Uno dei grandi successi del neoliberismo è avere convinto anche chi vorrebbe e potrebbe resistergli a rifiutare la politica.
Il neoliberismo rifiuta la politica
Di Francesco Erspamer*
Cosa è la politica? A mio parere rappresenta la capacità di creare alleanze per perseguire il bene comune.
Se un potere ha sufficiente forza per imporsi, non ha bisogno di politica; e in assenza dei concetti di comunità e di bene (qualunque sia il significato che gli attribuiamo) ci si può imporre solo con la forza.
Per questo la politica è un’arma essenziale, e probabilmente l’unica, per contrastare il neoliberismo e provare a uscire dalla sua dittatura globale. Ma la politica richiede in chi la voglia praticare due qualità.
La prima è essere in grado di riconoscere come proprio fine il bene comune e di definire l’idea stessa di comunità. Non crediate che sia ovvio o semplice, né che basti inventarsi una definizione qualsiasi.
I neoliberisti, per esempio, non ne parlano mai per non venire vincolati dalla loro stessa retorica: preferiscono (e purtroppo gli basta) sostenere che le cose accadono e si fanno perché necessarie o inevitabili e che l’unica legittima o efficace forza sociale sia la «mano invisibile» del Mercato e della democrazia intesa come interazione di innumerevoli individui interessati solo a sé stessi (e dunque facili prede dei media e docili consumatori).
La seconda, importantissima qualità per fare politica è essere capaci di distinguere i nemici dai potenziali alleati, cioè i gruppi che condividano alcuni nostri valori e obiettivi ma non tutti. Ciò è particolarmente importante quando il nemico sia molto più potente di noi.
Politica è insomma l’arte di fare concessioni, compromessi, accomodamenti, dilazioni e anche rinunce; non tanto a scopi tattici o strategici, ossia per vincere una battaglia o la guerra: la disposizione a riconoscere degli alleati in chi non la pensi esattamente come noi (ma non in chi la pensi troppo diversamente) addestra all’analisi e al giudizio invece che al pregiudizio, positivo o negativo che sia.
È una pratica di umiltà che nasce dalla consapevolezza che non si può avere tutto e sùbito e da soli, e che chi lo voglia è un solipsista e un fanatico.
La catastrofe della sinistra deriva da questo solipsismo apolitico. Quando chi sia di sesso maschile, per il solo fatto di esserlo, viene razzisticamente etichettato come membro del «patriarcato» e in quanto tale condannato; quando viene condannato ed etichettato come fascista chi vorrebbe poter discutere il nichilismo presente nel desiderio di migrazioni incontrollate o di intelligenza artificiale o di frettolose cancellazioni di istituzioni di lunga durata quale la famiglia, la religione, lo Stato, le tradizioni: ecco che si viene a creare un’insanabile frattura. I potenziali alleati divengono nemici, a tutto vantaggio del neocapitalismo.
Purtroppo sto cominciando a pensare che sia intenzionale: «dividi et impera» dicevano i romani; la correttezza politica dei «liberal» è negazione della politica e serve a impedire la formazione di un blocco che avrebbe qualche possibilità di opporsi all’imperialismo neoliberista.
* Ripreso da Francesco Erspamer è professore di studi italiani e romanzi a Harvard; in precedenza ha insegnato alla II Università di Roma e alla New York University, e come visiting professor alla Arizona State University, alla University of Toronto, a UCLA, a Johns Hopkins e a McGill