Dopo due mesi e mezzo di combattimenti nella Striscia di Gaza, le cifre fornite dall’ONU sono impietose e non potevano non essere altrimenti, vista l’aggressività bellicista del governo di Netanyahu e Gantz: i morti palestinesi sarebbero circa 20.000; i feriti circa 50.000. Sette case su dieci sono state bombardate e rase praticamente al suolo. Mancano viveri, acqua, medicine. Gli ospedali rimasti operativi sono senza anestetici, privi dei macchinari necessari alle cure fondamentali e primarie.
La popolazione di Gaza, spinta verso sud dai bombardamenti e dalle indicazioni dell’IDF, non ha più un posto “sicuro” (molto tra virgolette) dove potersi recare, visto che anche Khan Yunis, il principale centro abitato del sud della Striscia, è sotto i bombardamenti incessanti dell’aviazione di Tel Aviv. I campi profughi non vengono risparmiati e, quindi, non esiste praticamente nessuna “zona franca” entro la quale i palestinesi possano dire di avere una qualche speranza di intangibilità, di protezione.
Le risoluzioni dell’ONU per un cessate il fuoco immediato sono state tutte bloccate dal veto americano, mentre l’Organizzazione mondiale della Sanità parla apertamente di una catastrofe umanitaria senza precedenti nella zona mediorientale.
Questa, in sintesi, la fotografia tragica, orrorifica, degli scontri tra Israele e Hamas, pagati con l’alto prezzo delle decine di migliaia di vittime palestinesi, con ancora più di centoventi ostaggi nelle mani del gruppo terroristico, senza alle porte una soluzione anche di breve termine per un conflitto che appare per quello che è: una guerra di sterminio.
Gli Stati Uniti, quando parla Blinken, si spendono in dichiarazioni concilianti, mostrandosi mediatori unitamente al Qatar (che è il principale sponsor di Hamas). Mentre quando parla Biden promettono aiuti militari senza se e senza ma allo Stato ebraico, come stanno esattamente facendo da due mesi a questa parte.
Doppiezza conveniente nello schema multilaterale di una politica internazionale in cui Washington entra con i piedi di argilla, da gigante ridimensionato nel contesto globale, e ne esce con i piedi di piombo, appesantita dalle troppe controversie irrisolte.
Dal fronte russo-ucraino a quello di Gaza, la presenza americana si manifesta oggi tramite un doppio livello di intervento che non riguarda più soltanto il foraggiamento bellico di armi e il sostegno solo militare ai propri alleati. La parte diplomatica è stata rimessa in moto proprio perché i teatri di guerra si sono moltiplicati o, quanto meno, sono aumentati in contesti in cui l’imprevedibilità della rapidità con cui sono sorti e risorti ha messo in difficoltà la Repubblica stellata.
Analisti di una certa caratura asseriscono che, proprio constatando questa difficoltà, gli Stati Uniti continueranno a fare la voce grossa nel chiedere a Netanyahu un contenimento della reazione bellica contro Gaza ma, alla fine, non si opporranno, ad esempio, ad un progetto di definitiva annessione di tutta la Cisgiordania da parte di Israele.
Tra le conseguenze del conflitto in corso nella Striscia, una delle più eclatanti, ma anche non di certo inaspettate, potrebbe essere proprio questa: la strutturazione definitiva del “Grande Israele” dal Golan ai confini con l’Egitto, passando per la West Bank.
Le dichiarazioni del governo di guerra di Netanyahu e Gantz non ne fanno mistero: stanno lavorando a questa idea di annessione totale dei Territori occupati dentro lo Stato ebraico.
