La destra, soprattutto quando è maggioranza e quando sta, come oggi, ben salda a Palazzo Chigi, vive di confusione istituzionale, di demagogica alterazione degli equilibri di potere, fomentando in questo modo la migliore condizione possibile per l’esecutivo nel concludere politiche che sono sempre in odore di privilegio e mai di vero interesse sociale e pubblico.
In questo stato di agitazione permanente delle coscienze, il peggio del conservatorismo e della reazione italiana si struttura come elemento distintivo tanto classista (nel propagandarsi invece come interclassista) quanto antipopolare e, usando un termine più che generoso…, a-democratica.
La modificazione della Costituzione repubblicana in senso presidenzialista (et similia…) rientra in questo aggiustamento radicalmente eversivo che punta alla disomogeneità reciproca tra i poteri dello Stato e, quindi, ad una non più scontata collaborazione tra Parlamento, Governo e Magistratura. La dialettica istituzionale che ne consegue è, più che altro, un dialogo fra sordi e, quindi, un gioco a chi la spunta sulla base di rapporti di forza che non possono non squalificare anzitutto il principio democratico.
Tra i tanti esempi che si possono fare nel corso della lunghissima parabola ascendente del berlusconismo prima, del salvinismo poi e del melonismo oggi, se dobbiamo stare all’attualità stretta dei fatti non sarà sfuggito a chi si interessa un po’ della cosa pubblica l’attacco portato dal ministro Crosetto ai magistrati. A certi, dice l’altissimo esponente di Fratelli d’Italia. Perché un po’ di freno bisogna tirarlo, per lasciare un margine di ambiguità e, per l’appunto, agire rimestando nel torbido che si addensa.
Gira e rigira, l’eterna lotta forzitaliota contro i giudici si rinvigorisce di nuove parole, di nuove esasperazioni, di iperboli che riesce difficile definire in quanto tali, perché non si tratta neppure di ingigantire dei problemi esistenti; semmai si tratta di inventarli di sana pianta per fomentare la lotta tra le correnti, tanto politiche quanto magistratuali, e addensare un magmatico indistinto antidibattito che sfocia nella polemica pretestuosa, nel pandemonio generale, nella confusione aprioristica e preconcetta.
In fondo, basta paragonare le parole di Crosetto («L’unico pericolo per il governo è l’opposizione giudiziaria. So di riunioni di una corrente della magistratura in cui si parla di fermare Meloni») alle anche primissime dichiarazioni di Berlusconi sui suoi rapporti con i magistrati per riscontrare la continuità nella differenza temporale, l’aggiornamento di un vocabolario davvero resiliente, di una grammatica della politica di destra che obbedisce a regole del tutto proprie nella non-interpretazione del suo ruolo di governo come di un ruolo mediato dall’intangibilità della rete democratica.
Il governo Meloni, in questo quadro di nuova involuzione esecutivocentrica, non ha solo approntato una idea di controriforma della giustizia che limita le prerogative inquirenti dei magistrati, quindi nella fase istruttoria stessa dei successivi dibattimenti, ma scorge nel potere giudiziario un elemento terzo, una indipendenza istituzionale che non può trovare spazio in un disegno complessivo che non può non fare del governo un non sorvegliato speciale.
La politica del privilegio, del resto, è connaturata nella declinazione modernamente liberista di una concezione dello Stato forte soltanto in materia di riequilibrio dei conti a tutto vantaggio delle grandi imprese e dei dettami delle centrali bancarie transnazionali. L’uguaglianza non è nel DNA della destra: né di quella che si può richiamare al ciarpame fascista, né di quella che intende mostrarsi capace di innovazione, in una cornice democratica che accetta prescindendo dal perimetro costituzionale.
La democrazia, del resto, è un concetto liquido, molto fluido, elasticissimo. Si può definire democratico tanto il socialismo in un solo paese, sotto il potere dittatoriale di questo o quel maresciallo, quanto il più grande Stato imperialista che, sotto le stelle e le strisce, si picca di essere d’esempio per l’intero pianeta.
