Una settimana fa all’incirca, il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj annullava il suo discorso al Congresso degli Stati Uniti. I dissidi interni al parlamento della Repubblica stellata, con la parte repubblicana in fermento per i conti interni, per la prospettiva estera di un allungamento sine die dei conflitti in corso, e con l’altra parte, quella democratica, non meno in fibrillazione per le contraddizioni evidentissime sorgenti nei diversi campi di impiego tanto delle forze economiche quanto di quelle militari, avevano indotto l’amministrazione Biden a considerare quasi terminato il sovvenzionamento bellico al governo di Kiev.

Già da tempo il Pentagono aveva manifestato una serie di perplessità, se così possiamo eufemisticamente definirle, nel considerare lo stallo della guerra in Ucraina come un pantano da cui difficilmente poter venire fuori con nuovi armamenti da consegnare a Zelens’kyj, come i caccia F-16 che, a detta di alcuni strateghi, potrebbero risolvere le sorti del conflitto. Lo scetticismo degli alti comandi militari americani non era frutto di un capriccio da ascrivere al complottismo di chissà quale natura e origine.

Molto più banalmente, arsenali vuoti ad occidente e piena produzione di armi in Russia, senza che i sei e più pacchetti di sanzioni euro-atlantiche avessero sortito il loro diretto intento di indebolirla e fiaccarla, costringendola quasi alla resa, erano un binomio da prendere in debita considerazione per valutare la profondità temporale della guerra.

Fallita la controffensiva ucraina proclamata a pieni polmoni sempre dal televisivamente onnipresente verbo zelens’kyiano alla ricerca soltanto di armi, e mai di uno spiraglio per un cessate il fuoco, per una prospettiva di negoziazione di una futura pace, la fase del secondo autunno di guerra non prometteva niente di buono.

Ed infatti, il fronte è praticamente immobile, mentre i russi bombardano le principali città del paese, mentre la stessa capitale Kiev è stata, non molti giorni fa, sotto un tiro incrociato di missili come mai accaduto prima. A ciò si aggiungono le prime incrinature nel fronte interno tra governo politico della guerra e gestione militare della stessa, con alcune parti dell’alto comando che iniziano a scricchiolare sotto il peso dell’efficienza di truppe che rischiano persino di non essere più pagate, se il conflitto dovesse continuare ancora a lungo.

Se si osserva oggi la storia della guerra russa in Ucraina, si può molto cristallinamente notare come sia mutata proprio la strategia da ambo i fronti. Mentre all’inizio del conflitto la velocità dominava la scena, e l’invasione procedeva a tappe spedite tanto ad nord quanto a nord-est e a sud, tanto da arrivare a lambire con una lunghissima fila di carri armati i sobborghi di Kiev, dopo le controffensive che hanno sventato l’occupazione della capitale e l’accerchiamento da nord a sud del paese, Putin e i suoi generali hanno mirato a consolidare la conquista di parte dei quattro oblast meridionali uniti alla Crimea precedentemente annessa alla federazione russa.

Nel primo mese di guerra fu ben presto chiaro che la cosiddetta “operazione speciale” putiniana non avrebbe ottenuto il suo primordiale scopo: occupare l’Ucraina e installarvi un governo fantoccio di Mosca. Ma se qualcuno aveva letto nella ritirata russa da nord una premessa per una resa totale, si era sbagliato, visto che rimanevano ancora le regioni meridionali a fare da cuscinetto alle conquiste sul Mar Nero, geopoliticamente e militarmente strategico nell’ampliamento dei commerci e delle comunicazioni verso il Mediterraneo e l’intera Europa del sud.

L’azione ucraina, supportata dalla NATO, quindi da (quasi) tutti i governi europei, dagli Stati Uniti e da altri alleati del blocco occidentale, aveva mirato ad impedire che cadessero in mano nemica ovviamente la capitale e centri strategici come Chernihiv, Kharkiv e Sumy. Oggi, visti gli sviluppi del conflitto, si può affermare che quelle operazioni furono gli unici successi degni di nota che, oggettivamente, si frapposero alla conquista molto veloce di ampie porzioni di territorio da parte dell’armata di Putin.

