Benjamin Netanyahu, Gaza e Joe Biden
Due mesi sono trascorsi da quel feroce 7 ottobre in cui il conflitto israelo-palestinese subiva una accelerazione improvvisa, molto poco inaspettata per il governo di Netanyahu che, a quanto è dato sapere dalle notizie raccolte fino ad oggi, era stato ampiamente avvertito di una minaccia su vasta scala da parte di Hamas già un anno prima.
Due mesi in cui, all’attacco contro i kibbutz limitrofi al confine con la Striscia di Gaza ed a quello contro il concerto dei giovani israeliani nel deserto prospiciente, lo Stato ebraico ha risposto con una operazione di guerra su vasta scala, diretto non solo contro Hamas ma, in particolare, contro due milioni e mezzo di civili presenti nel lembo di terra tra a metà tra il Sinai e la Cisgiordania.
La conta dei morti è impressionante: 15.000 civili, migliaia di militanti di Hamas, il 70/80% delle abitazioni di Gaza è praticamente raso al suolo. Gli aiuti umanitari non riescono ad entrare nella Striscia per i blocchi imposti da Israele: manca praticamente tutto.
Di ospedali aperti ne restano pochissimi e la popolazione palestinese che si era rifugiata in quella che Tel Aviv aveva garantito essere la zona protetta dai bombardamenti e dalla furia della guerra, quindi la metà sud della Striscia stessa, oggi si combatte praticamente come a Gaza city.
La lotta è diventata senza quartiere e non risparmia niente e nessuno. Tra poco non ci sarà più nulla da distruggere, tanto che anche gli Stati Uniti, attraverso le dichiarazioni quasi giornaliere di Blinken, mostrano di essere spazientiti e di considerare l’obiettivo di Netanyahu e del suo gabinetto di guerra irragiungibile: annientare Hamas è praticamente impossibile.
Ridimensionarne la forza, escluderlo dal governo della Striscia invece sembra essere la linea perseguita dall’amministrazione Biden in questo contesto di crisi praticamente globale. La crisi mediorientale, dunque, assume tutti i connotati di una crisi globale, di un qualcosa che non interessa più il fronte regionale di un conflitto che ha attraversato la seconda metà del Novecento e che non è cessato nemmeno con l’avvento del nuovo millennio.
La preoccupazione di Washington è, tutt’oggi, l’estensione della guerra agli Stati confinanti, in particolare il Libano. Netanyahu ha fatto sfoggia del suo più bellicoso armamentario da consumato comiziante per dire, urbi et orbi, che, se Hezbollah si metterà in testa di attaccare Israele da nord, Beirut farà in pratica la fine di Gaza. Un cumulo di macerie, un tappeto impietoso di cadaveri.
Del resto, le mosse delle altre grandi potenze mondiali non rassicurano l’uscente amministrazione di Sleepy Joe. Vladimir Putin stabilizza il fronte in Ucraina e logora, con i tempi lunghissimi della guerra, l’ormai sempre più evidente incapacità ed impossibilità di proseguirla sine die con il rifornimento costante di armamenti leggeri e pesanti proprio da parte americana (ma pure europea).
Nello stesso tempo, i rapporti tra Mosca e i paesi arabi si consolidano e la crisi israelo-palestinese apre una serie di contraddizioni nella politica internazionale degli USA che deve gestire più teatri di guerra come veri e propri fronti che convergono in un unico difficile punto di caduta: le prossime elezioni presidenziali.
Fin dall’inizio della nuova fase di escalation bellica tra Hamas e Tel Aviv, non è stato difficile leggere, nella ritrosia di Washington ad appoggiare indiscriminatamente le guerra di annientamento, tutta la complessità di una politica estera statunitense nella condivisione di una multilateralità dei conflitti che, volenti o nolenti, si riguardano, se non vicendevolmente, quanto meno per interposti interessi geopolitici e geostrategici.
L’opposizione repubblicana ha sostenuto lo sforzo bellico in Ucraina, ha sostenuto l’invio di armi; ma lo ha fatto mettendo su questi nulla osta una ipoteca politica di non poco conto. I paesi arabi, dal loro canto, hanno interpretato la timidezza bideniana verso Netanyahu come un segnale di preservazione dei buoni rapporti tanto con il Qatar quanto con l’Arabia Saudita.
