Prima la visita di solidarietà alla nuova presidente della Commissione Antimafia attaccata dai parenti delle vittime per essersi fatta fotografare con le mani intrecciate a quelle di un ex terrorista, poi le dichiarazioni al vetriolo contro i suoi «nemici» che deve «veder morire tutti», poi ancora il tour televisivo per pubblicizzare l’uscita del libro con le sue “verità” sugli anni delle stragi. E, in ultimo, le parole in sua difesa di un sostituto procuratore generale che, chiamato sul palco di una sua conferenza, afferma che «il problema del malfunzionamento della giustizia» è che «ci sono alcuni magistrati a piede libero», facendo evidentemente riferimento ai pm che lo hanno inquisito. È questa la nuova vita dell’ex vicecapo del Ros e già numero uno dei servizi segreti Mario Mori, che dopo l’assoluzione al processo “Trattativa Stato-mafia”, calpesta fieramente tutti i tappeti rossi stesi al suo cospetto da politica e informazione mainstream per la beatificazione finale. E che trova sponde speciali, almeno sulle ricostruzioni degli anni caldi delle stragi, in Fabio Trizzino, avvocato dei figli di Paolo Borsellino – cui si contrappone ardentemente Fabio Repici, legale del fratello del giudice ucciso in via d’Amelio, Salvatore – e nella maggioranza di una Commissione antimafia che sembra aver scelto la strada più comoda nell’approccio a quella fase storica: allontanare le “ombre nere” e istituzionali dallo scenario delle stragi e abbracciare le tesi dei Ros, che, nonostante siano stati assolti sul piano penale, proprio sulla base del contenuto di tali sentenze non possono affatto esserlo sul piano storico e morale.
“Devo vederli morire tutti”
«Io mi devo curare, e curare bene, perché devo vedere morire questa gente». Era il dicembre 2017 quando Mario Mori, in una conferenza a Roma, proferì per la prima volta queste parole mentre parlava delle sue vicende giudiziarie. All’epoca, era imputato per “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato”, con l’accusa di aver sfruttato la mediazione dell’ex sindaco mafioso corleonese Vito Ciancimino al fine di aprire un dialogo con la mafia e aver veicolato la sua minaccia stragista contro le istituzioni. Questa frase suonò subito molto inquietante. Esattamente un anno dopo, da condannato in primo grado a 12 anni al processo, Mori si trovava a parlare di legalità (la condanna costituiva evidentemente titolo di merito) agli studenti della terza media di Serino, in provincia di Avellino. E proprio da quel luogo, parlando ai microfoni del giornalisti, disse ancora: «Io mi curo per vivere a lungo, perché devo veder morire qualcheduno dei miei nemici». In entrambi i casi, il pensiero è ovviamente corso subito ai magistrati protagonisti di quell’inchiesta. In primis a Nino Di Matteo – pm su cui già pendeva la condanna a morte della mafia, che sul processo aveva rilasciato interviste e scritto un libro insieme al giornalista antimafia Saverio Lodato – anche perché, subito prima, Mori aveva detto: «Io accetto il giudizio di una Corte e accetto anche che un pubblico ministero svolga pienamente il suo lavoro, anche se è contro di me. Quello che non accetto da un Pm è che dopo il giudizio continui a parlare di questo argomento, perché allora il Pm non è qualcosa di impersonale, ma diventa qualche cosa di personale e questo a me non mi sta bene». Nel settembre 2023, dopo l’assoluzione definitiva al processo, altro carico da novanta: «Mi sto curando, faccio ogni giorno 4-5 chilometri a piedi, cerco di non ingrassare perché li devo vedere morire tutti […] Lo dico con odio». Niente male per un ex capo dei servizi segreti e massimo rappresentante delle istituzioni, che per queste frasi non ha subito alcun tipo di ripercussione, ma solo la ola di quei pezzi di potere ostili ai pochi magistrati indipendenti che ancora osano lavorare su inchieste coraggiose.
