Trenta scienziati dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) hanno fatto chiarezza sul legame tra esposizione a sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) e insorgenza di tumori. In un lavoro che verrà presto pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet Oncology, i ricercatori hanno infatti concluso che una delle tipologie di PFAS più diffuse è certamente cancerogena e che pertanto va inserita nel gruppo 1 delle sostanze che possono causare neoplasie. L’aggiornamento della lista avrà una forte rilevanza in tutti quei processi in cui le vittime di queste pericolose sostanze industriali chiedono giustizia, come nel caso dei cittadini veneti che da anni si battono contro le istituzioni e l’azienda che ha sversato PFAS nella falda idrica sotto le province di Vicenza, Padova e Verona.

In particolare, i Pfoa, composto chimico della famiglia dei Pfas, sono stati considerati cancerogeni per gli esseri umani “sulla base di prove sufficienti di cancro negli esperimenti sugli animali – scrivono i ricercatori – e di prove meccanicistiche forti nell’uomo esposto”. Si parla, nello specifico, di un rapporto causa-effetto tra la presenza di Pfoa nel sangue, nei tessuti e negli organi dei soggetti contaminati e le patologie da essi sviluppate. I Pfos, altro appartenente al gruppo dei Pfas, sono stati invece fatti rientrare nel gruppo 2B (a cui in precedenza appartenevano i Pfoa) poiché “possibilmente” cancerogeni. La ricerca, che presto vedrà la luce, illustrerà gli utilizzi industriali dei Pfas e prenderà in esame le correlazioni con determinate tipologie di tumore, in particolare quelli del rene e dei testicoli. Il rapporto, inoltre, conferma la trasmissibilità da mamme a neonati, nonché il fatto che i Pfas determinano una minore reazione dei vaccini e una maggiore vulnerabilità alle infezioni.

I contenuti del nuovo studio costituiscono l’ennesimo tassello tecnico-scientifico che ha evidenziato la grande pericolosità dei Pfas, dando ragione a quell’universo di movimenti e associazioni – primo tra tutti quello delle “Mamme No Pfas” – che da sempre, in piazza come nelle aule giudiziarie, denunciano la questione. Attualmente è in corso davanti alla Corte d’Assise di Vicenza un processo che vede alla sbarra i dirigenti della Miteni di Trissino – azienda chimica specializzata in produzione di intermedi fluorurati per agrochimica, farmaceutica e chimica, dichiarata fallita nel 2018 – per le responsabilità sottese al grave inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche di una vasta falda acquifera in Veneto, che avrebbe coinvolto 350mila cittadini nelle aree di Vicenza, Padova e Verona. In aula Pietro Comba, ex dirigente in pensione di Iss, lo scorso giugno ha riferito che nel 2017 svolse con i tecnici della Regione un lavoro atto a porre le basi dello studio epidemiologico per accertare le possibili correlazioni tra la presenza di Pfas nel sangue e l’insorgenza di tumori. Un progetto che si sarebbe arenato, a detta di Comba, per motivazioni politiche. Recentemente, in seguito alle pressioni ricevute dalle associazioni ambientaliste e dalle forze di opposizione, l’assessora regionale leghista alla Sanità Manuela Lanzarin ha ammesso che a bloccarlo furono «ragioni di approfondimenti di natura economica-finanziaria». Un mese fa, peraltro, è stata archiviata l’indagine a carico degli stessi manager della Miteni per omicidio colposo ai danni di tre lavoratori e per lesioni colpose rispetto alle patologie che hanno colpito 18 loro colleghi. Il gip, su proposta dei pm, aveva deciso di archiviare anche per la difficoltà di delineare una connessione certa tra Pfas e patologie riscontrate. Ma ora i risultati della ricerca dello IARC sembrano dire esattamente l’opposto.

Un importantissimo ruolo, nella cornice di questa battaglia per la verità e la giustizia, è stato giocato da vari movimenti ambientalisti che, tra il 2015 e il 2016, riuscirono a inaugurare una rilevazione a campione che mise in luce valori elevati di Pfas nel sangue dei residenti dei comuni coinvolti dal disastro ambientale. La questione fu così grave da indurre, nel 2018, il governo a dichiarare lo stato di emergenza, istituendo una zona rossa in ben 30 comuni, e, tra il novembre e il dicembre 2021, l’Alto Commissariato dell’Onu a inviare in missione in Veneto una delegazione per comprendere se la gestione dell’emergenza abbia violato i diritti umani. Ne conseguì un rapporto in cui si evidenziò come “in troppi casi, l’Italia non è riuscita a proteggere le persone dall’esposizione a sostanze tossiche”.

Successivamente, l’allarme Pfas è risuonato anche in Lombardia. Uno scenario inquietante è infatti emerso dal rapporto “Pfas e acque potabili in Lombardia, i campionamenti di Greenpeace Italia”, pubblicato due mesi fa dall’associazione ambientalista, in cui è stato attestato che ben 11 dei 31 campioni raccolti nelle acque potabili di una serie di Comuni di tutte le province Lombarde risultano , contaminati da Pfas. In 4 casi l’organizzazione ha registrato una contaminazione da Pfas superiore al limite indicato nella Direttiva europea 2020/2184, ovvero 100 nanogrammi per litro. Lo scorso maggio, in seguito a numerose richieste di accesso agli atti inoltrate alle Agenzie di tutela della salute e agli enti gestori delle acque lombarde, la stessa associazione aveva pubblicato i risultati delle analisi eseguite dalle autorità competenti sulla concentrazione di Pfas nell’acqua destinata a uso potabile in Lombardia tra il 2018 e il 2022. Dall’esame era risultato positivo alla presenza di sostanze perfluoroalchiliche circa il 19% dei campioni (ben 738). Il valore più alto di positività ai Pfas (pari all’84% dei campioni) era stato trovato nelle acque della provincia di Lodi, seguita da Bergamo (60,6%) e Como (41,2%), mentre a Milano era risultato contaminato quasi un campione su tre.

[di Stefano Baudino]

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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