso agli strumenti attraverso cui si forma l’opinione pubblica non sono in grado di farlo nella parte extrascolastica della giornata dei giovani? E qui casca l’asino.
Come si può chiedere di educare, o far educare, all’affettività a uomini (e donne) di un governo, di una maggioranza, dei suoi partiti, delle sue infinite clientele, che si ritrovano tutti – perché lì sono nati – sotto l’ombrello della figura di Berlusconi? Fino al punto di aver imposto la bandiera a mezz’asta nelle Università, nei palazzi del governo, in quelli dei governi regionali e locali, nei musei, nelle caserme, ecc., per compiangere la dipartita di un uomo – i cui resti sono poi finiti al Famedio di Milano, motivo per cui non avremo mai più un Ugo Foscolo… – che si è caratterizzato, e ha caratterizzato tutti i suoi sodali, maschi e femmine (vittime, queste ultime, di un’evidente “sindrome di Stoccolma”) per il suo sovrano disprezzo per le donne (con espressioni diventate di pubblico dominio, come “un pullman di troie”, “la patonza deve girare”, “inscopabile”, ecc. Comprese le sue orge cosiddette “eleganti”).
Si parla tanto di “egemonia culturale, che sarebbe in transito oggi da una sinistra (non pervenuta), alla destra: quella di Dante, tanto per intenderci (copyright Valditara). Ma in Italia l’egemonia culturale è in mano alla destra da più di quarant’anni (e non solo qui, anche se in questo campo siamo stati degli antesignani), proprio grazie al convoglio del berlusconismo: sesso, soldi e sport (cioè calcio). Il tutto felicemente intrecciato in un permanente “varietà” televisivo che è riuscito a mettere insieme fondamentalisti cattolici reazionari alla Gandolfini e grassatori libertini e maleducati alla Sgarbi, fascisti del XXI secolo di Casa Pound e liberali da barzelletta alla Nordio, magistrati e giornalisti spietati contro contestatori, migranti e operai in lotta e lavoratori delusi dai partiti di sinistra… Sembra una strada senza ritorno, ma un’uscita bisogna trovarla.
Se la denuncia del capitalismo e dei danni che infligge all’umanità non basta per “eliminarlo” e se dichiararsi “anticapitalista” costituisce spesso un comodo alibi per tanti compromessi, anche limitarsi a denunciare il patriarcato – che è l’orizzonte antropologico, ben più antico e ben più ampio del capitalismo e dello stesso mercato, che ne costituisce probabilmente condizione ineludibile – può diventare un alibi per la perpetuazione di comportamenti e scelte quotidiane che lo riconfermano. In entrambi i casi, capitalismo e patriarcato, non c’è un prima e un dopo, ma il continuo bisogno di individuare e aggiornare obiettivi e strumenti alla portata del nostro agire, per non rimanerne schiacciati. Non “la presa del potere” o anche solo del governo – che è da tempo una barzelletta: da parte di chi, come, per fare che? – ma un processo che ci vede sempre in cammino, se in cammino ci siamo messi. Dunque, quanto patriarcato c’è, non solo nel maschilismo ostentato, ma anche nelle tante altre cose in cui si nasconde? Innanzitutto nella partecipazione al cosiddetto lavoro domestico o, più in generale, di cura: non si tratta solo di condividere, ma anche di misurare quanto in termini di ore e soprattutto di attenzione per le cose da fare e per quelle fatte. Christian Marazzi, ne Il posto dei calzini, si rende conto che non sa dove sua moglie ripone i suoi calzini, che evidentemente gli porge già pronti. Figuriamoci il resto! Quanto basta per cogliere le distanze tra il mondo maschile e quello femminile, anche là dove sembra esserci contiguità e persino parità e collaborazione.
Poi ci sono evidenti manifestazioni di patriarcato che evidenti per tutti non sono: l’esaltazione della guerra (naturalmente quella “difensiva”) e delle armi (il cannone, simbolo fallico per eccellenza: “Viva i lanciarazzi Himars”!), la passione per la caccia, il tifo che finisce a botte, il fascino della velocità, il disprezzo per gli animali, che è disprezzo della vita (altrui), l’odio per lo straniero (migrante) dietro cui si intravvede sempre un concorrente sessuale, il culto della gerarchia – sottomettersi per poter poi comandare e altre ancora.
Naturalmente sono scelte e comportamenti da cui non sono escluse le donne, che vivono immerse nello stesso brodo in cui viviamo noi maschi, ma la loro impronta è maschile, è patriarcale. Di qui inizia un’esplorazione del nostro e dell’altrui comportamento che ciascuno dovrebbe imparare a sviluppare non da solo, ma in gruppo, come hanno fatto e continuano a fare le donne che praticano il femminismo. Questo almeno avremmo dovuto impararlo.
“Di padre in figlio” è il percorso attraverso cui si trasmette la Legge: quella “del Padre”, il Patriarca virtuale, con i risultati che abbiamo visto. Anche la lotta contro il patriarcato, dunque, come quella contro il capitalismo, non è un percorso predeterminato, ma un’esplorazione, che alla Legge del Padre, e padrone, sostituisce la cultura della sorellanza e della fratellanza: si impara tra pari.