La contro-narrazione
Subito dopo l’assoluzione definitiva al processo “Trattativa”, Mori è comparso più volte in televisione per pubblicizzare l’uscita della sua nuova opera, scritta con il suo ex braccio destro al Ros, Giuseppe De Donno, anch’egli imputato al processo “Trattativa” e definitivamente assolto. Il titolo del libro, La verità sul dossier mafia e appalti, sottende il suo obiettivo primario: far passare il messaggio (che adesso le televisioni che lo ospitano ripropongono spesso come una verità definitiva) che sia stato l’interesse di Paolo Borsellino per il rapporto “mafia-appalti” – l’informativa depositata dal Ros nel febbraio 1991 che si proponeva di fare luce sulle connessioni tra Cosa nostra e le forze politico-imprenditoriali, oggetto di incredibili fughe di notizie e di uno scontro aspro tra Ros e Procura di Palermo – a provocare l’accelerazione della strage di via D’Amelio. Negli ultimi mesi, Mori ha ripetuto questa storia nella cornice di molti programmi Rai, Mediaset e La7, tra cui Quarta Repubblica, da Nicola Porro, Omnibus, da Gaia Tortora, Porta a Porta, da Bruno Vespa, e Mattino Cinque, da Francesco Vecchi.
La stessa pista è stata promossa in Commissione Antimafia dall’avvocato dei figli di Borsellino, Fabio Trizzino e, non è un mistero, dalla stessa presidente della Commissione, Chiara Colosimo. Proprio con Mario Mori e una delegazione del partito Radicale i due si incontrarono lo scorso maggio dopo che, attraverso una missiva, alcuni parenti delle vittime di mafia e terrorismo – tra cui Salvatore Borsellino, Angela Manca, Stefano Mormile, Nunzia Agostino, Paolo Bolognesi e Federico Sinicato – avevano contestato l’elezione di Chiara Colosimo alla presidenza dell’organismo, poiché la trasmissione Report aveva portato all’attenzione dell’opinione pubblica una foto in cui la stessa sorrideva accanto a Luigi Ciavardini, ex Nar condannato per la strage di Bologna. Sia Colosimo che Trizzino, guarda un po’ le coincidenze, sono da sempre attivi nel dire che la “Trattativa Stato-mafia” di cui Mori fu protagonista non è mai stata accertata. Peccato che ciò sia smentito da numerose sentenze definitive, che non solo la trattativa l’hanno storicamente confermata, ma l’hanno addirittura inquadrata come fattore scatenante del convincimento dei mafiosi “che la strategia stragista pagasse”. Tanto è vero che, dopo l’apertura della “Trattativa”, che temporalmente coincise con la stagione delle bombe del ’92, Cosa Nostra nel 1993 consumò attentati a Roma, Milano e Firenze, provocando 10 morti civili (tra cui due piccole bambine) e decine di feriti. Nonostante questo, dopo le sentenze assolutorie di appello e Cassazione per i reati di cui gli uomini del Ros erano accusati al processo, la quasi totalità dei giornali italiani ha ripetuto la squallida menzogna della “inesistenza” della trattativa Stato-mafia, di cui peraltro i primi a parlare furono proprio Mori e De Donno, sentiti in Aula come testimoni alla fine degli anni Novanta.