Senza più alcuna autonomia per quelle microbiche porzioni di zone cisgiordane ancora sotto il controllo civile e militare dell’ANP. Se Hamas intendeva ottenere un effetto dirompente nel conflitto eterno con Israele, può stare certa di averlo ottenuto. In negativo e con conseguenze disastrose per tutto il popolo palestinese
L’odio colonico, razzista, xenofobo, letteralmente integralista e reazionario dei più fanatici nazionalisti religiosi sionisti, si sta manifestando da due mesi indisturbato, ed anzi sostenuto dall’esercito che non ferma le violenze contro i palestinesi, che non fa assolutamente nulla per contenere la brutalità degli espropriatori di case e terre.
Alla violenza dell’IDF nella Striscia di Gaza corrisponde quella dei coloni israeliani in Cisgiordania. Marciano di pari passo nella direzione della resa dei conti con ciò che rimane tanto del popolo quanto delle istituzioni palestinesi. Se è impossibile dare nitidezza al quadro complessivo che la guerra costruisce giorno dopo giorno e, quindi, risulta davvero difficile prevedere un esito finale del conflitto, non è inutile avere le proporzioni del dramma in corso.
L’enorme differenza, in termini di omicidi, di negazione delle vite umane, è oggi un dato che fa riflettere sulla brutalità tanto dei terroristi di Hamas quanto del terrore che lo Stato israeliano diffonde su quello che rimane della Palestina impropriamente detta sul piano istituzionale e di quello che resta dei milioni e milioni di persone che la abitano.
Non va dimenticato che, all’origine di questa nuova fase del conflitto israelo-palestinese, c’è il fallimento totale (o almeno questo è quello che siamo tutti portati a ritenere dai dati attualmente in nostro possesso, da ciò che ci è possibile sapere e constatare con un certo margine di oggettività) dello Shin Bet, di Tzahal e dello stesso governo di Netanyahu che sarebbero rimasti all’oscuro dei propositi di Hamas prima, durante e persino in parte dopo quel tragico 7 ottobre.
Alcune agenzie di stampa hanno azzardato notizie, arrivate da fonti tutte da verificare, secondo cui da ben un anno prima vi fossero delle avvisaglie della preparazione di una operazione su vasta scala contro Israele che sarebbe partita dalla Striscia di Gaza.
Eppure, quel giorno fatidico, il giorno in cui i kibbutz limitrofi al confine che doveva essere insuperabile e guardato a vista dall’esercito e dall’aviazione, le truppe di Hamas sono riuscite ad abbattere le barriere, a penetrare nel territorio israeliano e ad uccidere più di 1.200 persone e a ferirne centinaia.
Riesce davvero molto difficile pensare che, con tutte le tecnologie moderne di cui dispongono gli apparati di sicurezza, dietro all’idea pressoché incontestabile di un Israele con i migliori servizi di sicurezza al mondo, armato fino ai denti e capace di annientare i palestinesi nel giro di poche settimane, Hamas si sia buttata in questa tremenda, avventuristica guerra senza valutarne le conseguenze.
Se davvero ritenevano possibile prevalere in qualche modo, avevano sottovalutato tanto la questione dal punto di vista strettamente locale e regionale, quanto, soprattutto, sul piano internazionale. Come questo sia potuto essere, visto che né i dirigenti di Hamas né quelli dello Stato ebraico sono platealmente degli sprovveduti, sarà tema di discussione e di scrittura, di analisi e di sintesi per la storiografia a venire.
Quello che è certo, sia il Medio Oriente, sia la Palestina, sia Israele stesso vedranno riconfigurarsi i rapporti nell’immediato, con un allargamento dell’imperialismo sionista entro i confini naturali dal Giordano al Mediterraneo, dalle alture del Golan al Sinai, con una riconsiderazione dei bilateralismi tra gli Stati dell’area mediorientale e con un nuovo assetto strategico tra gli Stati Uniti, la Cina, la Russia e, osiamo…, persino la debolissima Europa in una involuzione ulteriore nel confronto tra poli nettamente opposti.
