Antonio Semproni

Limiterò le mie considerazioni sulle asimmetrie di potere e opportunità tra le donne e gli uomini alla loro relazione con i modi di produzione che si sono avvicendati nel corso della storia: dinamiche tra loro intrecciate, almeno fino al capitalismo liberale. Fin a quel momento assistiamo a una decisa marginalizzazione della donna dal processo di accumulazione delle eccedenze. Dal Neolitico  in poi – perlomeno in quelle società che producono o comunque accumulano più di quanto sia richiesto da un’economia di sussistenza – le dinamiche strutturali sono dirette dall’uomo, in quanto protagonista dei rapporti di produzione (padrone-schiavo, servo-signore, proletario-capitalista), con tanto di marginalizzazione della donna destinata alla produzione di valori d’uso piuttosto che di scambio, cioè di beni destinati all’autoconsumo entro le mura domestiche piuttosto che di merci circolanti nel mercato; in altre parole, la donna è esclusa dal commercio e rilegata alla fondamentale funzione di riproduzione sociale, cioè di prosecuzione dell’umanità e di garanzia della sua continuità nel tempo (cure personali, svezzamento dei figli, igiene domestica, etc.).

Con il passaggio dal capitalismo liberale al capitalismo meritocratico – intorno alla metà del secolo scorso – si assiste allo sgretolamento di questo particolare modo di essere dei modi di produzione: la donna viene ammessa nel mercato, e non solo come creatrice di plusvalore espropriato dai capitalisti (forza lavoro salariata), ma anche, almeno in potenza, come accumulatrice di capitale (capitalista). A differenza del capitalismo liberale, il capitalismo meritocratico si caratterizza per lo stabilire, quantomeno sulla carta, pari diritti e opportunità tra uomini e donne: suo obiettivo è quello di creare le condizioni – sempre e soltanto giuridico-formali – perché gli uomini e le donne abbiano pari opportunità di competere, uguali possibilità di essere inclusi e avere successo nel mercato. Si tratta di un’eguaglianza puramente nominale, la cui applicazione prescinde da qualsiasi considerazione delle condizioni di partenza, riferite tanto alla classe sociale quanto al sesso. Nel capitalismo meritocratico la donna fa il suo ingresso nei rapporti di produzione, competendo con l’uomo per un posto tanto tra i salariati quanto tra i capitalisti.

Ora, l’assetto iniziale da cui siamo partiti – cioè la marginalizzazione della donna dai rapporti di produzione – non è congeniale al capitalismo meritocratico e, ancor prima, alla cultura illuministica del progresso illimitato in cui esso si abbarbica. Questa cultura mira infatti a far sì che pure la donna partecipi (quale forza lavoro salariata, ma anche, potenzialmente, quale capitalista) alla strenua marcia verso il progresso illimitato, alla crescita senza fine della produzione e dello scambio di beni e servizi; esige quindi la rimozione delle barriere formali dell’accesso della donna al mercato del lavoro e dei capitali, così riducendone l’inclusione sociale a inclusione nel mercato.

Dunque, cosa hanno offerto gli uomini alle donne per emanciparle dalla condizione di subalternità strutturalmente inerente i modi di produzione? Riposta: le logiche del capitalismo meritocratico,  ovvero competizione, concorrenza e legge del più meritevole (che io definirei del più forte, a seconda della configurazione che assume la forza nello specifico campo legalizzato di concorrenza), applicata a prescindere dalle condizioni di partenza di ciascuno.

La struttura economica del capitalismo meritocratico, pur rimodellando le altre sovrastrutture (prima tra tutte, la giuridica), ha sortito ben più debole effetto sulla necessità di riequilibrare i rapporti tra maschi e femmine nel senso di una vera ed effettiva parità. Mentre a livello di senso comune maschile persiste il pregiudizio per cui le donne vengono viste come illegittime concorrenti in fatto di carriera lavorativa, nei luoghi dove si svolge la vita privata di ciascuno di noi (nelle mura domestiche, come anche nelle scuole e negli uffici) non è raro imbattersi in episodi di discriminazione e prevaricazione.

La contraddizione tra la meritocrazia propria di quest’ultima fase del capitalismo, affermata anzitutto sul piano giuridico, e dall’altro la persistenza di una situazione di asimmetria nei rapporti tra uomini e donne, ha prodotto un cortocircuito da cui si sprigiona, tra le altre, quella somma ingiustizia sociale per cui le donne vengono rimproverate di essere arriviste e pensare solo alla carriera se non fanno figli oppure, viceversa, di essere pigre e trascurare la carriera se si dedicano ai figli.

La donna viene tirata per le maniche da due forze contrarie.

«Fa’ figli! Crescili! Pensa alla cura della casa! Prosegui la tradizione tramandata dalle altre donne!» la esorta il patriarca.

«Lavora! Fa’ carriera! Competi con l’uomo! Dimostra che vali più di lui!» la sprona il capitalista. “Ma sta’ attenta” pensa sotto sotto “ché se ti spingi troppo in là ti faccio lo sgambetto”.

Questa contraddizione non soltanto genera ansia sociale nelle donne, ma induce nell’uomo un atteggiamento giudicante, foriero di pregiudizi, invidie, luoghi comuni discriminatori e, nelle ipotesi peggiori, manie di controllo e persecutorie: in ultima analisi, una propensione violenta ai danni delle donne. Teniamo pure in considerazione che ciascuno di noi compete con tutti gli altri, a prescindere dal sesso – com’è logico che sia nel capitalismo meritocratico, business as usual – e che questa iper-competizione induce un narcisismo e un monadismo che cancellano dal singolo ogni orizzonte pubblico, qualsiasi senso di appartenenza a una comunità. Questo retroterra culturale, anzi questo deserto, è lo spazio più propizio ove costruirsi una gabbia che ci separi dagli altri e nella quale ammettere i più deboli – donne, ma anche bambini – per piegarli alle norme che abbiamo arbitrariamente stabilito per il nostro microcosmo.

Dunque, anche dalla combinazione tra meritocrazia e logiche di dominio e possesso sbilanciate a vantaggio degli uomini nascono le violenze degli uomini sulle donne. Quel che possiamo fare da uomini, da Compagni, è ascoltare la narrazione delle donne, di per sé legittima già solo perché operata da chi, trovandosi in una condizione di subalternità, guarda il mondo dalla giusta prospettiva, cioè dal basso verso l’alto: non prestarle il dovuto ascolto sarebbe come ignorare i lavoratori di tutto il mondo che protestano per delocalizzazioni o salari da fame. E credo sia doveroso accettare anche la loro rabbia: se un capitalista si mettesse realmente in ascolto di un operaio, molto probabilmente si vedrebbe sputare rabbia in faccia: ciò sarebbe, tra l’altro, comprensibile e giusto; in questo caso, siamo noi uomini il ‘capitalista’ di turno.

Non resta che tendere le orecchie (e il cuore), studiare e capire assieme (con il dialogo, tramite incontri e dibattiti pubblici che coinvolgano anche chi ha ultimato la propria formazione scolastica) come decostruire il retro pensiero maschilista e liquidare un sistema meritocratico gravemente tossico.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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