L’uno protettore della leadership di Hamas, ed ospitante i suoi capi più influenti, l’altro, il regno hashemita, da sempre più orientato ad una moderazione compromissoria tra Occidente e Medio Oriente, alleato economico della Repubblica stellata, base delle operazioni militari per tutte le Guerre del Golfo.
L’impopolarità della guerra in Ucraina, percepita dagli americani come un conflitto lontano, conficcato nel ventricolo orientale della vecchia Europa, è cresciuta tanto presso la vasta galassia antimperialista e pacifista, quanto presso le fasce più conservatrici del mondo politico, sociale e civile.
Le difficoltà di Biden, Harris e Blinken sono dunque dipese da diversi fronti di condizionamento sia istituzionale sia sociale, sia propriamente politico, sia propriamente popolare. Di contro, è montata l’accusa all’amministrazione di essere quasi immobile davanti all’esplosione incendiaria di Gaza.
La famosa dichiarazione del presidente sull’evitamento degli errori fatti dagli USA l’11 settembre 2001 è parsa a molti ciò che poi realmente voleva essere: la presa d’atto che la situazione globale era profondamente mutata nel giro di vent’anni. L’unipolarismo di allora è stato via via sostituito da un multipolarismo incedente, sovrabbondante e impossibile da negare.
Cina da un lato, Russia dall’altro, anche nella formula associativa dei BRICS (con successivi allargamenti proprio ai paesi arabi e a quelli africani), stavano gettando le basi per una riorganizzazione diretta ed indiretta dei rapporti di forza tra i poli economici, creando nuovi assi di sviluppo per un mondo in cui la globalizzazione non aveva più soltanto il volto del capitalismo liberista statunitense.
La differenza tra il conflitto in Ucraina e quello nella Striscia di Gaza, almeno da un punto di vista meramente strategico, sta tutta nella oggettiva impossibilità di rendere a più miti consigli il primo ministro israeliano, mentre con il presidente ucraino il potere di condizionamento delle scelte sul campo, anche per la presenza massiccia della NATO, risulta più determinante e impositivo.
Le due guerre a confronto, senza dubbio, mostrano tutte le diversità di atteggiamento che gli Stati Uniti sono stati costretti ad adottare pur nella cornice ideologica della difesa dei princìpi democratici dentro i confini di Stati legittimati ad esistere da una storia che si erano andati costruendo da decenni e decenni di rivolgimenti e stravolgimenti interni.
E, un po’ paradossalmente, gli effetti pesantissimi del conflitto ucraino sul piano economico internazionale, sulle cifre di bilancio messe a disposizione del finanziamento e rifinanziamento delle forniture di armi a Kiev, hanno prospettato a Biden ed al suo governo una di certo impervia via di uscita tanto dal pantano del Donbass quanto da quello della Striscia di Gaza in tempi brevi da consentire un recupero di credibilità nei confronti dell’opinione pubblica nazionale.
Così, Biden, almeno per quanto ha riguardato fino ad oggi il rapporto bilaterale tra Washington e Tel Aviv, ha preferito puntare su obiettivi di più corto raggio, concentrandosi sul salvataggio degli ostaggi americani in mano ad Hamas, sulla riapertura del valico di Rafah per far passare i rifornimenti di cibo, medicinali e carburante, sui confronti tra Blinken e quasi tutti i governi del Medio Oriente.
La prudenza bideniana ha fatto registrare pure una certa vicinanza con la posizione assunta dal Segretario generale delle Nazioni Unite Guterrez. Si tratta del riconoscimento della sproporzione tra l’attacco di Hamas del 7 ottobre e la reazione israeliana: ad un attacco terrorista si risponde con la guerra a tutto spiano contro una intera popolazione. L’appoggio pieno ad Israele, garantito da Washington, si è al momento fermato al livello delle dichiarazioni formali.
Nonostante le decine di miliardi messe a disposizione nel bilancio a stelle e strisce per il finanziamento dello sforzo bellico dello Stato ebraico, non è mai venuta meno la critica alla risposta spianante e spiazzante del governo di Netanyahu agli orrorifici fatti del 7 ottobre.