L’indiscutibile intangibilità dell’eccellente deterrenza israeliana nei confronti dei propri nemici viene, a partire dal 7 ottobre, se non meno, sicuramente fortemente ridimensionata. Nulla è più così certo se non quello che la guerra può portare avanti con la sua reazione brutale, feroce, annichilitrice.
L’unica risposta possibile di Tel Aviv sembra, dunque, la tabula rasa: per farla finita una volta per tutte con la questione palestinese, andando ben oltre la ricerca dei terroristi e il loro annientamento come rappresaglia per i morti israeliani.
Non siamo, quindi, in presenza di una semplice (si fa per dire…) involuzione etnocentrica del sionismo politico-religioso, di una rivincita della destra israeliana che ha perso praticamente la faccia del guardiano invincibile della sicurezza del proprio popolo contro i suoi nemici. Siamo in una fase completamente nuova del conflitto: una fase in cui la partita in gioco è, letteralmente, la sopravvivenza di un intero popolo senza più un briciolo di anche solo immaginato Stato, senza più terra, senza alcuna libertà.
L’annuncio da parte di Netanyahu della costituzione di un comitato che si occupi della “piena sovranità israeliana” nei Territori occupati è il primo passo verso un dopoguerra in cui non vi sarà posto per i palestinesi in Palestina.
A meno che la politica degli Stati Uniti d’America non cambi: dentro e fuori l’ONU. E non si separi da quella intransigenza della destra omicida israeliana che mette sul terreno, se non una pulizia etnica dichiaratamente tale, di sicuro tutti i presupposti perché questo si verifichi con l’alibi del suggerimento indotto dalla guerra.
Il sostegno indiano alla causa israeliana, che con Modi fa un salto di qualità rispetto alla storica vicinanza al popolo palestinese, mette l’accento sull’enorme impatto mondiale di una questione che non è restringibile al solo contesto regionale del Medio Oriente.
Le analogie che i vari potenti Stati emergenti leggono nel conflitto tra Tel Aviv e Hamas ma, in particolare, in quello storico tra Stato ebraico e OLP, proprio in merito al rapporto di dipendenza e indipendenza, mette in luce una serie di contraddizioni che non sono soltanto tipiche di Cisgiordania o Gaza.
Se osserviamo, per l’appunto, l’India, l’annoso problema tra Nuova Delhi e la regione del Kashmir ricalca in sé tante analogie tanto con l’etnocentrismo quanto con l’indipendentismo. La sindrome da “villaggio globale” qui diventa praticamente un tratto comune a molte aree del mondo e fa, molto poco distintamente, dell’unicità mondiale una caratteristica adatta soltanto per dimostrare come ci si somigli nei conflitti e ci si differenzi tanto ampiamente nella distensione delle relazioni e nei confronti diplomatici.
La tragedia palestinese, così, assurge a paradigma moderno di una serie incalcolabile di rivolte secolari che il capitalismo non è riuscito a sedare, a sopprimere nel silenzio del consumismo dilagante, nell’anestetizzante ed eterea fascinazione della bellezza tecnologico-fantascientifica di una società arrivata al punto del suo “massimo sviluppo”.
Il dramma del popolo palestinese è un punto chiave nella rielaborazione mnemonica del passato, nella sua attualizzazione nel presente, nella sua immaginazione in un futuro in cui le categorie uscite fuori dal secondo conflitto mondiale sembrano veramente tutte confusamente alterate, sovvertite, capovolte.
Al punto che, pochi giorni fa, David Azoulai, sindaco di Metulla (cittadina israeliana al confine con il Libano) si è spinto a dire che Gaza dovrebbe diventare l’Auschwitz dei palestinesi: «L’intera Striscia di Gaza deve essere svuotata. Rasa al suolo. Come Auschwitz. Facciamone un museo perché tutto il mondo veda cosa Israele può fare. Dovrebbe assomigliare al campo di Auschwitz».
E’ sufficiente questo per capire a che punto siamo arrivati?
MARCO SFERINI