Le multinazionali sbandierano la decarbonizzazione ma non agiscono abbastanza © Jack Young/Unsplash
Con una lettera, 131 multinazionali chiedono di abbandonare i combustibili fossili. Ma faticano ad agire concretamente in prima persona
97mila persone accreditate, tra delegazioni, giornalisti, organizzazioni non governative, staff organizzativo, tecnici e così via: il doppio rispetto alla precedente edizione. Basterebbe questo numero per far capire quanto la Cop28 di Dubai si sia presa il suo (considerevole) spazio nell’agenda politica e mediatica, complice anche la monumentale opera di comunicazione messa in campo dagli Emirati Arabi Uniti. Il mondo delle imprese non poteva esimersi dal prendere posizione sul tema che più lo riguarda in prima persona, la decarbonizzazione dell’economia. Così, prima dell’inizio dei negoziati, 131 multinazionali, sotto l’egida della coalizione We Mean Business, hanno chiesto ai governi di fare sul serio. Dedicandosi alla causa numero uno dei cambiamenti climatici: l’uso dei combustibili fossili.
Cosa dice la lettera della coalizione We Mean Business
L’iniziativa nasce da 131 multinazionali che, messe insieme, raggiungono i 987 miliardi di dollari di fatturato annuo. Nomi del calibro di Danone, Decathlon, Nestlé, Unilever, Vodafone e molti altri, attraverso una lettera, si impegnano per la transizione verso le energie rinnovabili. Ma chiedono di non essere lasciate da sole.
«Le istituzioni finanziarie, i produttori di combustibili fossili e i governi hanno ruoli cruciali», scrivono. Le prime hanno il compito di allocare i loro capitali verso le energie pulite. I secondi devono dirottare gli investimenti dalle energie fossili alle rinnovabili, per dimezzare le emissioni di gas a effetto serra entro il 2030 e decarbonizzare il sistema economico entro il 2050. I governi, infine, hanno la responsabilità di creare le condizioni affinché tutto questo accada.
«Invitiamo tutte le parti presenti alla Cop28 a Dubai a cercare risultati che gettino le basi per trasformare il sistema energetico globale verso una completa eliminazione graduale dei combustibili fossili e il dimezzamento delle emissioni nell’arco di questo decennio. Ciò diventa possibile concordando l’obiettivo globale di triplicare la capacità di energie rinnovabili installate fino ad almeno 11mila GW e raddoppiare il tasso di sviluppo dell’efficienza energetica entro il 2030».
Ma le multinazionali stanno facendo la loro parte per il clima?
Le multinazionali si sentono in diritto di lanciare questo appello perché hanno un peso specifico notevole, all’interno del sistema economico globale. In ragione di questo, scrivono, «ci stiamo attivando e stiamo lavorando per abbandonare gradualmente l’uso dei combustibili fossili. Ecco perché stiamo fissando obiettivi basati sulla scienza, sviluppando piani d’azione sulla transizione climatica, investendo sulle soluzioni per il net zero e rendendo noti i nostri progressi».
Ma le cose stanno davvero così? Arrivano segnali contrastanti dagli ultimi dati di Climate Action 100+, una coalizione di oltre 700 investitori – con oltre 68mila miliardi di asset in gestione – che hanno deciso di tenere sotto controllo le 170 aziende responsabili della maggiore quantità di emissioni
La maggior parte di queste multinazionali – si legge – «non si sta muovendo abbastanza velocemente per allinearsi agli obiettivi dell’Accordo di Parigi». In particolare, il 59% ha identificato le azioni necessarie per rispettare le proprie promesse di riduzione delle emissioni, ma in molti casi senza quantificare il loro impatto concreto, così come il peso della compensazione e delle tecnologie per la riduzione.
È vero poi che l’82% delle imprese monitorate ha fissato un obiettivo di abbattimento delle emissioni a lungo termine. Ma è vero anche che soltanto nel 37% dei casi esso comprende anche lo Scope 3, cioè le emissioni indirette legate alla filiera. Che, spesso, sono l’assoluta maggioranza. E appena il 30% di questi obiettivi a lungo termine è compatibile con il contenimento del riscaldamento globale entro gli 1,5 gradi. La soglia che, a detta degli scienziati, ci separa dalla catastrofe climatica.