Da allora, senza trascurare qualche limitato successo nei dintorni della regione di Zaporižžja (dove rimane l’inquietante presenza della centrale nucleare proprio a ridosso della linea del fronte), le due parti si sono scrutate e hanno stabilizzato un confine di guerra che non si sposta sul terreno e sulle carte se non di poche decine di chilometri quadrati in una elasticizzazione delle posizioni che, stilandone la media, rimangono pressoché inalterate.

Le ragioni di questo stallo iniziano ad essere tante. Da un lato l’innegabile difficoltà della Russia di tenere al contempo stabile la politica interna (dopo la rivolta di Evgenij Viktorovič Prigožin e la sua fine) così come il tenore economico-sociale della stragrande maggioranza della popolazione.

Dall’altro lato, l’ingente flusso di denaro che gli Stati occidentali hanno investito nel riarmo ucraino inizia a pesare sulle casse nazionali, costringendo a modifiche di non poco conto dei rispettivi bilanci, a decurtazioni di servizi e di garanzie che rischiano, a loro volta, di innescare un pericoloso effetto domino nello scivolamento verso un neopauperismo che renderebbe esigui i consensi per le maggioranze di governo, alto il pericolo di sommosse, disequilibrando quella già piuttosto effimera stabilità finanziaria tutelata dai grandi organismi internazionali (FMI, Banca Mondiale e singoli istituti bancari come la Federal Reserve e la BCE).

Se non si può proprio parlare di “svolta” nel continuo prodursi del conflitto, ormai sul campo nella parte esclusivamente sud-est dell’Ucraina, quel che è certo è che la battaglia di Vuhledar (metà febbraio di quest’anno) dimostrò come la forza russa non fosse assolutamente in ripiegamento, decisa a tenere le posizioni e, anzi, a proseguire nella conquista degli oblast già ampiamente occupati. Quella appena citata è, sempre a detta di più di uno storico militare e di esperti di strategia, la prima grande battaglia tra carri armati dalla fine della Seconda guerra mondiale. E non è stata vinta dall’Occidente. Ma nemmeno dai russi.

Chi attacca non vince, chi si difende non riesce a fare un passo in avanti per innescare un virtuoso meccanicismo successivamente offensivo. Fonti dell’ONU ci dicono che, attualmente, il rapporto tra i soldati morti è di un ucraino a fronte di cinque russi. Le perdite sono davvero imponenti.

La sopravvivenza delle popolazioni che si trovano entro il perimetro della guerra è un dramma che viene sottaciuto nel nome della necessità della continuazione del conflitto. Da entrambe le parti. Le rispettive propagande mentono, come è logico che debbano fare, quando affermano di avere a portata di mano la chiave di volta che darà una accelerazione allo spegnersi delle ostilità.

Una settimana fa circa, si diceva, Volodymyr Zelens’kyj si negava al Congresso americano. Oggi è pronto a parlare, dopo essere stato, con un vero parterre di eccezione della peggiore destra mondiale (Orbàn, Bolsonaro tra gli altri…) all’insediamento del fascioliberista neopresidente argentino Milei; ed è pronto a dichiarare all’America che Putin deve perdere la guerra, perché l’Ucraina sarebbe rimasta l’unica zona di frontiera a tenere rispetto alla prepotente avanzata russa verso Ovest. E dell’avanzata della NATO ne vogliamo parlare?