Eppure, a smentire la ricostruzione di Mori e Trizzino ci ha pensato, audito in Commissione Antimafia, Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino (fratello di Paolo e fondatore del Movimento delle Agende Rosse), che ha messo l’accento sul fatto che, «nelle varie occasioni in cui si sono ritrovati imputati, chiamati a rendere esame davanti ai giudici», i Ros Mori e De Donno «si sono sempre avvalsi della facoltà di non rispondere», dunque, «se davvero quei due ufficiali il 20 luglio 1992 pensarono che la strage appena avvenuta in via d’Amelio fosse stata causata dall’interessamento di Paolo Borsellino alle loro attività di indagine, noi siamo davanti a una omissione in atti d’ufficio perpetuata dal 1992 almeno fino al 1997-1998». Cioè quando i Ros tirarono fuori la questione per la prima volta. Lo stesso Repici ha aggiunto un altro tassello, sostenendo che Mori e De Donno avrebbero puntato su tale strategia per «legittimi interessi difensivi propri». A renderlo evidente sarebbe la lettura cronologica dei fatti. Il 13 ottobre 1997 Mori e De Donno furono convocati come testimoni dalla Procura di Palermo: lì De Donno, spiega Repici, «venne sentito a sommarie informazioni» dai magistrati che «a brutto muso» gli contestarono «le circostanze a loro riferite dal collaboratore di giustizia Angelo Siino», esponente di Cosa Nostra che gestiva il sistema illegale degli appalti in Sicilia, che dopo aver deciso di pentirsi aveva «cominciato a parlare dei suoi rapporti con esponenti del Ros». Solo una settimana dopo, il 20 ottobre 1997, «il colonnello De Donno scrive una nota al Procuratore di Caltanissetta Tinebra – dice ancora il legale –, al quale segnala che ha circostanze da mettere a conoscenza della Procura per competenza motivata in relazione a condotte asseritamente illecite di magistrati della Procura di Palermo». Per Repici, insomma, «mente chi ha il coraggio di dire che non c’è una diretta correlazione tra la convocazione di De Donno alla Procura di Palermo e la sua segnalazione alla Procura di Caltanissetta».
Le parole di Tarfusser
Ovviamente, a differenza di quanto avvenuto con Mori e Trizzino, della ricostruzione di Fabio Repici nessun tg o programma di approfondimento ha mai fatto menzione. Nel mentre, Mori continua a girare l’Italia pubblicizzando il suo libro e anche quello del suo legale, Basilio Milio, appena uscito con Ho difeso la Repubblica. Come il processo trattativa non ha cambiato la storia d’Italia. Proprio in occasione di una di queste presentazioni, avvenuta al Palazzo delle Stelline di Milano martedì 12 dicembre, ad un tratto è stato invitato sul palco Cuno Tarfusser, sostituto procuratore generale di Milano. «Mi sento abbastanza inopportuno in questo momento, dopo che avete parlato di storie di mafia di cui non so nulla. Io la Sicilia la conosco solo per esserci andato in ferie quindi non so nulla dei processi», ha ammesso una volta preso il suo posto di fianco a Mori. Subito dopo, tessendo le lodi del generale, con cui ha spiegato di avere rapporti «sin dal 1992», Tarfusser ha detto: «Io non ho bisogno di conoscere gli atti dei processi, il generale lo sa benissimo. Io sin dal primo momento ho detto che il problema del malfunzionamento della giustizia è il fatto che ci sono alcuni magistrati a piede libero». L’ovvio riferimento, seppur non esplicitato, è ancora ai pm protagonisti delle inchieste e dei processi in cui Mori è finito alla sbarra. E ora ci si chiede a che titolo e con quali giustificazioni, peraltro su ammessa ignoranza delle carte processuali, un magistrato – peraltro dall’alto del suo grado gerarchico – possa avanzare attacchi e illazioni di questo tipo nei confronti di colleghi che hanno avuto l’unico torto di fare il loro lavoro. Anche in questo caso, nessuno ha alzato un dito. Tutto è caduto sotto silenzio.
