L’Italia era costretta in un regime dittatoriale ormai da quattro anni, i componenti dei gruppi dirigenti antifascisti erano stati assassinati, messi in galera, costretti all’esilio (in quel momento in Francia si trovavano circa 25.000 rifugiati antifascisti): ciò nonostante 135.773 elettori , da considerare veri e propri “eroi della democrazia”,trovarono il coraggio di rendere palese (visto il sistema di voto) il loro rifiuto non tanto del listone ma del regime, con grande rischio personale.

Si trattò di un gesto di estrema coerenza morale e politica, agito in condizioni di difficoltà estrema.

Un gesto del quale ci si è ormai dimenticati e che, invece, è ancora proprio il caso di esaltare.

L’accurato lavoro di Simona Colarizi che ha assunto forma concreta nel volume “La resistenza lunga: storia dell’antifascismo 1919-1945″(Laterza 2023) è risultato purtroppo carente in un passaggio che, a giudizio dello scrivente, ha rappresentato un momento di grande interesse nella dimostrazione di una ancora diffusa presenza antifascista, in ispecie nella classe operaia delle grandi concentrazioni industriali: il riferimento è all’esito del plebiscito voluto dal regime in occasione delle elezioni per la camera dei deputati del 1929.

E’ il caso di ricordare:

vinte le elezioni del 1924 grazie alla legge maggioritaria “Acerbo” e alle violenze squadriste, assunte le vesti di una vera e propria dittatura dopo il delitto Matteotti, costituito il Tribunale Speciale che aveva già condannato Gramsci e Terracini, il fascismo modificò in senso plebiscitario il sistema elettorale chiamando gli italiani alle urne il 24 marzo 1929.

Il progetto della nuova legge elettorale, preparato da Alfredo Rocco, rimarcò a chiare lettere la negazione, da parte della dottrina fascista, del dogma della “sovranità popolare”, affermando al suo posto quella della “sovranità dello Stato” e dell’identificazione diretta dello Stato in un solo Partito, in conseguenza di sua natura totalitario.

Secondo questo principio i deputati diventarono meri organi dello stato emanazione di un partito e non rappresentanti del corpo elettorale.

Si pose quindi fine a quelli che Mussolini definì in Parlamento come “ludi cartacei” e si ratificò un progetto che pose la scelta dei futuri deputati nelle mani di due organi: la prima selezione a opera delle organizzazioni sindacali intese come scheletro dello stato fascista corporativo e da parte del Gran Consiglio del Fascismo, cui fu demandato il compito di compilare la lista dei 400 nomi da sottoporre al corpo elettorale affinché esso esprimesse il proprio consenso.

 La legge era basata sul suffragio universale maschile, già previsto sin dal  1912. Il diritto di voto per i soli cittadini maschi era però subordinato al rientrare in una delle seguenti categorie:

·         A coloro che pagavano un contributo sindacale o erano soci di una società o ente che pagasse tale contributo, oppure da almeno un anno possedessero azioni nominative di società in accomandita per azioni o di società anonime

·         B coloro che pagavano almeno 100 lire d’imposte dirette allo Stato, alle province o ai comuni

·         C coloro che percepivano uno stipendio, un salario o una pensione a carico dello Stato

·         D membri del clero cattolico o di altro culto ammesso dallo Stato

Nel complesso risultarono iscritti nelle liste elettorali 9.638.859 cittadini rispetto ai 12.069.336 del 1924.

Il 24 marzo 1929 furono così aperti i seggi per l’elezione della nuova Camera dei Deputati.

La partecipazione al voto risultò altissima con l’89,86%, ben superiore a quella del 63,1 del 1924.

In molte parti del Paese i fascisti incolonnarono gli elettori e li scortarono militarmente al seggio facendoli votare collettivamente con la deposizione della scheda del “SI” nelle urne.

Infatti le due schede, del “SI” e del “NO” dovevano essere ritirate preventivamente all’ingresso del seggio consentendo così l’identificazione del voto.

In queste condizioni il “SI” ottenne 8.517.838 voti pari al 98,34% dei voti validi.

Ci furono 8.209 voti nulli pari allo 0,09%.

