Michele Paris
Due voti dall’esito opposto sul controllo dei flussi migratori nei parlamenti di Francia e Gran Bretagna hanno messo in risalto questa settimana l’estrema fragilità dei governi di questi due paesi. Il presidente francese, Emmanuel Macron, e il primo ministro britannico, Rishi Sunak, si ritrovano a gestire crisi politiche sempre più complicate, prodotte dal fallimento delle rispettive politiche economiche e sociali, nonché, più in generale, dal crescente deficit di legittimità del tradizionale sistema “democratico” occidentale.
Macron: la fine del regno?
Le conseguenze più pesanti a livello immediato rischia di pagarle l’inquilino dell’Eliseo. All’Assemblea Nazionale era approdata lunedì una riforma dell’immigrazione preparata dopo mesi di trattative e numerose correzioni da Macron e il suo governo, sotto la supervisione del ministro dell’Interno, Gérald Darmanin. Una versione più rigorosa della legge era uscita dalla discussione al Senato francese, che l’aveva approvata per poi inviarla alla Camera bassa del parlamento di Parigi.
Qui, Macron contava di ottenere almeno i voti dei gollisti (“Les Républicains”), se non dell’ex Fronte Nazionale di Marine Le Pen (ora “Rassemblement National”), visto che il pacchetto di legge affrontava una delle questioni da tempo al centro della propaganda della destra francese e non solo. Per tenere compatto il proprio partito (“Renaissance”) e attenuare l’opposizione del centro-sinistra in parlamento, il presidente e il governo della premier, Élizabeth Borne, avevano inserito, in una riforma in larga misura reazionaria, anche alcuni provvedimenti tesi ad aprire qualche spiraglio per la regolarizzazione degli immigrati “clandestini”.
Alla fine, però, l’occasione di assestare un colpo politico letale all’Eliseo ha avuto la meglio, mentre il giudizio contrario sulle concessioni fatte all’opposizione di destra e di sinistra ha scontentato entrambi gli schieramenti. La legge sull’immigrazione è stata così bocciata nella fase preliminare con un margine di 270 voti a 265. È la prima volta da 25 anni che una proposta di legge presentata dal governo in carica viene respinta prima ancora di essere dibattuta in Parlamento.
Questo dato dà l’idea della gravità della sconfitta di Macron. Le reazioni del presidente e del governo sono state decisamente sopra le righe, a testimonianza della sorpresa causata all’Eliseo dal voto di lunedì. Alla luce delle traversie della riforma e della delicatezza del voto per un presidente e un governo già in seria difficoltà, è probabile che la legge sia stata portata in aula solo dopo che a Macron era stato garantito un certo livello di fiducia per un esito positivo.
La batosta minaccia di indebolire ancora di più Macron e l’esecutivo, già partiti con l’handicap della mancata maggioranza assoluta in Parlamento dopo le elezioni della primavera 2022. Il presidente e il suo partito avevano optato per la tattica ribattezzata in Francia con la formula “allo stesso tempo”, cioè con la rinuncia a un accordo di governo con un’altra formazione politica, optando invece per la ricerca di una maggioranza provvisoria ad ogni voto in Parlamento, incorporando nelle leggi di volta in volta le istanze della destra o della sinistra.
Su un tema caldissimo come quello dell’immigrazione, il gioco di Macron non ha però funzionato, soprattutto perché gollisti e neo-fascisti non hanno accettato un compromesso col governo che li avrebbe costretti in pratica a rinunciare all’arma politica della xenofobia. Così, l’inserimento nella proposta di legge di norme come l’abbassamento dell’età che consente l’espulsione degli stranieri dalla Francia, la limitazione dei ricongiungimenti famigliari e la fissazione di fatto di quote agli ingressi nel paese non ha convinto le destre e, allo stesso tempo, ha reso impossibile il voto a favore di sinistra e centro-sinistra.
Per provare a evitare una completa umiliazione, Macron e il governo hanno annunciato la creazione di una commissione congiunta, formata da sette senatori e sette deputati dell’Assemblea Nazionale, con l’incarico di trovare un compromesso su un testo condiviso che possa essere approvato in via definitiva. Le dichiarazioni di queste ore da parte degli ambienti di governo sulla necessità di applicare un giro di vite all’immigrazione lasciano intendere che le modifiche in vista porteranno a una proposta ancora più restrittiva dei flussi e delle condizioni riservate agli stranieri in Francia.
In un quadro più ampio, questa prospettiva suggerisce l’ipotesi che Macron potrebbe optare per un accordo più o meno esplicito con i gollisti per le principali future iniziative di legge, così da stabilizzare il governo negli anni che restano del suo ultimo mandato alla guida della Francia. Se così fosse, la sua presidenza prenderebbe un’altra svolta verso destra, chiudendo un’esperienza politica in chiave opposta rispetto ai proclami improntati al centrismo e al pragmatismo che avevano caratterizzato e in parte continuano a caratterizzare la retorica macroniana.
