Al di là del fatto che, come si vede dalla foto che allego, sembra il cosplayer di Zelensky (stessa giacca militare, stessa maglietta, stessa barba e taglio di capelli, espressioni facciali molto simili). Davyd Arakhamia è uno di quei personaggi che negli ultimi anni sono passati sostanzialmente inosservati per l’opinione pubblica. Si tratta invece di uno di quegli uomini che, pur occupando posizioni oggettivamente di secondo piano (è il capo del gruppo parlamentare di Sluga Narodu, ovviamente il partito si Zelensky) è un ingranaggio abbastanza importante, ed è per questo che la sua intervista di ieri, da cui ho appunto tratto la foto che allego, è molto interessante.

Arakhamia è il classico Homo Tardosovieticus: famiglia georgiana di Gagra, nato a Sochi (Russia), trasferitosi in Ucraina con la famiglia dopo la guerra in Abkhazia del 1992, educazione “occidentale” (laurea all’Università Europea di Kiev, master in Management alla Open University di Londra), fondatore di svariate compagnie di tecnologie informatiche, in politica dal 2014 come consigliere del Ministero della Difesa, deputato dal 2019 e subito leader del gruppo parlamentare del suo partito, membro del circolo ristretto di “consiglieri” di Zelensky anche se è uno di quelli il cui nome compare più raramente. Non ama molto i social, forse perché quello che ci scrivi sopra ha la sgradevole tendenza a saltar fuori cinque anni dopo e morderti le chiappe: sia su Facebook (dove si chiama David Braun) che su Telegram si limita sostanzialmente ai repost, senza eccedere in patriottismi.

Il 28 febbraio 2022 (e qui arriviamo all’intervista di ieri) è uno dei membri della delegazione ucraina che si reca in Bielorussia per i primi, infruttuosi negoziati (se ve lo ricordate, era quel tizio con in testa un berretto da baseball) e fa parte anche della delegazione ucraina a Istanbul dove, almeno all’inizio, pareva che le cose stessero andando bene e (come ha ricordato Putin qualche mese fa durante la visita a Mosca dei vertici dell’Unione Africana) un accordo fosse stato più o meno concordato, tanto che il 29 marzo il comando russo aveva annunciato il ritiro, prima parziale e poi completo, delle sue truppe dalla zona a nord di Kiev e non solo. Ed è proprio di questo che si è parlato ieri, quando Arakhamia ha confermato in pieno la versione di Putin, incluso il motivo per cui, alla fine, all’accordo non si è giunti. Trascrivo qui:

“Secondo me, [i russi] hanno creduto fino all’ultimo di poterci spingere ad accettare la neutraliità. Questa era la cosa principale per loro: erano pronti a finire la guerra se avessimo accettato di essere neutrali, tipo come era stata la Finlandia, e avessimo garantito che non saremmo entrati nella NATO”.

“Solo questo?”

“Sostanzialmente il punto principale era questo. Tutto il resto erano abbellimenti cosmetici e politici sulla denazificazione, la popolazione russofona e bla bla bla”.

“Perché l’Ucraina non ha accettato?”

“Per prima cosa, per accettare questo punto bisognava cambiare la Costituzione. La nostra strada verso la NATO è fissata nella Costituzione. In secondo luogo non c’era e non c’è fiducia verso la Russia, la cosa si poteva fare solo se ci fossero state garanzie di sicurezza [nota mia: c’erano, facevano parte dei “18 punti” della bozza di accordo. Garanzie fornite dal Consiglio di Sicurezza ONU, da Germania, Turchia, Italia, Polonia e Cina]. Non potevamo firmare, andarcene e tirare un bel respiro, potevano tornare in futuro e noi non saremmo stati pronti. Quindi era possibile solo se fossimo stati sicuri che la cosa non si sarebbe ripetuta. Ma non ne eravamo sicuri. Inoltre, quando siamo tornati da Istanbul Boris Johnson è venuto a Kiev e ha detto che non bisognava firmare niente con loro e bisognava continuare a combattere”.

Johnson, ovviamente, non è andato a Kiev solo di sua spontanea volontà. Dopo poco sono arrivati gli HIMARS e le cose hanno preso una piega diversa e ora qualsiasi negoziato, ammesso che ci si arrivi, non potrà che tener conto di quello che è successo in questo anno e mezzo in più. Però è interessante vedere come ora anche uno dei più stretti collaboratori di Zelensky confermi non solo che Putin non aveva mentito, ma soprattutto che l’obiettivo russo fosse quello, e solo quello, di non avere la NATO in Ucraina. Cosa che era abbastanza chiara a chiunque avesse seguito l’evoluzione della faccenda dal 2007 in poi.

Francesco Dall’Aglio

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