Verità definitive
Mori, insieme alla vasta platea dei suoi ammiratori, si fa (legittimamente) forte delle sentenze che, a più riprese e nell’ambito di inchieste delicatissime, lo hanno assolto. Politici e giornalisti sedicenti “garantisti” ripetono ad ogni più sospinto come il generale sia sempre uscito indenne dai processi che lo hanno riguardato: non solo quello sulla “Trattativa”, ma anche quelli per la mancata sorveglianza del covo di Totò Riina e per la mancata cattura di Bernardo Provenzano (il quale venne servito al Ros su un piatto d’argento dal confidente Luigi Ilardo, alias “Grande Oriente”, che col padrino riuscì ad organizzare un summit a Mezzojuso per consentire ai carabinieri di individuare il suo casolare e catturarlo). Nessuno, però, si degna mai di rendere noti al pubblico i contenuti di queste due sentenze, che, sebbene siano assolutorie, forniscono uno spaccato tutt’altro che generoso nei confronti dell’operato di Mori e i suoi uomini.
Per quanto concerne i fatti subito successivi alla cattura di Riina, ritenendo la sussistenza di una “erronea valutazione degli spazi di intervento” da parte degli imputati – Mario Mori e Sergio De Caprio, noto come Capitano Ultimo – e di gravi “responsabilità disciplinari” per il fatto di non aver comunicato alla Procura di Palermo la propria scelta di sospendere la sorveglianza, i giudici hanno infatti sancito che la omessa perquisizione del covo del capo di Cosa Nostra – rispetto a cui i Ros convinsero la Procura, che aveva però ordinato di mantenere la sorveglianza – e l’abbandono del luogo fino a quel momento sorvegliato hanno “comportato il rischio di devianza delle indagini, che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato, stando alle manifestazioni di sollievo e di gioia manifestate da Bernardo Provenzano e da Benedetto Spera”. Nel processo sulla mancata cattura di Provenzano, pur assolvendo i Ros Mario Mori e Mauro Obinu, i giudici hanno scritto nero su bianco che “rimane davvero inspiegabile – né gli imputati lo hanno spiegato in qualche modo – perché tutte le attività di indagine susseguenti all’incontro di Mezzojuso furono compiute in modo tardivo, non coordinato e soprattutto burocratico, mediante l’invio di note a vari reparti, che fino a quel momento erano rimasti estranei alle indagini, assolutamente burocratiche e, soprattutto senza che da parte degli imputati fosse dedicata l’attenzione che la particolare delicatezza del caso senza ombra di dubbio richiedeva”. Infatti, “la scelta investigativa, discutibile ed in definitiva rivelatasi vana e dunque errata, di puntare tutto solo sulla prospettiva di un nuovo incontro dell’Ilardo con il Provenzano, l’approccio sostanzialmente burocratico e sicuramente censurabile sul piano della solerzia investigativa nelle indagini per l’identificazione dei due favoreggiatori del Provenzano indicati dall’Ilardo, ed infine il ritardo con cui il rapporto ‘Grande Oriente’ è stato inoltrato alla competente Procura, risultano indubbiamente essere condotte ‘astrattamente idonee a compromettere il buon esito di un’operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Bernardo Provenzano’”.
Pochi anni dopo tali “imprese”, nel 2001, Mario Mori sarà nominato capo del SISDE dal governo presieduto da Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, deceduto lo scorso giugno mentre era ancora indagato dalla Procura di Firenze tra i mandanti esterni delle stragi del ’93. E il cui braccio destro, Marcello Dell’Utri, mentre era coimputato di Mori al processo “Trattativa”, è stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (pena espiata). Nonostante, come abbiamo potuto constatare, importanti sentenze passate in giudicato abbiano messo in luce l’ambiguo operato di Mori e degli altri Ros, dopo la chiusura del processo “Trattativa” e il cambio al vertice in Commissione antimafia in seguito alle ultime elezioni, non c’è dubbio che il generale abbia mediaticamente e politicamente vinto la sua battaglia. E che, in attesa di «veder morire» tutti i suoi nemici, stia sfruttando ogni palcoscenico funzionale alla sua riabilitazione pubblica. Eppure, al di là delle striminzite formule partorite dai dispositivi delle sentenze, i fatti – per quanto intricati e di complessa lettura – sono scolpiti nella storia.
[di Stefano Baudino]