L’alternativa potrebbe essere il nuovo ricorso al famigerato articolo 49.3 della Costituzione francese, che consente di approvare una determinata legge senza il voto del Parlamento. Macron ha già utilizzato questo dispositivo anti-democratico decine di volte per superare l’opposizione alle politiche del governo. Il caso più clamoroso è stato quello di nove mesi fa sulla “riforma” delle pensioni, accolta da ripetute manifestazioni di protesta popolare. La fermezza del presidente in quell’occasione aveva causato un gravissimo scontro sociale fino quasi a far cadere il suo governo. L’eventuale ripetizione di quello scenario metterebbe perciò ora a rischio un Macron ancora più debole, avvicinando elezioni anticipate il cui probabile esito ridimensionerebbe ulteriormente gli spazi di manovra dell’Eliseo.
Sunak e la rivolta della destra
Le vicende parlamentari di questa settimana hanno avuto invece un esito diverso per il premier inglese Sunak, anche se il successo nel voto di martedì, su un disegno di legge che ha anche in questo caso a che fare con il controllo dell’immigrazione, potrebbe essere di breve durata. La maggioranza conservatrice ha approvato in seconda e non definitiva lettura una legge relativa alle deportazioni degli immigrati irregolari in Ruanda.
Il provvedimento è stato scritto in risposta a una sentenza dello scorso mese di novembre della Corte Suprema britannica, che aveva dichiarato illegale, in base al diritto domestico e internazionale, una direttiva adottata dal governo per trasferire forzatamente dal Regno Unito al paese africano determinate categorie di immigrati richiedenti asilo. Per superare le obiezioni contenute nel verdetto, il governo punta in sostanza a cancellare gli obblighi di Londra verso la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (ECHR) e le ingiunzioni della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (ECtHR).
Le aspettative di Downing Street erano molto più cupe rispetto al risultato del voto alla Camera dei Comuni. Da alcune parti ci si attendeva un centinaio di astensioni da parte dei deputati “Tories”, mentre sono state alla fine solo 38. Per respingere la legge sarebbero bastati 29 voti contrari dei conservatori, ma il superamento dell’ostacolo legislativo è avvenuto con un margine di 44.
Il risultato non risolve in ogni caso i problemi interni al partito del premier Sunak. I vari gruppi parlamentari che compongono la destra del Partito Conservatore hanno infatti chiarito che il voto di questa settimana rappresenta solo una tregua momentanea. Se la legge sulle deportazioni in Ruanda non verrà “rafforzata”, quando il provvedimento tornerà in discussione in aula a gennaio per la terza lettura potrebbe verificarsi un vero e proprio ammutinamento contro la leadership del primo ministro.
Alcuni tra la destra del partito chiedono ad esempio l’uscita tout court del Regno Unito dalla Convenzione e dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo. La preoccupazione per molti è che a disposizione degli immigrati irregolari per cui è stata decretata la deportazione restino vie legali che rischiano di intasare il sistema. Il deferimento dei casi relativi all’immigrazione a tribunali e trattati internazionali è visto inoltre come una ingerenza inaccettabile per i fautori della “Brexit”.
Sunak, come Macron in Francia, deve mediare tra le diverse posizioni politiche e ideologiche. Svariati membri del governo e l’ala più moderata dei “Tories” vedono al contrario con preoccupazione l’aggiunta di norme più stringenti alla legge in discussione. L’eventuale sganciamento dalla Convenzione e dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo aggraverebbe infatti l’isolamento internazionale della Gran Bretagna, allentando in primo luogo ancora di più i legami con l’Unione Europea.
È evidente che la destra conservatrice abbia preferito per ora non precipitare la crisi interna e destabilizzare il governo Sunak, col rischio di provocare uno scioglimento anticipato del Parlamento. Tutti i sondaggi indicano d’altra parte un netto vantaggio dei laburisti se elezioni dovessero tenersi a breve. Il crollo dei consensi del governo e della maggioranza continua tuttavia a preoccupare la fazione ultra-reazionaria dei “Tories” e ad alimentare lo scontro politico interno. In molti credono perciò che, se non dovessero essere accolte le loro richieste, ad esempio sul tema dell’immigrazione, si potrebbe aprire uno scenario di confronto aperto con Downing Street.
Si parla insistentemente di una nuova mozione contro Sunak per portare alla guida del partito e del governo un esponente della destra. Prima indiziata è l’ex ministro dell’Interno, Suella Braverman, astenutasi nel voto di martedì in aula e rimossa dal suo incarico a novembre. In quell’occasione, la Braverman aveva allestito un’uscita di scena al limite del melodrammatico, auto-dipingendosi come una sorta di martire e accusando il primo ministro di tradimento per non essere stato in grado di fermare l’invasione dei clandestini in Gran Bretagna.
A riprova del caos e della profondissima crisi che attraversa la classe dirigente d’oltremanica, sono circolate nei giorni scorsi voci che ipotizzano addirittura una candidatura a leader conservatore e, di conseguenza, a primo ministro di Boris Johnson. Le probabilità sono decisamente minime, ma la sola ipotesi spiega a sufficienza il grado di disfacimento raggiunto dalla “democrazia” britannica, il cui governo è, non a caso, tra i più accesi sostenitori del genocidio palestinese e sta nel contempo conducendo una feroce caccia alle streghe per reprimere qualsiasi forma di opposizione alla violenza sionista in Medio Oriente.
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