La questione della decennale guerra nel Donbass ha avviato i motori di un conflitto ben più vasto, ma è innegabile che l’espansionismo nordatlantico ad Est è stato uno dei motivi per cui il regime di Putin si è sentito minacciato e ha reagito con prepotenza, in spregio a qualunque diritto internazionale. Ma non meno colpevole è l’arroganza imperialista del nostro mondo occidentale che, muovendosi dentro il proprio schema di adesione al diritto universale dei popoli, alla preservazione dei princìpi democratici, ed in aperta ostilità alle oligarchie, finge di essere quello che in realtà non è: la parte giusta, la parte da cui schierarsi per preservare i valori e i diritti umani.

Chi è senza peccato, scagli la prima pietra. Non c’è nessuno Stato al mondo che non abbia qualche ignobile interesse nelle guerre che pullulano sul pianeta. Persino il Vaticano ha dovuto fare i conti recentemente con la contraddizione del finanziamento di industrie di armamenti. Papa Francesco è intervenuto nel 2020 per mettere fine a qualunque forma anche indiretta di sostegno ad istituti di credito che facciano affari con il commercio delle armi.

La campagna contro le “banche armate“, promossa tra gli altri da NigriziaMissione OggiPax Christi e Mosaico di pace, aveva permesso di fare la classifica dei tanti istituti che reinvestivano i soldi in questi affari moralmente deplorevoli, aprendo così un dibattito molto interessante all’interno della Chiesa e suscitando una reazione positiva in questo senso fin dalle più alte sfere della Santa Sede. Nel confronto-scontro fra i due poli imperialisti che si fronteggiano sul terreno ucraino, una delle poche voci potenti che si è sentita in favore della pace è stata proprio quella di Francesco.

Il resto del mondo laico e politicamente tale, ha prodotto ben poco nella direzione della mediazione. La grande assente in questo frangente è l’Unione Europea, incapace di avere una chiara politica estera indipendente da una potenza economica americana e da una militare NATO, entrambe presenti nelle viscere del Vecchio Continente: dai conti correnti alle basi dell’Alleanza.

La guerra moderna, che tutti abbiamo sempre un po’ semplicisticamente identificato come qualcosa di davvero veloce da risolvere con armamenti sofisticatissimi, ha finito qui per assumere la connotazione della vecchia, statica trincea novecentesca. Si combatte anche con i droni, ma soprattutto con i proiettili. I cieli sono dominati dall’aviazione russa, i carri armati scarseggiano, le truppe stanziano quasi immobili su un terreno che l’inverno impoverirà ulteriormente e renderà inagibile per grandi manovre offensive.

Era facile leggere, non molto tempo fa, una dichiarazione del Segretario alla difesa americano, Lloyd Austin, secondo cui agli ucraini per vincere la guerra servirebbero circa venti milioni di proiettili per obici, mortai e lanciarazzi. Un quantitativo che non esiste nell’intero globo terracqueo. Se così stanno davvero le cose, la guerra diviene difficilmente risolvibile da sé stessa. Si dovrà trovare un compromesso tra le parti, che permetta di affermare che tutti vincono, nessuno perde. Ufficialmente dovrà essere così. Poi la Storia scriverà le sue pagine critiche in merito.

L’unica possibilità per la pace è, ormai, di prendere per sfinimento governi, soldati, popoli e, soprattutto (anche se sembra cinico affermarlo) le rispettive economie. L’indebolimento di queste, del resto, ci riporta a quella considerazione fatta da Karl Liebchnekt nella relazione tra guerra e capitalismo: si tratta di affari portati avanti con mezzi differenti rispetto alla politica che arriva là dove può arrivare con le mediazioni tra interessi enormi e diversi che si contrastano, che si combattono non meno ferocemente sulla pelle dei moderni proletari.

Per scongiurare le guerre non serve indebolire le economie propriamente dette. Serve lottare contro il capitalismo, portarlo all’inedia, all’esanguità. Senza una lotta anticapitalista, qualunque lotta pacifista rischia di essere fine a sé stessa, racchiusa in un precetto morale che, se non stiamo attenti, può addirittura ritorcersi contro chi lo propone. E magari del tutto in buona, ottima fede.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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