Rachele Gonnelli

I paesi Nato europei hanno aumentato del 50% le spese militari dal 2014, il 10% solo nel 2023. Metà degli acquisti sono importazioni dagli Usa. Lo studio è di Greenpeace e mostra come ciò, non solo sottrae fondi a welfare e clima, ma crea meno occupazione e sviluppo.

L’Europa sta spingendo al massimo sull’acceleratore nella corsa al riarmo mondiale. Sempre più nano politico, balbuziente sul piano diplomatico, ma armata fino ai denti. 

Il più importante centro studi a livello mondiale che monitora la spesa militare – lo Stockholm International Peace Research Institute o Sipri – aveva segnalato nell’aprile scorso che la spesa militare in Europa nel 2022 aveva già registrato il più forte aumento su base annua degli ultimi 30 anni e insieme la variazione più consistente del mondo: più 13 per cento. Adesso entra in scena Greenpeace, che ha pubblicato il suo rapporto “Arming Europe”, con dati aggiornati e focus su tre paesi: Germania, Italia e Spagna (qui la sintesi in italiano).

Dal rapporto di Greenpeace viene fuori che negli ultimi dieci anni, cioè a partire dal 2014, i paesi Nato europei hanno aumentato del 50 per cento le spese militari (da 145 a 215 miliardi di euro) e soltanto nell’anno 2023 proprio queste spese dovrebbero vedere un’impennata addirittura del 10 per cento in termini reali. È il costo della guerra in Ucraina, ma non solo. È anche una folle corsa che non sembra aver aumentato la “sicurezza” né fermato il conflitto, mentre ha sicuramente sottratto risorse per investimenti di pace, dalla mitigazione dei devastanti effetti del riscaldamento climatico, agli investimenti necessari alla decarbonizzazione dell’economia, alle spese sociali più necessarie, a partire dalla sanità e dai servizi scolastici, in sostanza per aumentare la sicurezza, quella vera, della società in termini di diritti, inclusione, dialogo e in fin dei conti democrazia.  

Leggendo il rapporto commissionato da Greenpeace International ai tre uffici nazionali in Italia, Germania e Spagna si scopre così che nell’ultimo decennio la Germania ha aumentato la spesa militare reale del 42%, l’Italia del 30%, la Spagna del 50%. In tutti i Paesi l’aumento è stato interamente dovuto all’acquisizione di armi ed equipaggiamenti. Nel 2023 la spesa per gli armamenti nei Paesi Ue membri della NATO ha raggiunto i 64,6 miliardi di euro (+270% nella decade considerata); la Germania ha triplicato la spesa, raggiungendo i 13 miliardi di euro; l’Italia ha raggiunto i 5,9 miliardi; la Spagna i 4,3 miliardi.

Si tratta soprattutto di importazioni, triplicate dal 2018, e per metà provenienti dagli Stati Uniti: veri beneficiati, dunque, del riarmo europeo in termini economici. Nel frattempo, gli stessi paesi europei sono caduti in una spirale di stagnazione economica, inflazione alle stelle e debito pubblico in forte crescita. 

Nel rapporto si specifica che l’acquisto di armi può essere paragonato agli investimenti in conto capitale della spesa pubblica. Nei Paesi Ue della NATO, la spesa pubblica in dieci anni è aumentata del 35%, ma l’acquisto di armi è cresciuto del 168%, quasi cinque volte più velocemente. Germania e Spagna sono sostanzialmente in linea con le tendenze degli altri partner dell’Unione, mentre l’Italia mostra una dinamica di spesa inferiore, a causa dei problemi di finanza pubblica. 