La migliore traduzione in termini pratici della democrazia è la maggiore affinità egualitaria tra rappresentanza istituzionale e risposta della stessa ai bisogni sociali, largamente diffusi. Praticamente i beni comuni. Messa su questo terreno, la questione è un test impassabile anche per le forze politiche di centro e di sinistra. I compromessi tra giustizia e politica impallidiscono messi a confronto con quelli tra politica, impresa e alta finanza.
Ma tant’è, la differenza esiste: per dirla con un illustre presidente mai dimenticato, è meglio la più imperfetta delle democrazie rispetto alla più rigidamente perfetta delle dittature. Su questo dovremmo essere un po’ tutti d’accordo. Perché, se si vuole rimettere al centro la Costituzione e, con essa, il suo portato per l’appunto democratico, ed antifascista, sociale, egualitario e civile nel senso proprio del termine, allora non si può pensare di affermare che le parole di Crosetto sarebbero potute uscire dalla bocca di un ministro di (centro)sinistra.
Il punto, però, è che il Paese è oggi sgovernato da forze di destra che hanno come obiettivo la riduzione della partecipazione popolare proprio con il premierato e con quella disgraziata autonomia differenziata che spaccherebbe il Paese in tanti tremendamente frivoli ed effimeri regionalismi. Con questi rapporti di forza dobbiamo fare i conti, sapendo che il goverrno Meloni proseguirà nel suo intento di controriforma delle istituzioni, portando sempre attacchi all’indipendenza della magistratura, all’autonomia dei giudici, al loro essere soltanto soggetti alla Legge.
La Storia ci insegna che, non dalle forze progressiste è mai venuto un pericolo per l’autonomia dei poteri statali, per l’espansione della stessa in seno alle assemblee elettive tanto quanto nel novero dell’applicazione del Diritto in base al principio dell’universalità tanto dei doveri quanto dei diritti.
La minaccia è sempre venuta dalle pulsioni autocratiche, oligarchiche che, se nella sinistra sono state la morte dell’originale ed originaria tensione all’uguaglianza sociale, civile e morale nel nome dell’impossessamento del potere da parte di una persona o di una casta di potere a lui intorno, nella destra erano, e restano, parte atavicamente integrante del costrutto ideologico da cui è impossibile prescindere e allontanarsi.
Si potrà non essere più fascisti, meno nostalgici di un tempo, ma la concezione di Stato che le destre hanno è di una onnipresenza che non fa il paio con la garanzia della tutela di ogni ambito del pubblico rispetto al privato (cosa che almeno i regimi totalitari fintamente socialisti provavano a mettere in pratica), bensì che controlla ogni autonoma presa di posizione, ogni critica, ogni diritto di opposizione e quindi ogni forma di indipendenza perché potenziale minaccia al monolitismo che hanno in mente.
Il governo vorrebbe non essere perturbato, non essere disturbato dalla magistratura. Non si tratta di una, peraltro inconcepibile esigenza di un esecutivo, che – è bene ricordarlo… – non è al di sopra della Legge. Pare trattarsi invece di una esigenza intrinseca di chi compone oggi la maggioranza: forze politiche per cui la democrazia è una variabile dipendente dal consenso. Se sono in minoranza la accettano, se sono in maggioranza ne forzano i limiti e le soglie di rispetto reciproco.
Non erano solo gli scioperi che davano fastidio al berlusconismo che diventava fisionomia partitocratica di un Paese in capovolgimento di sé stesso rispetto alle fondamenta costituzionali del 1948. Erano anche quei giudici che osavano fare i giudici, quei procuratori che si mettevano non di traverso ad un potere, ma impedivano che la giustizia fosse platealmente vilipesa dalla prepotenza degli interessi indebiti tra istituzioni ed economia.
