Negli ultimi dieci anni, gli investimenti per i nuovi sistemi d’arma dei Paesi NATO all’interno dell’Unione Europea sono cresciuti quattordici volte di più rispetto al loro Pil complessivo. E, in Italia, da 2,5 miliardi di euro la spesa militare si è vertiginosamente alzata fino a toccare i 5,9 miliardi. Ad attestarlo è il nuovo rapporto “Arming Europe”, commissionato a un team di esperti dalle articolazioni italiana, tedesca e spagnola di Greenpeace. Attraverso il report si dimostra come l’investimento in armi sia una mossa svantaggiosa non solo per la pace, ma anche per l’economia e l’occupazione degli Stati, mentre al contrario i Paesi abbiano maggiori margini di crescita puntando su ambiente, istruzione e sanità.
Nello specifico, nel continente europeo le spese militari hanno registrato aumenti molto importanti (+46% nei Paesi NATO-UE; +26% in Italia), in particolare grazie ai maxi-acquisti di armi e mezzi militari (+168% nei Paesi NATO-UE; +132% in Italia). Eppure, mentre enormi quantità di risorse vengono incanalate in questa direzione, il Prodotto Interno Lordo dei Paesi di riferimento risulta stagnante (la crescita è del 12% nei Paesi NATO-UE, del 9% in Italia), così come i dati sull’occupazione (+9% nei Paesi NATO-UE; +4% in Italia). Insomma, nel corso di un periodo iniziato quando ancora forti erano gli effetti della “grande recessione”, al posto che al welfare e alla spesa ambientale si preferisce mettere mano a quella militare, che nel nostro Paese ha subito un incremento addirittura del 30%. Basti pensare che la spesa per la sanità è aumentata soltanto dell’11%, quella per la protezione ambientale del 6% e quella per l’istruzione di un risicatissimo 3%.
Sulla base delle tabelle input-output, all’interno del report si soppesa l’impatto che le varie voci di spesa producono sulle condizioni della società degli Stati oggetto di studio. In Germania, una spesa di 1.000 milioni di euro per l’acquisto di armi produce un aumento della produzione interna di 1.230 milioni di euro; in Italia di soli 741 milioni di euro, dal momento che “una parte maggiore della spesa è destinata alle importazioni”; in Spagna di 1.284 milioni di euro. Le conseguenze sull’occupazione sarebbero di soli 6.000 posti di lavoro aggiuntivi (a tempo pieno) in Germania, 3.000 in Italia e 6.500 in Spagna. Nella ricerca si registra come invece tutto cambi in meglio quando la stessa cifra viene spesa per istruzione, salute e ambiente. Con 1.000 milioni di euro sulla protezione ambientale, si apre la strada a “un aumento della produzione” di 1.752 milioni di euro in Germania, di 1.900 milioni di euro in Italia e di 1.827 milioni di euro in Spagna. Per quanto concerne istruzione e la sanità, la produzione aggiuntiva varia da 1.190 a 1.380 milioni di euro. Rispetto all’occupazione, in Germania 1.000 milioni di euro potrebbero creare 11.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale, quasi 18.000 posti di lavoro nell’istruzione, 15.000 posti di lavoro nei servizi sanitari; in Italia, i nuovi posti di lavoro “andrebbero da 10.000 nei servizi ambientali a quasi 14.000 nell’istruzione; in Spagna, si produrrebbero tra 12.000 nuovi posti di lavoro nel settore ambientale e 16.000 nell’istruzione. Con un impatto sull’occupazione che supera almeno del doppio, fino al quadruplo, quello prodotto dalla spesa militare.
Nonostante tale spaccato, il nostro governo – insieme a quelli di tanti altri Paesi NATO – ha già fatto capire a Parlamento e cittadini che sulle armi continuerà a puntare. D’altronde, nel Documento di Programmazione Pluriennale 2023-2025 trasmesso a ottobre alle Camere dal ministero della Difesa – in cui si dà conto delle previsioni di spesa sui programmi di armamento delle Forze Armate Italiane -, si è stabilito che il bilancio della Difesa per il 2023 sarà di 27 miliardi e 748 milioni, pari all’1,38% del Pil. Un dato che ha delineato un’inversione di tendenza rispetto a quanto previsto nel Dpp dell’anno scorso, che, per il 2023, si fermava a 25 miliardi e 492 milioni per le spese militari. Nelle sue proiezioni, peraltro, il nuovo documento stima un aumento pari a 600 milioni di euro della voce in questione – che dipende in maniera diretta dai fondi destinati a nuove armi – nei prossimi due anni.
[di Stefano Baudino]