La domanda a questo punto è: questa spesa militare, quale effetto economico ha in termini di crescita e occupazione? E come si può confrontare rispetto alla spesa pubblica per l’istruzione, la sanità e l’ambiente? Qui le risposte degli economisti che hanno curato la stesura del report- Chiara Bonaiuti, Paolo Maranzano, Mario Pianta, Marco Stamegna -, è piuttosto chiara. E parte dal fatto che se metà di quello che spendi va in acquisto di beni importati, non crea produzione e occupazione interna. I calcoli sono che se in Germania una spesa ipotetica di 1.000 milioni di euro per l’acquisto di armi porta a un aumento della produzione interna di 1.230 milioni di euro, in Italia, l’aumento risulta di soli 741 milioni di euro, visto che una parte maggiore della spesa è destinata alle importazioni. In Spagna, invece, nella stesso rapporto, l’aumento della produzione interna è di 1.284 milioni di euro. Sempre nella stessa esemplificazione l’effetto sull’occupazione sarebbe di 6.000 posti di lavoro aggiuntivi (a tempo pieno) in Germania, 3.000 in Italia e 6.500 in Spagna. Quando però gli stessi 1.000 milioni di euro vengono spesi per l’istruzione, la salute e l’ambiente, l’impatto economico e occupazionale è maggiore. I risultati più elevati si registrano per la protezione ambientale, con un aumento della produzione di 1.752 milioni di euro in Germania, 1.900 milioni di euro in Italia e 1.827 milioni di euro in Spagna. Per l’istruzione e la sanità, la produzione aggiuntiva varia da 1.190 a 1.380 milioni di euro. In termini di nuovi posti di lavoro, in Germania con la stessa dotazione di. 1.000 milioni di euro si potrebbero creare 11.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale, quasi 18.000 posti di lavoro nell’istruzione, 15.000 posti di lavoro nei servizi sanitari. In Italia i nuovi posti di lavoro andrebbero da 10.000 nei servizi ambientali a quasi 14.000 nell’istruzione. In Spagna l’effetto occupazionale sarebbe compreso tra 12.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale e 16.000 nell’istruzione. L’impatto sull’occupazione è infatti da due a quattro volte superiore a quello atteso da un aumento nella spesa per le armi.

La militarizzazione – conclude Greenpeace – è pertanto, al netto di tutte le altre variabili,  un “cattivo affare”.  Ma vediamole, pure, queste altre variabili. La prima è un rafforzamento poderoso di quello che il generale Dwight Eisenhower chiamava il “complesso militare-industriale”, un reticolo di interessi, relazioni, sliding-doors, tra la grande industria bellica e la politica che si salda in una lobby in grado di pilotare a senso unico gli investimenti pubblici, la ricerca e le decisioni politiche. La seconda è l’effetto “culturale” o di rumore di fondo, quello che veniva messo in luce da Johan Galtung nelle sue lezioni universitarie a Firenze a metà degli anni Ottanta: l’enfasi sugli aspetti bellici e securitari della funzione statuale cambia la natura stessa del vivere associato, permea le istituzioni, crea una cultura politica bellicista, nazionalista, gerarchica, di sopraffazione, erode la convivenza democratica e partecipativa.

Si può aggiungere, rispetto al rapporto di Greenpeace, che inoltre facilita la società del controllo o per meglio dire l’implementazione del “capitalismo della sorveglianza” analizzato nei suoi meccanismi da Shoshana Zuboff.  

Bruxelles ha istituito il Fondo europeo per la difesa, che prevede 7,9 miliardi di euro per la ricerca e la produzione di nuovi armamenti nel periodo 2021-2027, e il Fondo europeo per la pace, con 12 miliardi di euro per aiuti e forniture militari – dall’Africa all’Ucraina – consegnando alle armi, o comunque mettendo in un unico calderone, ciò che resta della cooperazione allo sviluppo. In più c’è il progetto di scorporare le spese militari dal nuovo Patto di Stabilità e crescita, il che farebbe lievitare ulteriormente il settore.

Greenpeace chiede invece con una petizione rivolta al governo italiano di tagliare le spese militari, rinunciando all’obiettivo NATO del 2% del Pil, di tassare gli extra profitti delle aziende della Difesa e di usare quei fondi per la lotta alla povertà e alla crisi climatica.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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