Settimana dopo settimana, nonostante la tregua di qualche giorno che ha consentito la liberazione di una esigua parte delle centinaia di ostaggi in mano ad Hamas, l’escalation imperialista e guerrafondaia di Israele non si è fermata. Si è anzi moltiplicata nel suo crudele riversarsi contro tutto e tutti, senza più distinzione alcuna tra miliziani delle brigate Ezziden Al-Qassam e semplici civili.
La preoccupazione dell’amministrazione americana è principalmente quella di chi teme che anche questo conflitto stia sfuggendo di mano e che, nell’ormai consolidato scenario multipolare del nuovo mondo sconvolto dalle tante crisi globali (a cominciare da quella climatica ed energetica), significhi una retrocessione tanto in termini economici quanto in termini militari e strategici.
Non è escluso, quindi, che l’attrito fra Biden e Netanyahu, palpabile, decisamente sensibile ed eufemisticamente traducibile in una irritazione da parte della Casa Bianca per aver perso, almeno in questo frangente, tutto il suo potere di condizionamento nei confronti dell’alleato israeliano, possa aumentare nel corso dei prossimi giorni. Mentre le fonti del Pentagono parlano di un conflitto risolvibile entro il prossimo gennaio, Tel Aviv smentisce.
La guerra sarà lunga e, non c’è da dubitarne molto, sarà ancora più lunga la fase di ricostruzione e, soprattutto, toccherà capire le intenzioni dello Stato ebraico in merito all’amministrazione di ciò che rimarrà della Striscia di Gaza. Di ciò che rimarrà di Gaza, di Khan Yunis e delle altre città bombardate e rase al suolo.
E poi, dei milioni di palestinesi intrappolati in questo inferno che ne sarà? Washington ha, per ora, assunto un profilo di difesa umanitaria che non contrasti troppo con le prese di posizione di Netanyahu, per evitare che l’alleato mediorientale gli sfugga ancor più di mano. Ma il problema, enorme quanto lo Stato di Palestina che ancora non c’è, esiste e si pone fin da subito.
Proprio uno dei punti di dissenso pressoché totale tra Biden e il governo di guerra israeliano è la rioccupazione dell’intera Striscia di Gaza da parte di Israele. Significherebbe due cose: l’incrementazione del colonialismo ebraico anche in quella zona e, di conseguenza, l’espulsione dei palestinesi da un altro pezzo della terra che gli era rimasta.
E, inoltre, vorrebbe dire convertire la guerra di difesa da Hamas dalla certificazione di una guerra platealmente etichettabile come un atto di puro e semplice imperialismo. Sebbene tutto questo sia già palesemente riscontrabile attraverso le lenti di chi osserva criticamente i processi di mutazione geopolitici nell’area mediorientale, ufficialmente il cronometro di questa guerra parte il 7 ottobre.
Per Israele conta mantenere la narrazione impostata su quella data, per giustificare qualunque atto di crimine di guerra compiuto fino ad oggi: decine di migliaia di civili morti, città completamente devastate, riduzione della popolazione palestinese in uno stato di sopravvivenza senza confronti con altre guerre sparse per il pianeta.
Insomma, la debolezza strutturale degli Stati Uniti d’America, potenza tra le potenze e non più solitario dominatore del mondo post-1989, si mostra e si dimostra soprattutto nel confronto che gli tocca avere con uno scenario internazionale in cui lo Zio Sam viene ascoltato fino a quando non compaiono sulla scena gli altri concorrenti a giganteggiare, a mostrare i loro interessi.
Un interessante articolo apparso sul “The Economist“, pubblicato in Italia da “Internazionale”, si domandava appena un mese fa se gli Stati Uniti d’America fosse davvero ancora determinanti ed indispensabili alla politica estera di altri importanti paesi fino ad allora considerati soltanto alla stregua di comprimari della potente Repubblica stellata.
E’ un interrogativo che rimane e che è bene porsi, perché solo da un approccio critico verso un dogmatismo che ha teso eliminare qualunque possibilità di interpretazione dell’onnipotenza statunitense, può venire fuori una rinnovata capacità di analisi della fase attuale, dei mutamenti in corso. Nulla può più essere dato per scontato.
Nemmeno l’imperialismo americano.
MARCO SFERINI