I “NO” furono 135.773 pari all’1,57%,

L’Italia era costretta in un regime dittatoriale ormai da quattro anni, i componenti dei gruppi dirigenti antifascisti erano stati assassinati, messi in galera, costretti all’esilio (in quel momento in Francia si trovavano circa 25.000 rifugiati antifascisti): ciò nonostante 135.773 elettori , da considerare veri e propri “eroi della democrazia”,trovarono il coraggio di rendere palese (visto il sistema di voto) il loro rifiuto non tanto del listone ma del regime, con grande rischio personale.

Si trattò di un gesto di estrema coerenza morale e politica, agito in condizioni di difficoltà estrema.

Un gesto del quale ci si è ormai dimenticati e che, invece, è ancora proprio il caso di esaltare.

La composizione di quel “NO” dal punto di vista geografico e politico ci svela molte cose sull’origine di quel rifiuto.

Oltre a una consistente opposizione di natura etnica, i tedeschi in Alto Adige e gli sloveni in Istria e in Venezia Giulia, la gran parte dei voti contrari si concentrò nel “triangolo industriale”, tra Lombardia, Piemonte e Liguria.

Le regioni delle grandi fabbriche meccaniche, metallurgiche , elettromeccaniche e chimiche fornirono infatti 69.226 voti al fronte del “NO”, pari al 50.98% del totale.

Oltre il 2% dei voti contrari si ebbero soltanto nelle regioni del Nord, mentre al Centro si superò l’1% soltanto in Toscana e in Umbria.

Al Sud e nelle Isole (dove il fenomeno dell’incolonnamento degli elettori risultò generalizzato) si registrano complessivamente: 5.416 “NO” pari al 4% del totale. In tutta la Basilicata si registrarono 10 voti contrari e in Calabria 74.

Dal punto di vista della consistenza del NO dal punto di vista della collocazione geografica lo schema di riferimento fu comunque quello già osservato con le elezioni del 1924.

In quell’occasione le liste di opposizione alla lista fascista, suddivise in 11 formazioni politiche, ottennero complessivamente il 35,1% dei voti ed egualmente nel triangolo industriale Genova – Milano – Torino il fascismo ebbe il minimo dei consensi.

Di grande interesse, da questo punto di vista, la dislocazione dei voti del Partito Comunista e dei due Partiti Socialisti: il Partito Comunista d’Italia ottenne, infatti, nel 1924 il 3,7% (una flessione minima rispetto al 1921 dove aveva ottenuto il 4,6%) : i due partiti socialisti avevano ottenuto rispettivamente il 5.0 e il 5,9 (nel 1921 il 24,5% cedendo quindi oltre il 13%).

Rispetto al voto del plebiscito del 1929 diventa quindi di grande interesse notare che le sole regioni dove i partiti socialisti avevano superato il 10% e i comunisti il 6% fossero proprio la Lombardia, il Piemonte e la Liguria.

Si può quindi affermare come il “NO” al listone nel 1929 fosse di origine diretta dal voto dei partiti della sinistra, socialisti e comunisti, e dalla loro capacità di mantenere l’organizzazione dell’opposizione nelle grandi fabbriche e così sarebbe stato per tutto il ventennio.

Per concludere ecco il dettaglio del voto per il “NO” regione per regione in cifra assoluta e in percentuale:

Piemonte 20.881 2,58%

Liguria 11.217 3,82%

Lombardia 37.128 3,06%

Trentino Alto Adige 7.902 6,55%

Veneto 20.587 2,58%

Friuli Venezia Giulia (con Zara) 4.080 2,14%

Emilia Romagna 14.843 2,01%

Toscana 7.251 1,04%

Marche 1.665 0,67%

Umbria 1.783 1,23%

Lazio 3.020 0,72%

Abruzzo e Molise 616 0,19%

Campania 2.417 0,34%

Puglie 165 0,04%

Basilicata 10 0,01%

Calabria 74 0,02

Sicilia 861 0,10%

Sardegna 1.273 0,71%

Di Franco Astengo

Lunga militanza politico-giornalistica ha collaborato con il Manifesto, l'Unità, il Secolo XIX,. Ha lavorato per molti anni al Comune di Savona occupandosi di statistiche elettorali e successivamente ha collaborato con la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Genova tenendo lezioni nei corsi di "Partiti politici e gruppi di Pressione", "Sistema politico italiano", "Potere locale", "Politiche pubbliche dell'Unione Europea".

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