Non era tollerabile ieri che si indagasse sui politici, finisce con il non esserlo anche oggi. Siamo nuovamente alle soglie di una deriva antidemocratica. Simile a quella che abbiamo vissuto nel ventennio berlusconiano, dopo la bufera di Tangentopoli e la cosiddetta “rivoluzione di Mani Pulite“. Sbagliato definirla così, perché non fu un atto di ribellione contro l’ordine costituito. Fu la fine della compenetrazione vicendevole tra settori dello Stato che erano entrati in crisi dopo la fine del consenso ai grandi partiti di massa. Soprattutto quelli del Pentapartito.
Fu la possibilità di vedere finalmente la Magistratura come parte indipendente nello Stato e non dallo Stato. La giustizia delle destre, dal primo governo Berlusconi in avanti, è sempre stata caratterizzata da un rovesciamento delle garanzie in spazi di impunità nemmeno troppo malcelata. L’immunità parlamentare, da strumento di tutela pensato proprio per evitare il ripetersi di quello che era avvenuto durante il fascismo, era passata ad essere una quintessenza dell’ineguaglianza di certi cittadini davanti alla Legge.
Oggi corriamo il pericolo di vedere capovolto più di un piano che si interseca con altri. Sono in pericolo i rapporti tra Stato unitario e regioni, i diritti uguali per tutti i cittadini, da nord a sud del Paese, il riconoscimento vicendevole degli ambiti di intervento del Parlamento, del Governo, della Magistratura, della Presidenza della Repubblica.
Pensare che queste destre siano in grado di dare a tutte e tutti la garanzia di un riforma costituzionale, ed in più della giustizia, basata sul riconoscimento del presupposto democratico come base fondante a tutto tondo, è un tertullianissimo apologetico “Credo quia absurdum“. Possiamo fare un atto di fede, ma non possiamo certo razionalmente e, quindi, politicamente, ritenere che, chi difende anzitutto il ruolo del governo a scapito degli altri ruoli istituzionali, si profonda nella anche solo formale tutela dell’architrave costituzionale.
La disponibilità che il ministro Crosetto dà, di recarsi in Parlamento a riferire in merito, non è una rassicurazione sulla bontà delle sue dichiarazioni e non toglie quella patina di foschia autoritaria che la destra di governo oggi, nonché quella di opposizione appena l’altro ieri nei tempi velocissimi della politica, pone da sempre come corollario dell’incontro tra legge ed ordine, e tra questo e lo sviluppo antisociale.
Non è una novità riscoprire, ogni volta che c’è un attrito tra potere esecutivo e potere giudiziario (a dire il vero causato sempre e soltanto dal primo nei confronti del secondo), ad uscirne rinforzata è sempre una demagogica diffusione di una caricaturizzazione del ruolo dei magistrati come se fossero dei pedanti e meticolosi ingombri al pieno inverarsi delle ragioni tanto sociali quanto, in generale, dell’interesse nazionale del Paese.
La retorica meloniana, nonché salvinana e un tempo certamente berlusconiana, ha preteso di ergere a comportamento istituzionalmente corretto il trattare la magistratura alla stregua di una dependance della politica di governo. Tutto va bene finché le inchieste non toccano le lande della maggioranza o, peggio ancora, quelle che riguardano certe ministre e certi ministri.
Questo rapporto insano è una precondizione per un deterioramento progressivo dell’equilibrio democratico. Non è meno pericoloso della controriforma sull’autonomia differenziata, così come sui tentativi che verranno fatti di trasformare la Repubblica da parlamentare in semipresidenziale, gettandole addosso l’anomalia davvero tutta e solo italiana del primierato.
Mano a mano che il governo procede nei suoi programmi e nei suoi intenti, somiglia ad un Gerione dal corpo roboantemente presente con più teste, moltissime mani e due gambi esili su cui, nonostante tutto, riesce a reggersi perché non esiste una vera alternativa a questo moderno mostro fintamente amico della democrazia repubblicana, palesemente avversario dell’antifascismo, inveteratamente legato ad un passato di cui avrà messo da parte nomi e costumanze, ma non la primordiale fonte ideologica.
MARCO SFERINI